Gli studi

Viralità e social media: l’emozione che contagia

L’attivazione emotiva aumenta di 30 per cento la probabilità che un messaggio sia virale, se causata da un’emozione positiva questo 30 per cento viene incrementato di un altro 30 per cento. Vediamo lo stato dell’arte del dibattito

Pubblicato il 17 Ott 2014

Nicola Strizzolo

docente associato Sociologia Università di Teramo

digital emotion regulation

Lo studio della diffusione virale di un contenuto ha raggiunto una sua maturità e dettaglio anche grazie alla possibilità di analisi che il web offre: i più popolari social network e UCG presentano infatti – come noto – il numero di visualizzazioni ed indicizzano i contenuti più visitati.

Se questo offre una possibilità non da poco al crowdsourcing dell’industria culturale, per scoprire idee, formati e autori dai milioni di clic, permette anche a noi ricercatori di puntare all’analisi del contenuto e di ciò che ruota attorno a video nei quali bambini di tre anni descrivono il loro punto di vista su Guerre Stellari (“Star Wars according to a 3 year old”, più di 22 milioni di visualizzazioni, www.youtube.com/watch?v=EBM854BTGL0), un ragazzotto in carne fa un improbabile performance in playback (“Numa Numa”, più di 54 milioni di visualizzazioni) www.youtube.com/watch?v=60og9gwKh1o) e un fratellino di pochi mesi morde al dito a quello poco più grande, con un risultato che appare incredibile: questa è la cifra che compare come visualizzazioni alle ore 12.13 di sabato 11 ottobre, dopo 7 anni della sua messa online, “781.477.576” (“Charlie bit my finger”, www.youtube.com/results?search_query=Charlie+bit+my+finger).

Solo di recente, e dall’analisi dei contenuti virali in rete, è stato dato ampio spazio alle emozioni.

Studi precedenti, tra i quali il più conosciuto quello di Everett Rogers (“Diffusion of Innovation”, 1962), puntavano sulle caratteristiche che un’idea (non soltanto una tecnologia ma anche un nuovo utilizzo pratico delle stesse, una nuova procedura, una nuova filosofia pratica di assetti organizzativi) deve avere per trovare ampia e rapida diffusione.

Erano ricerche focalizzate sulle innovazioni e attraverso teorie e casi, anche storici, di sociologia rurale, di scienze della comunicazione e di sociologia della salute suddividevano le categorie di coloro che adottavano una tecnologia sulla base delle tempistiche (determinate dal profilo degli utilizzatori) nelle famose classi – da allora ancora ampiamente utilizzate – degli “innovatori”, “early adopter”, “prima maggioranza”, “seconda maggioranza” e “ritardatari”.

La cosa più importante, per costruire l’immaginario di un’innovazione (senza un pregresso non vi può essere un’esperienza o una storia, per cui non possiamo parlare di reputazione e senza una percezione esperita tantomeno di immagine) sono le caratteristiche attribuibili alle stesse: vantaggi nell’utilizzo, compatibilità con ciò che preesiste (quello che oggi viene chiamato “impatto”), complessità, sperimentabilità e risultati osservabili e tangibili.

Nessun riferimento invece alle emozioni, se non indirettamente nelle preoccupazioni che subentravano di fronte alla complessità e all’incompatibilità con il preesistente. Però una cosa era chiara: la diffusione più ampia e rapida di un’innovazione avveniva per contagio, coloro che vengono colpiti positivamente da un’innovazione contagiano gli altri, lo stesso vale per la delusione ad un’innovazione.

Altre ricerche invece hanno studiato i classici rumor e la loro diffusione (Bell and Sternberg; 2001), concludendo che la viralità degli stessi dipende dal disgusto che possono evocare e dal grado di incertezza sociale rispetto all’importanza delle informazioni e dell’ambiguità che riducono. Conclusioni non distanti dai primi studi sulla teorie dell’informazione – il valore dell’informazione è dato dall’ambiguità che riduce- (Shannon e Weaver, 1949) e da considerazioni sulla Spirale del silenzio – in tempi di crisi sociale è molto attivo il termometro individuale dell’opinione comune per ridurre l’incertezza sulla cosa più opportuna da condividere- (Noelle-Neumann, 1982).

Una trentina di anni dopo fu Chandrasekhar, in “Verità e bellezza. Le ragioni dell’estetica nella scienza” (1990) a portare alla ribalta le emozioni che guidano la ricerca scientifica, enucleabile di fatto nel concetto di bellezza (della quale alcune caratteristiche, nell’ambito formale delle teorie sono: semplicità, armonia e simmetria) e dei sentimenti che essa sprigiona.

Furono ampi sforzi di divulgazione di più ricerche sul campo di studi clinici sul legame tra emozioni e cervello, come ad esempio quelli di Sachs o di Klein, a rendere più popolari le teorie che puntavano alle emozioni come chiavi di volta tra la ragione e l’azione, per tutto il bagaglio chimico che le emozioni inducono. Ci riferiamo ad importanti libri di divulgazione come “L’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello” (Sachs, 1985) o “La formula della Felicità” (Klein, 2003). Opere non certo criptiche e per specialisti, ma che facilitano la comprensione anche a coloro che si affacciano da altre discipline all’importanza di quello che avviene dentro la macchina cervello quando i sensi vengono stimolati da emozioni.

Percorso simile è stato quello che ha cercato di individuare la viralità dei contenuti in Internet, si è infatti partiti da aspetti di forma e formati del contenuto: posizionamento dello stesso; quantità di informazioni/testo; utilizzo di un linguaggio forte; predominanza delle immagini sul testo; numero di visualizzazioni (esplicitato nel messaggio).

Secondo alcune di queste ricerche, gli aspetti che rendono maggiormente virale un contenuto del web è l’utilizzo di un’immagine e il poter vedere che quel contenuto è stato visualizzato da un numero eccezionalmente alto di persone.

Due critiche fondamentali a queste conclusioni: affermare che verrà cliccato maggiormente ciò che è già stato cliccato da un numero considerevole di persone, non ci dice, lì dove il numero di clic non è stato gonfiato artificialmente, che cosa ha indotto i clic quando quel numero non era ancora alto; sostenere che l’immagine vince sul testo ha la stessa portata innovative dello scoprire che l’homo sapiens sapiens non vive sugli alberi.

La ricerca, sempre per comprendere la viralità dei messaggi, si è mossa poi anche all’interno della network analysis, capace di monitare, sotto l’aspetto quantitativo, la condivisione attraverso social network online di un dato messaggio (un commento, la notizia di un fatto, una foto), condiviso, likato o ritwittato, facilitando così l’ipotesi di associazioni tra il contenuto e la sua viralità.

Ma la viralità di un messaggio rispetto ad un altro, non si è ancora piegata a modelli predittivi matematici, tanto da far scricchiolare il paradigma unificante la computer science e far nascere una nuova disciplina: la web science, che incrocia, utilizza e si confronta con studi psicosociali.

Sotto questo ambito trovano sviluppo infine interessanti ricerche, che relazionano le emozioni che un messaggio è capace di evocare con la sua viralità.

Nell’articolo “What Makes Online Content Viral?” pubblicato sul Journal of Marketing, due professori della University of Pennsylvania, Berger e Milkman, hanno studiato il legame da un punto di vista emozionale tra utenti e contenuti e confermano che la popolarità di un contenuto è fortemente influenzata dal livello di eccitazione emotiva che riesce a generare.

Più alto è il livello della spinta emotiva generata, sia essa positiva o negativa, maggiore è la possibilità che il contenuto divenga virale.

Per dimostrarlo realizzarono uno studio empirico nel tentativo di comprendere quale fosse il fattore scatenante di ogni processo virale di successo. Analizzando oltre settemila articoli pubblicati sul New York Times tra il 30 agosto e il 30 novembre 2008, i due studiosi scoprirono che gli articoli erano più condivisi (al tempo, via e-mail) tanto più soddisfavano due requisiti: il livello di eccitazione causato nel lettore («stupire, sbalordire») e la positività del messaggio in essi contenuto («soffocare il dolore»). In generale, osservarono Berger e Milkman, gli articoli in grado di provocare emozioni ottennero risultati migliori di quelli che non ne suscitavano nessuna: ancora meglio se queste emozioni avevano una connotazione positiva. Dopo aver analizzato un caso specifico, quello appunto del New York Times, i due studiosi effettuarono alcuni test in laboratorio, proponendo articoli diversi ad un gruppo di lettori e osservando le reazioni di questi ultimi, con particolare attenzione al modo in cui essi giudicavano ogni contenuto meritevole o meno di essere trasmesso: anche in questo caso, le storie in grado di scatenare emozioni forti furono condivise con maggiore frequenza, e quando i ricercatori manipolarono i titoli degli articoli per dare loro duplice connotazione, positiva e negativa (ad es. a “La persona è ferita” si affiancò “La persona ferita è in via di guarigione”), scoprirono che una ventata di positività era in grado di rendere un contenuto decisamente più popolare.

Il titolo, specie se ottimista, contribuiva maggiormente, come anche il posizionamento dell’articolo stesso. Di fatto, questo, studio, poi condiviso e approfondito da ricerche positive conclude sostenendo che l’attivazione emotiva aumenta di 30 per cento la probabilità che un messaggio sia virale, se causata da un’emozione positiva questo 30 per cento viene incrementato di un altro 30 per cento. Unica emozione da non utilizzare: la tristezza, deattivizza emotivamente e riduce del 16 per cento la probabilità che un messaggio sia virale.

A questi studi nel corso del tempo se ne aggiungono altri che su alcuni soggetti volontari hanno permesso di studiare l’influenza sulle reazioni biometriche come il respiro o il movimento oculare in relazione ai contenuti virali. In questo caso i risultati quantitativi hanno confermato quelli qualitativi: l’emozione provoca la viralità del contenuto.

La scala delle emozioni utilizzate, nell’ambito qualitativo è quella creata da Damasio: gioia, tristezza, collera, paura e disgusto.

Infine, uno degli studi più aggiornati, ha collocato situazionalmente l’emozione più forte nel produrre viralità. Il paradigma è sempre lo stesso, l’emozione attiva il soggetto e produce desiderio di condivisione, ma vi sono contesti culturali, brand, tipologie di campagne, che rendono più adatta un’emozione di un’altra: la gioia è più adatta per accompagnare marchi irreverenti o divertenti, come Virgin o Apple, oppure per raggiungere l’interesse di una categoria di pubblico adulta o infine per rivitalizzare l’immagine di un brand; la tristezza, in rarissimi casi, può essere utilizzata nell’attivare un impegno a breve termine, come la raccolta fondi immediatamente dopo un disastro; la rabbia produce reazioni immediate a ingiustizie subite; la paura è da evitare, anche per quelle campagne contro le cause che provocano incidenti, si associa altrimenti a sensi di colpa; il disgusto attiva un target giovane, può utilizzarsi per brand legato ad uno stile ribelle, vi sono culture che lo apprezzano come umorismo (Giappone, Germania, Isole del Pacifico) e di più dagli uomini (63 per cento) rispetto alle donne (37 per cento).

Le influenze culturali, come si è appena visto per il disgusto, hanno il loro peso, un altro esempio è quello delle popolazioni asiatiche per le quali la tristezza non è una cosa negativa, ma un momento necessario verso la via di una salvezza.

Se la bellezza salverà il mondo, l’emozione la condividerà.

Riferimenti

Angela Dobele, Adam Lindgreen, Michael Beverland, Joëlle Vanhamme, Robert van Wijk (2007). Why pass on viral messages? Because they connect emotionally, Business Horizons (2007) 50, 291–304

Elsamari Botha and Mignon Reyneke (2013). To share or not to share: the role of content and emotion in viral marketing, Journal of Public Affairs Volume 13 Number 2 pp 160–171 (2013)

Jonah Berger and Katherine L. Milkman (2013). Emotion and Virality: What Makes Online Content Go Viral?, Insights / Vol. 5, No. 1, 2013

Jonah Berger and Katherine L. Milkman. What Makes Online Content Viral? (2012), Journal of Marketing Research, Vol. XLIX (April 2012), 192 –205

Karen Nelson-Field, Erica Riebe, Kellie Newstead (2013). The emotions that drive viral video, Australasian Marketing Journal 21 (2013) 205–211

Lucy L. Henke (2013). BREAKING THROUGH THE CLUTTER: THE IMPACT OF EMOTIONS AND FLOW ON VIRAL MARKETING, Academy of Marketing Studies Journal, Volume 17, Number 2, 2013

Stefan Stieglitz and Linh Dang-Xuan (2013). Emotions and Information Diffusion in Social Media—Sentiment of Microblogs and Sharing Behavior, Journal of Management Information Systems / Spring 2013, Vol. 29, No. 4, pp. 217–247.

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