La riflessione

La vittoria di Trump è un format deformato di tv e social network

Donald Trump ha vinto perché ha usato un nuovo “reality game show”, format tv interlacciato, crossmedialmente, coi social network. E che da ora in poi eleggerà il presidente degli Stati Uniti. Se lo stava costruendo da vent’anni, adesso siamo arrivati al punto di non ritorno

Pubblicato il 25 Nov 2016

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Alla semplice domanda perché Donald Trump abbia vinto, almeno sulla carta, la presidenza degli Stati Uniti, come per molte altre domande complesse, si sta rispondendo e si risponderà in mille maniere, dalle più documentate e motivate alle più di pancia e d’insight, dalle più analitiche alle più sintetiche.

Dunque scelgo dal mazzo una risposta che parla di media e oltre. Ha vinto perché ha usato il format dei “reality game show” che, insieme al format “talent show”, più patinato perché ripreso in studio, ha ridato ossigeno e vitalità d’audience alla vecchia televisione, da due decenni ormai pronosticata, attraverso schiere di ricerche, in mortale declino. Un format interlacciato, crossmedialmente, coi social network di massa, Facebook (in corso l’ennesimo dibattito negli Usa sul tema “È tutta colpa di Facebook?”) e con il microblogging dell’élite, Twitter. È un format sceneggiato che spazia nelle location più televisive e più da storytelling.

È Iniziato dodici anni fa in una suite dorata della Trump Tower, è continuato in mezzo al popolo delle distese di granturco della corn belt americana, delle fabbriche dismesse, dei quartieri cittadini in degrado, dilagato negli stadi e negli aeroporti accoglienti, col Boeing brandizzato col proprio monosillabico nome in background e, dopo questo lungo viaggio, è atterrato al punto di partenza, all’ultimo piano, sberluccicante d’oro massiccio, del proprio grattacielo su Central Park, a Manhattan, con qualche futura puntata settimanale nella dependance Casa Bianca.

La campagna per la corsa alla dependance, al numero 1600 di Pennsylvania Avenue in Washington, piccola e scomoda, ma di gran lustro, è stata il numero zero di un’ulteriore mutazione del processo di ibridazione, in corso da oltre un secolo, fra i format mediatici più popolari e la politica. Un’ibridazione che sembra si sia conclusa con il cannibalismo ora irreversibile dei primi sulla seconda.
La corsa di Donald Trump verso lo Studio Ovale ha forse definitivamente affermato il nuovo processo selettivo per l’inquilino presidente degli Usa: da ora in poi sarà un “reality game show”, con saltuarie deviazioni di format verso il “talent show” (chiamate impropriamente “confronti televisivi diretti”). Lo stesso ha già fatto Ramzan Kadyrov, presidente della repubblica federale cecena, per assegnare il posto di capo dell’Agenzia per lo Sviluppo strategico. Forse il televisivo processo di selezione della classe politica si estenderà. Si passerà dalla copertura mediatica delle campagne alla medializzazione delle stesse.

Il nuovo corso è iniziato l’8 gennaio 2004. Trump l’ha finanziato, co-ideato e condotto per una dozzina d’anni. Giorno dopo giorno, ha appreso e fatto tesoro di ogni reazione, comportamento e desiderio della sua audience. Ha coltivato e cresciuto il linguaggio, gli umori, i bisogni, le aspirazioni, le frustrazioni, gli amori e gli odi del popolo degli spettatori della ricchezza altrui. Dove solo uno su un milione diventa miliardario. Ha creato un enorme apparato consolatorio nazionale. Ha urlato sera televisiva dopo sera televisiva “You’re fired!” Ha trascinato nell’identificazione milioni di licenziati in tronco, fired appunto, accasciati nel divano rattoppato del salotto di casa. Ha collezionato e validato una sequenza infinita di bugie veniali e mortali, per sedare nelle semplificazioni e con massicce dosi di illusioni le sacche del paese più afflitte dal dolore e dalla tragedia della disoccupazione e della emarginazione sociale. Ha addormentato coi bagliori del televisore rimasto acceso tutta notte il sogno americano di sapersi superare sempre, evocando la centralità del posto sicuro, colonna portante dell’economia in via d’estinzione del secolo breve. Ha individuato gli indispensabili capri espiatori delle proprie disgrazie nelle silicon valley del Paese e nei professionisti dell’intermediazione, gli operatori dei media, sicuro che quest’ultimi (certo non tutti) sarebbero stati pronti a saltare sul treno del vincitore col biglietto vidimato del “mea culpa mea maxima culpa”. Ha istigato in ogni suo one-man-show il linciaggio, per ora solo mediatico, di ogni minoranza che non sia bianca, possibilmente ariana.

Nel suo reality game show ha mischiato, con ventennale esperienza soprattutto in game e show, la realtà col gioco e con lo show. Ha selezionato e fatto fuori a suon di audience tutti gli altri ingenui suoi competitor e si è imposto vincitore, con le regole scritte di suo pugno, praticate di suo imperio, cambiate alla bisogna. Tutti gli altri avversari in campo interno e in quello esterno non hanno capito che le regole erano quelle della tv ma dall’altra parte. Credevano di dover agire dalla parte di tutti gli ordinari concorrenti, davanti alle telecamere, mentre Donald era dietro le telecamere, a dettare le inquadrature, il copione e la regia. Il format, insomma.

Per anni è stato il producer (all’americana, cioè autore, regista e produttore in una sola persona) ma anche e soprattutto “host”, in prima serata televisiva, della selezione del top manager della sua azienda immobiliare dove, ad ogni eliminatoria, al concorrente che perdeva veniva urlato “sei fuori!”. Uno schiaffo che è solo l’ultima, quella terminale, di una delle tante metafore della vita reale che punteggiano la sceneggiatura dello show. Metafore di una vita concepita per esclusioni e non inclusioni. Un vita di darwinizzazione estrema. Uno show, come tutti quelli della tv, funzionale alla massimizzazione dell’audience per la massimizzazione degli investimenti (pubblicitari e non solo). Nella vita reale funzionale alla massimizzazione della propria prestazione per la massimizzazione del proprio stipendio. Nel regno assoluto (televisivo) della più fake delle meritocrazie. Nella bolla virtuale dei reality game show Donald ha imparato ogni malizia e trucco, per poi inventarne sempre più nuovi. Ha capito e sperimentato i mille mix trainanti (d’audience) di verità e menzogna, di fatti e bufale. Ha introiettato un linguaggio essenziale di circa 800 parole, con frasi brevissime, quasi sempre costruite con un solo soggetto, un solo verbo e un solo complemento. Si è reso omogeneo al popolo definito degli “incolti”, ma reali, ingannandoli. Dei milioni dei rasseganti a essere caricati, come in una pratica di capolarato, sui camion dell’audience televisiva, fatta di show, wrestling, game, talent e vecchi film (patriottici). Poi ha parlato alla pancia dei votanti come un ventriloquo dalla pancia della sua audience. Ha creato il gran finale della vittoria contro tutte le previsioni e i sondaggi. Nessuno saprà mai quanti hanno risposto ai sondaggisti “voto per Hillary” sapendo che avrebbero fatto esattamente il contrario. Ma Donald lo sa. Declamava con sbigottente e indecifrabile sicurezza i “sondaggi sono falsi!”
Ha attizzato rivoli di fanatismi e di fake news che hanno dato il loro piccolo ma determinante contributo alla semplificazione della scelta fra il cosiddetto establishment e il popolo “sua vittima”.
Ha applicato con scientifica precisione la regola che nei palinsesti di flusso delle breaking news, come nei flussi dei social network, un notizia invecchia in pochi minuti se si è capaci di sostituirla con un’altra altrettanto prorompente. Dunque si può annunciare tutto e il contrario di tutto. Così ha utilizzato senza parsimonia le bugie, i fatti falsificati, sapendo che la pratica del fact-checking si mette in moto solo dopo 12-14 ore e solo per un fatto su dieci.
Ha promesso, e le farà, le infrastrutture del New Deal di Franklin Delano Roosevelt che tanto cinema americano porta ancora ogni giorno sugli schermi di ogni formato. Ha promesso muri, ma non li farà, perché già costruiti da altri, con sublime sorpasso degli stupidi politici che ancora promettono e non mantengono. Ha detto che i cinesi (finalmente un nemico mastodontico nello show) hanno inventato il “climate warming” e poi (stupenda svolta (“ragionevole”) del plot) ha detto che manterrà tutti gli impegni anti CO2. Ha lisciato il pelo alle centinaia di milioni di armi incattivite, pronte a sparare contro gli intrusi esterni ed interni, in una perenne latente guerra civile americana, perché sa che la televisione che fa più audience è quella delle lacrime, del sudore e del sangue.

È arrivato secondo come voti. È arrivato primo come delegati degli stati. Ora può continuare a vivere dentro il suo reality game show come presidente (col potere di urlare “You’re fired” oppure “You’re hired”). Se avesse perso, sarebbe stato lo stesso. Avrebbe continuato a vivere dentro il suo reality game show, pur come provvisorio perdente. In televisione i perdenti sono adorati, in un prenne processo comunicativo a due vie, sia di identificazione che di proiezione.

Il grande venditore della de-globalizzazione e della de-innovazione ha vinto. “The show must go on!”

edoflei06@gmail.com

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