Privacy: può esistere davvero?

Cresce la confusione e l’ansia nei mass media sul tema della privacy e della raccolta sistematica delle nostre tracce digitali. Diamo uno sguardo panoramico a questo scenario iper-complesso

Pubblicato il 23 Mag 2014

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Che ci sia un fermento crescente intorno ai temi della salvaguardia della privacy in questo mondo sempre più digitalizzato, interconnesso e tracciato è indubbio. Sui giornali gli articoli dedicati a questo tema si moltiplicano.

Per orientarci in questa che promette di essere ricordata come la fase più turbolenta della transizione a una nuova epoca davvero globale e strettamente interconnessa, per prima cosa lanciamo uno sguardo panoramico sui fatti d’attualità più significativi di questi ultimi mesi.

Edward Snowden, figura centrale del Datagate, presenta al Parlamento Europeo un documento sui sistemi di sorveglianza elettronica degli USA in Europa attraverso le attività della NSA. «Questa testimonianza evidenzia chiaramente la necessità di rafforzare le norme europee sulla protezione della privacy dei cittadini europei”, dichiara Claude Moraes, parlamentare britannico laburista, al Corriere.it. Una “necessità” che viene evidenziata in modo ricorrente, da anni, via via che sono usciti sui giornali e nei TG nomi come Echelon, Datagate, Prism… e che ora viene rilanciata da un nuovo nome: Mystic.

Eric Schmidt, presidente di Google, annuncia che la sua compagnia sta attivando dei sistemi di crittografia per le interrogazioni fatte sul suo motore, in particolare per evitare che i censori intercettino le query fatte su Google in Cina (mossa di marketing spinto, vista la minima importanza del motore del colosso di Mountain View sulla rete cinese, ma appunto per questo indicativa di come sia considerato sensibile il problema della privacy per Google e per tutti i suoi “clienti”).

Il problema dell’intercettazione da parte della agenzie di intelligence dei messaggi e dei dati che circolano on line è il leitmotiv di questo periodo: di colpo tutti pongono in evidenza il problema della salvaguardia della privacy on line; e addirittura Mark Zuckerberg chiama personalmente il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama per protestare per le azioni della NSA sul suo social network (si dice che l’agenzia americana avrebbe utilizzato dei virus per entrare nei pc degli utenti nei panni di Facebook, clonandone pagine significative).

L’abbandono in massa dei social network – proprio per i problemi di privacy che può creare la raccolta massiccia di dati da parte dei colossi del Web – è lo scenario ipotizzato per il prossimo futuro durante gli incontri che si sono tenuti ad Austin (Texas) nella sezione “Interactive” del Festival SXSW (South by Southwest). “Cosa abbiamo imparato?” si chiede sul sito di ‘Wired’ Gaia Berruto, in conclusione del Festival. E si risponde: “Che negli Stati Uniti l’attenzione è tutta puntata alla protezione dei dati personali”. La riprova? Quest’anno niente interventi dei vari boss di Facebook, Twitter o Google: i riflettori sono stati puntati tutti sugli interventi (a distanza) di Edward Snowden e Julian Assange.

L’alternativa? Già dallo scorso anno puntano sulla non-memorizzazione delle tracce digitali alcuni nuovi social network di grande successo come SnapChat, seppure con alterne vicende e crolli improvvisi di credibilità, come quando due mesi fa gli hacker hanno rubato i dati di più di 4 milioni e mezzo di utenti della piattaforma del giovanissimo Evan Spiegel. Ma davvero possiamo credere a una tale promessa? “Un dato digitale è fatto apposta per essere duplicato facilmente: una volta arrivato su un dispositivo che è al di fuori del nostro controllo non ha alcuna garanzia di cancellazione. I bit son fatti così, e non c’è promessa di venditore che tenga”, scriveva già sei mesi fa zeusnews.it, uno dei tanti siti tecnici che si interessano di questi temi.

Ma non ci sono solo il Web e i social network. Mentre infatti il dibattito si fa serrato sui problemi di privacy dei social network e sullo spionaggio su Internet, dilagano a macchia d’olio altre fonti di tracce digitali, più subdole e penetranti: accanto alle tracce che lasciamo comunque ogni volta che andiamo in banca, all’ospedale, sull’autostrada e semplicemente muovendoci in città tra celle telefoniche capaci di geolocalizzarci e telecamere di sicurezza, nascono continuamente nuove iniziative che lavorano sull’Internet del cose (che si parlano tra loro scambiando nostri dati) come la Vehicle to vehicle technology (V2V) o sulla memorizzazione e archiviazione degli ambienti in cui ci muoviamo, come fanno gli occhiali di Google. Se ne è discusso ampiamente al CeBit di Hannover, dove, parlando di “Internet delle cose e Big data”, sono state presentate delle proiezioni inquietanti a proposito dei dispositivi interconnessi che, secondo Software AG, dovrebbero passare dagli attuali 8 miliardi ai 30 miliardi nel 2020.

Fermiamoci qui con la panoramica sui fatti d’attualità più significativi degli ultimi mesi: lo spettro di esperienze, reazioni e atteggiamenti nei confronti del conflitto tra privacy e raccolta a tappeto di dati digitali è abbastanza ampio e rappresentativo di quello che fermenta nel mondo delle reti. E focalizziamo quindi la nostra attenzione su alcune delle proposte più interessanti che stanno arrivando per trovare una soluzione del conflitto tra salvaguardia della privacy e raccolta dei dati.

Vediamo in sintesi le tre idee che sembrano più significative: la prima è quella di crittografare tutti i messaggi, la seconda di scrivere una carta dei diritti e dei doveri digitali dell’uomo, la terza è l’idea di introdurre il pagamento per la cessione dei propri dati ai giganti del Web.

Primo, crittografare i messaggi on line: in questa direzione, come abbiamo visto, si sta muovendo Google per i suoi utenti cinesi (e non solo). Ma sono in tanti a pensarci e a provare un proprio meccanismo tecnico sostenibile, sia sul Web sia sul traffico telefonico, spesso associando crittografia ad autodistruzione dei messaggi: esempi concreti sotto i riflettori ce ne sono già molti, da Wickr a Telegram, da RedPhone a TextSecure. E il dibattito coinvolge i più autorevoli opinion leader, tanto che su questa soluzione hanno dichiarato di puntare anche Snowden e Greenwald, nel corso della loro discussione al Festival SXSW di Austin. Restano aperte due domande: davvero ci possiamo fidare delle corporation che promettono di criptare e/o di distruggere i nostri messaggi? E se anche ci fidiamo e aderiamo alle nuove reti criptate, chi ci tutela dall’acquisizione massiccia di nostri dati che avviene comunque continuamente al di fuori di Internet e dei cellulari?

Secondo, la carta dei diritti e dei doveri digitali dell’uomo: è la proposta di soluzione autorevole e super partes che si rifà alle origini della tradizione democratica occidentale: a proporla è stato il 12 marzo, dalle pagine del Guardian, un personaggio d’eccezione, Tim Berners-Lee, l’uomo che 25 anni fa ha inventato il word wide web (qui trovate l’articolo del Guardian e il link al video “Establish web’s principles on openness and privacy”). Anche qui restano aperte alcune domande: siamo sicuri che basti una “Magna Carta” che piove dall’alto, per assicurare il diritto alla privacy dei cittadini di tutto il mondo? E come mai non sono mai andate in porto iniziative analoghe, come quella promossa già nel lontano 2007 da Stefano Rodotà, garante della privacy in Italia e in Europa e all’epoca punto di riferimento mondiale, all’Onu come all’Unesco, su questi temi?

Terzo, la cessione a pagamento dei propri dati ai colossi del Web: si tratta di una impostazione non top-down, come le due precedenti, ma bottom-up: una proposta di soluzione “dall’interno” che è tipica dei sistemi complessi in grado di auto-organizzarsi basandosi su leggi semplici e chiare. Il primo a proporla – spiazzando tutti per il sapore di paradosso dell’idea – è stato un altro personaggio mitico del mondo digitale, quel Jaron Lanier conosciuto come il più visionario dei pionieri che trent’anni fa diedero vita e applicazione alla realtà virtuale: troviamo le prime tracce della sua idea in “You are not a gadget” del 2010 (libro tradotto in italiano nello stesso anno da Mondadori), e lo sviluppo dettagliato e operativo dell’idea in vari articoli più recenti, come “Il senso della privacy al tempo di Internet”, pubblicato sul numero di Febbraio 2014 del mensile Le Scienze. Frase chiave: “Chi ruba la privacy protegge molto bene la propria”. Ora la proposta anti-intuitiva di Lanier è abbracciata da sempre più opinion leader, come si è ampiamente visto anche nelle discussioni al Festival SXSW di Austin. E cominciano a spuntare start-up che si basano su questa idea per il lancio sul mercato. Un esempio per tutti: Datacoup, che offre 8 euro al mese a chi concede esplicitamente la raccolta e l’uso dei propri dati on line. Anche qui resta aperta la domanda: se pure il meccanismo bottom-up dovesse funzionare su Internet e sui cellulari, chi e come proteggerebbe i nostri dati che arrivano negli archivi delle grandi corporation e dei governi attraverso l’Internet delle cose, le banche, le telecamere, gli ambulatori, le celle telefoniche?

Quale strada prenderanno le iniziative che mirano a conciliare e/o a far confliggere alla luce del sole la salvaguardia dei dati personali con la raccolta a tappeto di quelli che ormai tutti chiamiamo “big data” non è certo possibile prevederlo: probabilmente il futuro prossimo ci riserva un insieme delle varie soluzioni, qualcosa che ancora non possiamo immaginare. Di sicuro è essenziale, addirittura vitale, avere una visione più chiara possibile di ciò che sta accadendo e di diradare un po’ la confusione che si fa su questi temi.

Quando parliamo di big data e di privacy, infatti, dobbiamo distinguere tra due macro-aree di azione ben distinte, anche se in parte sono sovrapposte: dobbiamo cioè distinguere tra dati raccolti, analizzati e utilizzati da società private e dati raccolti, analizzati e utilizzati dai servizi di intelligence e dai governi più o meno democratici, e più o meno occidentali.

E soprattutto dobbiamo distinguere tra altre due macro-aree trasversali.

La macro-area che tratta magazzini di dati “anonimizzati”, che vengono analizzati cioè come miniera di informazioni collettive, da cui estrarre indicazioni di interesse generale per gestire eventi come epidemie, crolli in borsa o fluidificazione del traffico (si tratta spesso in questo caso di “open data”), oppure indicazioni di interesse privato ma solo e rigorosamente di massa, per esercitare azioni di marketing più efficaci sia per chi vende sia per chi compra.

E infine la macro-area più sensibile e pericolosa, quella che traccia spostamenti, azioni, contatti del singolo cittadino: con intenti di controllo sociale e politico da parte delle agenzie di spionaggio o di intelligence, e più in generale dei governi, siano essi democratici o dittatoriali; con intenti di miglioramento dell’offerta commerciale personalizzata da parte delle grandi compagnie che gestiscono le reti, di qualunque tipo esse siano (motori di ricerca, social network, compagnie telefoniche, società che trattano dati prelevati dall’Internet delle cose).

Il problema della privacy evidentemente si concentra su quest’ultima macro-area: tenendo conto del fatto che al suo interno si trovano livelli di pericolosità maggiori nella gestione governativa o in quella dei big delle reti, a seconda del luogo geografico in cui ci si trova; e tenendo conto del fatto incredibile ma verissimo che i singoli cittadini (in particolare nei paesi occidentali) non sono affatto preoccupati nel lasciare loro tracce sul web, nei motori di ricerca o nei social network, per una antica e radicata fiducia nello stato liberale che controlla e tutela le prospettive future dei propri cittadini.

Già solo il fatto di individuare questo incrocio di macro-aree ci fa capire che la soluzione alla tutela della privacy non può essere una sola, calata dall’alto, uguale per tutti, ma che si deve costruire per tentativi, errori e correzioni partendo dal basso.

Anche perché, come accade sempre nei sistemi complessi biologici e sociali, le azioni non sono mai lineari e quindi non è possibile creare dei rapporti stretti di causa-effetto: così, mentre i governi e le loro agenzie di spionaggio immaginano strutture di controllo sempre più attente e penetranti e mentre le grandi corporation che controllano le reti studiano come sfruttare al meglio i big data che vanno raccogliendo, il pubblico non se ne resta immobile, ma esercita una reazione circolare che influenzerà comunque i comportamenti dei nodi chiave del potere centrale privato e pubblico, in una girandola senza fine. Come insegna da anni la teoria delle reti e dei sistemi complessi adattativi.

Proprio nell’ottica di una mente collettiva e reticolare, chiedo ora a tutti coloro che sono arrivati a leggere fino a qui di proporre idee e considerazioni da analizzare, discutere e sviluppare insieme, attraverso i commenti che si possono postare qui sotto.

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