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Digitalizzare per semplificare: le quattro azioni indispensabili per il rilancio

Semplificare è necessario, ma difficile: è un mix fatto di standardizzazione delle procedure, fiducia in cittadini e imprese, possibilità di effettuare i controlli e severo rigore nel punire chi tradisce la fiducia. Ecco perché non si andrà lontani senza interoperabilità tra le banche dati e i sistemi informativi pubblici

Pubblicato il 29 Mag 2020

digital digitale

Uno degli ultimi articoli del monumentale “Decreto Rilancio”, per l’esattezza il 264, si occupa di un fattore chiave perché tutti gli altri 263 precedenti articoli raggiungano l’obiettivo dichiarato dallo stesso titolo del provvedimento: il rilancio del Paese dopo la pandemia. Il titolo dell’articolo è già un programma: “Liberalizzazione e semplificazione dei procedimenti amministrativi in relazione all’emergenza COVID-19”. Il tema è chiaro: ridurre drasticamente tempi e oneri amministrativi sia per i cittadini sia per le imprese che devono destreggiarsi nelle tante strade per adire alle misure di sostegno del reddito, di incentivi agli investimenti, di disponibilità di risorse liquide per sopravvivere e ripartire.

L’autocertificazione e la sua storia

L’articolo parte da un “classico” della semplificazione: l’istituto della dichiarazione sostitutiva, noto anche come “autocertificazione” che, nato più di mezzo secolo fa con la legge 15 del 1968, rafforzato dalle riforme Bassanini degli anni ’90 e definito dal Testo Unico della documentazione amministrativa (il DPR 445/2000) è rimasto sempre al margine degli effettivi comportamenti amministrativi, accettato ma non gradito. Sino a che, dal primo gennaio del 2012 (erano già passati 44 anni dalla prima legge), è entrata in vigore la L.183/2011 che proibisce alle amministrazioni pubbliche di richiedere o accettare atti o certificati che contengano informazioni già in possesso di un’altra amministrazione. La stessa norma estende il campo di applicazione dell’autocertificazione praticamente a tutti gli stati, i fatti e le qualità documentabili e certificabili dalla pubblica amministrazione. Con questa legge l’autocertificazione sostituisce in tutto e per tutto i certificati con pochissime eccezioni che si limitano ai certificati medici, sanitari, veterinari, di conformità CE, di marchi, di brevetti.

L’articolo 264 del “Decreto Rilancio” riprende questo istituto e ne amplia il perimetro a tutti i procedimenti di sostegno al reddito di cittadini ed imprese per cui non c’è più bisogno di alcun certificato né di alcun allegato che attesti stati oggettivi o soggettivi. In realtà come abbiamo visto erano originariamente assai pochi i casi in cui non fosse ammessa l’autocertificazione, ma nel tempo si sono moltiplicate, a tutela dell’amministrazione, ma spesso anche della burocrazia, le deroghe a questo diritto. Deroghe ora spazzate via, seppure temporaneamente sino alla fine del 2020, da questo ampliamento che riduce anche da 18 mesi ai più ragionevoli 3 mesi i tempi in cui l’amministrazione può annullare un provvedimento per autotutela e a trenta giorni il tempo per l’emanazione del provvedimento conclusivo dopo che è scattato il silenzio assenso. Insomma, con questo articolo l’amministrazione riduce tempi e costi e dà maggiore fiducia ai cittadini. Ma perché questa fiducia non sia cieca lo stesso articolo prevede un più stringente obbligo di controlli e impone, nel comma 2, alle amministrazioni di “effettuare idonei controlli, anche a campione in misura proporzionale al rischio e all’entità del beneficio, e nei casi di ragionevole dubbio, sulla veridicità delle dichiarazioni.”

Interoperabilità delle banche dati e controlli

Una maggiore fiducia nelle autocertificazioni implica quindi di fare più controlli e di farli meglio, ma come? Ovviamente nessuna amministrazione può controllare le autocertificazioni se non attraverso la collaborazione con le altre amministrazioni che detengono i dati da controllare. Parliamo di quella interoperabilità tra le banche dati e i sistemi informativi pubblici che è veramente il buco nero di tutto il processo di trasformazione digitale della PA, che continua troppo spesso ad operare a compartimenti stagni. A questo punto, il decreto salta da una legge ad un’altra e dal Testo Unico della documentazione amministrativa passa al Codice dell’amministrazione digitale, quel tormentato Decreto-legge 82 del 2005 che ha subito da allora innumerevoli modifiche. Il comma 2 del nostro art.264 interviene infatti sul codice ribadendo che qualunque dato trattato da una pubblica amministrazione deve essere reso accessibile e fruibile alle altre amministrazioni, in funzione dello svolgimento dei compiti istituzionali di quest’ultime, (cosa a dire il vero legificata già più e più volte), ma aggiunge anche che le pubbliche amministrazioni certificanti detentrici dei dati ne assicurano la fruizione da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dei gestori di servizi pubblici, attraverso la predisposizione di accordi quadro. Nella formulazione dell’art. 58 del CAD come riformato dal Ministro Brunetta nel 2010 si parlava invece della necessità di predisporre convenzioni tra singole amministrazioni per assicurare l’un l’altra la fruibilità dei dati. Ma che vuol dire passare dal predisporre una convenzione a predisporre un accordo quadro? In realtà è un salto importante: si tratta di passare da un panorama potenziale di decine di migliaia di convenzioni, perché ogni amministrazione può stipulare convenzioni diverse con ciascun’altra, a pochi accordi quadro che definiscano condizioni tipo di interoperabilità entro le quali la collaborazione è possibile. Ma come fare nella pratica la legge non lo dice, o meglio si avvale del rimando all’art. 50-ter del Codice, articolo che deriva dall’ultima riforma del CAD, quella del 2018, che introduce la Piattaforma Digitale Nazionale dei Dati. La PDND, inizialmente affidata al Team digitale e al suo Commissario straordinario (Piacentini prima, Attias in seguito) per una sperimentazione che doveva concludersi entro il 15 settembre 2019, è ora affidata da questa norma direttamente alla Presidenza del Consiglio. Investigando nel sito del Ministro dell’Innovazione scopriamo che dal 2017 il Team per le Trasformazione Digitale ha lavorato per sviluppare la piattaforma e definire la governance finale del progetto, ma che dal 2019 la norma che ha istituito la società PagoPA Spa (Decreto-legge “Semplificazioni” n. 135 /2018) ha affidato alla nuova società lo sviluppo e la diffusione della PDND. Attraverso poi il sito di PagoPA arriviamo finalmente al sito dedicato al progetto www.pdnd.italia.it dove ci fermiamo davanti alla comunicazione che ci avverte “Attività di migrazione in corso – Servizi temporaneamente non disponibili”.

Conclusioni

Semplificare è necessario, ma difficile: è un mix delicato fatto di standardizzazione delle procedure, fiducia nei cittadini e nelle imprese, possibilità reale di effettuare i controlli e severo rigore nel punire chi, con dichiarazioni mendaci, tradisce la fiducia. Ciascuna di queste quattro azioni è necessaria, ma nessuna è sufficiente senza le altre. Il “Decreto Rilancio” si occupa poco della prima, ma la affida all’istituto dell’autocertificazione, ribadisce l’importanza della seconda, dare fiducia, seppure spinto dalla necessità, è abbastanza severo, ma forse non abbastanza per quanto riguarda le sanzioni, dove avremmo visto bene anche forme di interdizione per i delinquenti che frodando lo Stato ci rubano in tasca, ma infine è drammaticamente carente sul tema dell’effettiva possibilità di efficaci controlli, perché non ha (ancora) a disposizione le condizioni abilitanti, ossia quella piattaforma di interoperabilità di cui continuiamo a parlare, ma che ancora non abbiamo visto. Purtroppo, abbiamo detto che le quattro azioni erano tutte indispensabili, per cui questa mancanza, speriamo temporanea, mette in forse, almeno per ora, la validità dell’intero provvedimento.

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