Scuola, i sette criteri da seguire per un uso mirato della tecnologia

Gli insegnanti sono già preoccupati dal dilagare di schermi nelle vite extra scolastiche dei ragazzi. I migliori progetti di Scuola innovativa ne fanno un uso mirato e circoscritto. Vediamo come

Pubblicato il 16 Ott 2014

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Ringrazio Agenda Digitale e Paolo Ferri per l’attenzione alle tesi del mio libro Contro il colonialismo digitale. In questo breve intervento vorrei chiarire la posizione che sostengo. La discussione su digitale e scuola tende a essere molto polarizzata tra “luddisti” ed “evangelisti”, e l’articolo di Ferri fa pensare che io sia un luddista. Per me è importante mostrare che non ho questo tipo di preconcetti (ma perché mai? per esempio non ho mai scritto “si stava meglio quando si stava peggio”; e che senso ha un titolo come “dilaga la tecnofobia”? Quale “forza inaudita” starei dispiegando, e che “pericolo” rappresenterei?) – e in effetti, basta pensarci un attimo ed essere un tantino pragmatici, a chi potrebbe giovare un dialogo tra sordi?

Per chiarire meglio, vorrei cominciare proprio dalla soluzione dell’integrazione delle nuove tecnologie nel percorso scolastico. Perché la soluzione non solo esiste, ma è a portata di mano.

La soluzione è questa: si tratta di utilizzare le nuove tecnologie a scuola in modo assai mirato, e chiaramente circoscritto nel tempo e nello spazio. Ho avuto modo di osservare da vicino una scuola elementare pubblica, nello stato del New Hampshire. Per i 450 allievi sono presenti una trentina di computer da tavolo, in sala informatica, e una trentina di tablet, su un carrello che gira per le classi. Si tratta di materiale di ultima generazione. A rotazione, gli studenti vanno in classe di informatica, a partire dalla terza elementare. A rotazione, i tablet entrano nelle classi, a partire dalla quarta. Per fare cosa? L’uso è molto mirato: apprendimento delle azioni di base di creazione e di salvaguardia dei files; apprendimento della videoscrittura; apprendimento della consultazione di fonti. A un livello più avanzato, i computer vengono utilizzati per insegnare i rudimenti della programmazione, usando il software Scratch sviluppato da MIT.

Gli insegnanti da me contattati e intervistati sono del tutto soddisfatti di questo uso circoscritto. Sono infatti preoccupati della sovraesposizione agli schermi cui gli allievi vanno già incontro nella vita quotidiana, extrascolastica. Questi insegnanti dedicano molto tempo ad attività assolutamente tradizionali che richiedono la manipolazione di penne, matite, carta, materiali concreti – atomi, non elettroni. Ci sono momenti di lettura silenziosa e di lettura ad alta voce (utilizzando libri dalla fornitissima biblioteca). L’insegnante legge ad alta voce agli allievi al ritmo di un libro alla settimana. E la struttura molto libera dell’insegnamento fa sì che si sperimentino pedagogie relativamente innovative: per esempio in quarta elementare vengono insegnate le basi della statistica – con carta e penna. Questo per dire che un uso limitato ed accorto della tecnologia non sembra dover suscitare ansie da ritardo scolastico come quelle discusse da Ferri nel suo articolo.

Per finire, la scuola risparmia: 60 computer invece di 450. Al 13% del costo di un investimento del tipo “un tablet in ogni cartella”, si possono anche assorbire i tempi rapidissimi di obsolescenza delle nuove tecnologie.

Prima di commentare la soluzione, vorrei anche dipanare un equivoco. Non faccio parte dalla categoria dei nostalgici del libro di carta e della classe frontale. L’innovazione pedagogica è il mio chiodo fisso. Due parole sul mio percorso. Filosofo di formazione e professione, ho lavorato negli anni ’90 a stretto contatto con ricercatori in intelligenza artificiale (ho scritto con Achille Varzi delle complesse assiomatizzazioni per alcuni settori di rappresentazione della conoscenza), ho co-progettato la prima versione della piattaforma interdisciplines.org per ospitare dibattiti online, ho partecipato a progetti europei (Enactive e LiquidPublications, quest’ultimo sulle pubblicazioni scientifiche in internet), e faccio parte del think tank Compas (Ecole Normale Supérieure) su nuove tecnologie ed educazione. Ho formato ricercatori oggi molto attivi sul fronte del digitale (Dario Taraborelli, che dirige il settore di ricerca della Wikimedia Foundation) e dell’educazione (Elena Pasquinelli, ricercatrice alla Main à la Pâte, autrice di Irresistibili Schermi, con cui ho scritto un progetto di ricerca sulle basi cognitive dell’insegnamento.) Ho anche progettato software educativi per la matematica e l’astronomia (Peano, con Claudio Beorchia, e Astrini, con Glen Lomax – versione beta in test), e nel libro Dov’è il Sole di notte dedico un capitolo alle istruzioni per un uso creativo del software Stellarium. Questo per dire che non sono certo un nemico del digitale. Se non bastasse, tra i miei colleghi e conoscenti sono stato tra i primi a utilizzare un tablet (in formato slate A4, con penna elettronica, che uso dal 2007 – e continuo ad usare perché mi permette di annotare i pdf che con tutto che siamo in un’epoca digitale saranno ancora per un bel po’ in formato A4, figlio della carta, quasi illeggibili sui tablet oggi in voga.) E tra i miei colleghi sono stato tra i primi a usare blog e altri strumenti per interagire con gli studenti. Ho organizzato e tenuto corsi su come editare Wikipedia. Tra l’altro parlo di molto di tutto questo nel libro, e sono un po’ perplesso di fronte alla recensione decisamente selettiva di Ferri…

Continuo a leggere su carta? Sì. E allora? Attenzione, non sono nemmeno un pentito del digitale. Non è questo il punto. In Contro il colonialismo digitale ho cercato di attrarre l’attenzione sui limiti, ormai chiarissimi e ben supportati da montagne di studi empirici, di una concezione estrema – sostitutiva – del digitale, nella lettura o a scuola o nella partecipazione democratica. Il mio punto è molto, molto semplice: ci sono moltissime pratiche umane che funzionano benissimo senza mediazioni elettroniche, e che diventano sub-ottimali nella loro versione digitale. Difendo pertanto un robusto uso del principio di precauzione, che mi sembra una posizione del tutto sensata e moderata, e offro i miei argomenti a genitori, insegnanti e policy makers per una concezione equilibrata dei contesti in cui si pensa di poter applicare il digitale.

Per finire, rimbocchiamoci le maniche: Secondo me quelli che parlano oggi di digitale a scuola omettono spesso una descrizione dei devices che vengono utilizzati, delle loro funzionalità e degli scopi per cui sono stati progettati. I computer di oggi non sono quelli di dieci o quindici anni fa: sono appendici di sistemi di distribuzione di contenuti, e raccoglitori infaticabili e un tantino aggressivi di dati personali (sociodati, dai social networks, e adesso sempre di più biodati.) Si tratta di buoni strumenti nel processo educativo?

Un altro argomento spesso invocato dai difensori di una concezione sostitutiva è quello del coltello svizzero. I devices possono fare più o meno tutto. Ma non si deve dimenticare che il coltello svizzero nessuno lo usa nella sua cucina, o in un ristorante: non in modo sostitutivo. Servono utensili variati e adatti al compito, non un illusorio passepartout.

Insomma, parliamone.

Se veramente crediamo nel digitale a scuola, allora mettiamoci intorno a un tavolo per dare delle specifiche sul tipo di computer che vogliamo a scuola, e che i produttori si adeguino. I numeri sono dalla nostra: si parla di milioni di pezzi che le scuole dovrebbero comprare. Apriamo un tavolo con Ministero, con la ricerca, con la Confindustria, i produttori. Ma arriviamo al tavolo con delle idee chiare e semplici, e utilizziamo tutta la forza negoziale che viene dai numeri in gioco.

Per esempio, si dovrebbe come minimo richiedere da computer dedicati all’educazione:

-Facilità di andare offline

-Possibilità di passare in modo monofunzionale (per esempio, solo lettura di un libro, niente “multitasking”)

-Niente tracciamento comportamentale automatico; opzioni di default tutte a vantaggio dell’utente (solo opt in per tutti gli elementi sensibili, come protezione della privacy)

-Raccolta dati ad esclusivo uso della scuola, ed al limite del Ministero, non immagazzinabili su server statunitensi appartenenti a società commerciali – per esempio!, e non vendibili; e dati raccoglibili soltanto con l’autorizzazione esplicita dei genitori.

-Un design rispettoso dell’attenzione.

-Retrocompatibilità assicurata, assistenza tecnologica perenne.

-Formati aperti, e poi ancora aperti.

E, comunque, i devices che soddisfano questi criteri (ed altri, da discutere) dovranno essere utilizzati in modo non sostitutivo, ma integrativo della pedagogia non digitalizzata. Pensiamo ancora all’ottimo esempio della scuola del New Hampshire di cui ho parlato sopra. Non serve un computer sempre e poi ancora sempre e in ogni luogo e in ogni cartella. Serve quando serve.

E soprattutto, vogliamo decidere sulla base di dati e non solo di manifesti. La scuola è immersa in una cultura della valutazione (interrogazioni, esami, verifiche) e il Ministero è del tutto orientato verso una valutazione degli insegnanti. Mi sembra assurdo che in questo ambiente ipervalutativo sfuggano alla valutazione devices costosi e a rapidissima obsolescenza. Funzionano per l’educazione? Qualcuno potrebbe iniziare uno studio longitudinale?

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