L'analisi

Come la Pa digitale può far bene alle aziende

Taglio dei costi della burocrazia. Liberazione di risorse pubbliche per investimenti pubblici in Ict, in innovazione e riduzione della pressione fiscale. Ma serve una strategia end to end, sostenuti da partenariati pubblico-privati. La visione di Confindustria digitale

Pubblicato il 11 Set 2013

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La correlazione tra la digitalizzazione dei servizi della Pubblica amministrazione e la crescita di competitività di un Paese, e quindi del suo sistema produttivo, è ormai una certezza, supportata da stime macroeconomiche ed evidenze micro, accreditate da studiosi e organismi internazionali.

Lo switch off digitale delle PA ha un primo effetto diretto di consistente riduzione della spesa corrente, dovuto sia all’aumento di produttività del personale pubblico del 10% e al pieno utilizzo delle piattaforme di e-procurement nell’acquisto di beni e servizi, che all’aumento delle entrate. Fattori questi che, consentendo un’efficace strategia di spending review e una riduzione della pressione fiscale, hanno come conseguenza indiretta l’aumento degli investimenti delle imprese.

Il secondo effetto deriva dalla semplificazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche e messa on line di servizi avanzati, con un importante impatto positivo sulla produttività dell’intera economia. La digitalizzazione dei processi di interfaccia tra imprese e le pubbliche amministrazioni, in particolare, può comportare, secondo le stime del Politecnico di Milano, una riduzione dei costi burocratici a carico delle imprese superiore al 30%, con un recupero di produttività equivalente a 23 miliardi di euro.

Oggi la PA usa i fattori produttivi in modo squilibrato, spesso utilizza troppe risorse umane e troppa poca tecnologia al servizio di tecniche di produzione superate, basate sul ciclo cartaceo di documenti, e quindi produce a costi superiori al necessario. Per rendere il sistema più efficiente occorre una strategia end to end. Vale a dire che occorre intervenire sulla revisione dell’architettura delle informazioni, sulla piena interoperabilità dei dati tra le diverse pubbliche amministrazioni, su processi e soluzioni standard che evitino duplicazioni e ridondanze, sull’aggiornamento delle infrastrutture, sull’unificazione degli strumenti di accesso ai servizi tramite un “documento digitale unificato”.

Ad esempio il Sistema Informativo della Fiscalità (Sif), cuore del sistema fiscale italiano, nonostante i progressi compiuti, è costituito da 129 banche dati diverse che spesso non si parlano tra loro e che soprattutto, non “comunicano” con i sistemi informativi degli enti locali. Per trasformare la lotta all’evasione in un fattore strutturale, capace di recuperare quote di gettito più elevate di quanto non si riesca a fare oggi, è indispensabile rendere interoperabili le banche dati esistenti. Occorre un intervento tecnico che definisca, una volta per tutte, criteri omogenei e standard che regolino l’immissione dei dati e ai quali dovrebbero attenersi tutti gli enti, centrali e locali. In questo senso abbiamo sollecitato l’Agenzia per l’Italia Digitale a disegnare un’architettura dati omogenea e a diffondere l’uso di linguaggi standard già esistenti sul mercato (ad esempio XML o XBRL). Vanno progettate in questo modo le banche dati di rilevanza nazionale, a cominciare dall’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (alimentata dai Comuni ma gestita centralmente), che costituirà il perno centrale attorno a cui ruoterà tutto il sistema informativo pubblico e fiscale.

Questo non significa aumentare il deficit pubblico. La spesa Ict delle Pa è già oggi superiore ai 5 miliardi di euro annui solo per l’acquisto di beni e servizi, ma è caratterizzata da una forte frammentazione di iniziative e da una contabilità pubblica che privilegia l’ottica della spesa corrente piuttosto che l’investimento in conto capitale. Si continua a spendere sostanzialmente per la manutenzione di parti del sistema informatico pubblico scollegate tra loro, senza ottenere benefici tangibili di efficienza e con scarso stimolo all’evoluzione dell’offerta Ict. Si prenda il caso della sanità. Un recente studio condotto per conto di Federsanità/ANCI, utilizzando valori di cost saving realizzati da “buone pratiche” nazionali e internazionali, ha stimato che un investimento di 6,5 miliardi in tre anni sarebbe in grado di generare, a regime, risparmi per 15 miliardi all’anno.

Anche come sistema dell’offerta dell’Ict stiamo cercando di cambiare ottica, lavorando sul pre-commercial procurement e sulle partnership pubblico private con la collaborazione del sistema bancario, perché anche nelle forniture alle PA, soprattutto in ambito locale, c’è una situazione troppo polverizzata che non fa bene all’interoperabilità.

Gli investimenti necessari alla digitalizzazione della Pa potrebbero essere garantiti dal modello di partenariato pubblico-privato, con il coinvolgendo degli istituti di credito. In termini operativi vi sono diverse varianti possibili: dal “project financing” a forme di “performance contracting”, dove il privato affronta l’investimento venendo poi remunerato per un certo numero di anni sulla base dei risparmi ottenuti. Rispetto ai tradizionali metodi di finanziamento questi modelli richiedono da parte della Pa un approccio orientato al mercato. Ogni parte del progetto, infatti, deve essere concepita in termini di business plan, capace di evidenziare costi, benefici, valore generato e valore effettivamente traducibile in ricavi, oltre a stabilire le modalità di misurazione delle performances e di condivisione dei ricavi e/o di remunerazione dell’investimento.

Questo scenario potrebbe risultare interessante non solo per le grandi imprese Ict, in grado di affrontare investimenti i cui ritorni sono attesi nel medio-lungo periodo, ma anche per le Pmi specializzate del settore, che potrebbero essere coinvolte in una logica di filiera in grado di soddisfare al meglio le esigenze della domanda di servizi evoluti delle Pubbliche Amministrazioni e quindi, in ultima istanza, dei cittadini e delle imprese.

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