La denuncia di medici e infermieri: cinque grandi ostacoli al digitale

Praticamente tutti gli analisti condividono la sensazione che dopo qualche anno di attesa stia finalmente per decollare il mercato dell’IT per la sanità e – più in generale – dell’e-Health.
Ma se lo chiediamo agli operatori sanitari, le risposte indicano almeno cinque fattori critici capaci di inficiare il successo dell’operazione

Pubblicato il 20 Apr 2016

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Di quanto il Servizio Sanitario Nazionale abbia bisogno di razionalizzazione, e di quanto le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni siano capaci di facilitare una imponente azione di revisione dei processi di erogazione dei servizi sanitari, si è già detto moltissimo. Tanto che non c’è più niente da dire, se non che è finalmente giunta l’ora di passare dalla teoria alla pratica, dalla narrazione all’execution.
Può essere invece interessante tentare di comprendere in profondità le motivazioni del ritardo che stiamo accumulando: perché questa benedetta sanità digitale non decolla nella sua componente pubblica, quella che afferisce al sistema “Stato/Regioni/ASL”?
Come sempre, aiuta non poco fare due chiacchiere con chi la sanità la vive quotidianamente in prima linea: medici, infermieri e – perché no – pazienti. Si riesce a costruire un’esauriente lista degli errori da evitare e delle keywords da stampare in corpo 48 grassetto evidenziato fluo.

Partiamo dalle keywords, raccogliendo le principali e maggiormente ricorrenti all’interno dei dialoghi con gli operatori sanitari.
Con una premessa: la domanda di innovazione e di tecnologie in ospedale e sul territorio è fortissima, e – per quanto strano e “contro tendenza” possa sembrare – le competenze non mancano. Così come non manca la confidenza verso la digitalizzazione, con alcuni “purchè” di contorno.
Benvenuta l’innovazione tecnologica e la completa digitalizzazione della sanità, quindi.
Purchè …

Purché si mantenga una rigidissima focalizzazione sui processi.
Non si digitalizza l’esistente, in poche parole: si approfitta della disponibilità di tecnologia per ripensare (omogeneizzandoli tutto laddove possibile, a livello quantomeno regionale) i processi di erogazione delle prestazioni sanitarie in ospedale e sul territorio.
Non ha più senso (e non porta da nessuna parte) l’approccio della “fantasia al potere” basato sull’adozione di decine/centinaia di soluzioni applicative rigorosamente non comunicanti fra l’oro all’interno di ogni singola ASL o di ogni singolo ospedale.
L’Italia rimane probabilmente l’unico baluardo difeso a spada tratta e a secchi d’olio bollente da una pletora di fornitori concentrati nel difendere l’installato esistente e nel farsi pagare a caro prezzo qualsiasi componente finalizzato a costruire l’interoperabilità. In molti casi, la sanità pubblica italiana spende più denari per garantire il dialogo fra i silos di quanto spenda per il software applicativo.
Ci si augura un futuro sempre più caratterizzato dall’imporsi delle soluzioni ERP, con la speranza che almeno i più illuminati fra gli attuali Indipendent Software Vendor di matrice nazionale sappiano trovare la voglia e il coraggio di investire su nuovi prodotti o di abbandonare l’autoproduzione di software verticale “perdente per definizione” (impossibilità di raggiungere massa critica di installato) trasformandosi in centri di competenza su grandi piattaforme ERP di respiro sovranazionale.

Purché si esca dall’autoreferenzialità degli zero e degli uno.
Ciò di cui molti operatori sanitari italiani si lamentano è l’eccessiva tendenza all’autoreferenzialità degli informatici: molto del software realizzato si dimostra lontanissimo dalle esigenze quotidiane degli utenti.
Anche in questo caso siamo di fronte a qualcosa di “molto italiano”, se consideriamo che in altri Paesi (non a caso leaders nella digitalizzazione in sanità) sovente troviamo medici in posizioni chiave fra gli ISV e i system integrator specializzati.

Il “problema privacy”
Si fa ogni giorno più evidente lo scollamento fra esigenze complessive del sistema sanitario e limitazioni a (presupposta) tutela della privacy dell’assistito/paziente.
L’autorità garante fatica a considerare la sanità come un insieme di processi fortemente condiviso fra soggetti anche appartenenti a organizzazioni differenti. Assumere decisioni cliniche è sempre più il risultato di consulti e di processi collaborativi fra professionisti, a volte anche molto distanti geograficamente fra loro.
Affermare che la cartella clinica di un paziente “X” può essere acceduta solamente dal medico “Y” o, peggio ancora, che un singolo dato all’interno di un dossier clinico deve sottostare a forti limitazioni nell’accesso remoto significa vanificare qualsiasi sforzo finalizzato a costruire infrastrutture integrate (ERP clinico) o comunque fortemente interoperabili (Enterprise Bus) basate sulla completa accessibilità di tutti i dati da parte di chiunque ne possieda titolo (permanente o temporaneo, legato a un singolo evento).
Siamo di fronte a un’authority a volte più realista del re: soprattutto, siamo di fronte a una notevole difficoltà nel comprendere che il diritto alla privacy dell’assistito/paziente non può in nessun caso risultare preminente rispetto al diritto collettivo alla responsabilizzazione dei “clienti” e degli “agenti” del Servizio Sanitario Nazionale.

Abbattimento delle fortificazioni.
Il rapporto fra postazioni di lavoro informatizzate e personale sanitario negli ospedali del Nord e del Centro Italia (al Sud manco rispondono alla domanda, quando gliela poni), in media, è una frazione che assomiglia molto a 1 a 2,5.
Poco, troppo poco.
Medici e infermieri che una volta finito il giro visita o la somministrazione terapie si litigano il PC coi colleghi per poter aggiornare dossier e cartella.
Gli stessi medici e gli stessi infermieri hanno nella stragrande maggioranza dei casi in tasca o in borsa uno smartphone e/o un tablet. Ma non possono connettere questi devices alla rete dell’ospedale e quindi al sistema informativo “ufficiale”.
Quello che in tutto il resto del mondo si chiama “BYOD” (bring your own device), non si sa perché ma negli ospedali pubblici italiani (così come in tutta la PA) è assolutamente proibito. Salvo rarissime eccezioni.
Questa inspiegabile chiusura dei CIO (e dire che bastano pochi e semplici accorgimenti per rendere sicurissimi gli accessi dai devices personali dei dipendenti) genera la crescita incontrollata di fenomeni riconducibili allo “shadow IT”: si moltiplica l’utilizzo di sistemi informativi “paralleli e clandestini”, capaci di fornire supporto a medici impossibilitati ad accedere coi loro smartphone e tablet alle reti aziendali.
Con buona pace dei CIO di riferimento (quasi sempre inconsapevoli), esistono in Italia almeno 5-6 “grandi reti shadow” in altrettanti grandi strutture ospedaliere pubbliche, vere e proprie infrastrutture IT parallele condivise da un discreto numero di medici “tecno-disubbidienti”. Per non parlare dello shadow IT “individuale”, ossia di quelle soluzioni “clandestine” utilizzate da singoli operatori sanitari che per diversi motivi non possono o non riescono a interagire coi sistemi informativi “ufficiali” o (molto più spesso) non ritengono questi ultimi adeguati al soddisfacimento delle loro necessità.

Pianificazione strategica dell’innovazione
L’innovazione tecnologica non può e non deve essere “altro” rispetto alla strategia complessiva aziendale. Questo assunto vale ovviamente anche per la sanità pubblica, a dispetto di quanto sembra purtroppo accadere quotidianamente.
Se analizziamo con attenzione le priorità di investimento dichiarate dai CIO di sanità pubblica e le confrontiamo con le priorità strategiche dei Direttori Generali di aziende sanitarie e ospedaliere, otteniamo un quadro molto spesso sconfortante, dove la sensazione dominante è che – come dicevamo poco fa parlando di “autoreferenzialità degli zero e degli uno” – gli informatici e i medici siano vittime di una sorta di condanna all’incomunicabilità permanente.
Aiuterebbe moltissimo, sulla falsariga di quanto succede in molti altri Paesi, una sanità dove i CIO sono medici o ingegneri gestionali molto (ma molto) capaci di tenere costantemente aperti i contatti con gli operatori sanitari.

Sono questi i cinque principali “purché” posti di fronte all’interruttore principale dell’innovazione tecnologica in sanità. I cinque argomenti forti che gli operatori sanitari ritengono esiziali rispetto a qualsiasi tentativo di portare la sanità italiana quantomeno ad assomigliare a quella dei principali Paesi OCSE dove la digitalizzazione è entrata a far parte del quotidiano persino banale a partire dagli studi dei medici di famiglia per arrivare in corsia d’ospedale e al domicilio del paziente.
Aldilà delle leggende metropolitane, gli operatori sanitari sono molto interessati e desiderosi di poter utilizzare le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni durante il loro operare quotidiano.
“Patto” dovrebbe essere anche questo: coinvolgere medici e infermieri nel co-design delle soluzioni, e soprattutto dei processi sottostanti, dove il focus è rappresentato dalla costante ricerca di razionalizzazione a quantità e qualità di prestazioni rese assolutamente invariate.
Tutto il resto è noia, e vano pushing tecnologico.

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