La riflessione

Requiem per l’artista: così le Big Tech hanno distrutto l’Arte trasformandola in hobby

Da Arte ad hobby: le Big Tech hanno offerto a tutti strumenti di espressione e interazioni pagate zero. Nel regno del like, tutto è gratuito e senza pretese, senza dolore del rifiuto. Nessuno chiede, tutti propongono: è la morte dell’artista. Come ci si è arrivati, i risvolti con l’AI

Pubblicato il 20 Apr 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

intelligenza artificiale - deep learning

Requiem per l’artista: secondo William Deresiewicz, uno dei principali critici dell’arte neoliberista, autore del saggio The Death of the Artist, se superficialmente parrebbe il tempo d’oro degli artisti, in realtà stiamo assistendo alla loro fine.

Da arte ad hobby: tempo e valore dell’opera contemporanea

La Silicon Valley ha offerto a tutti indistintamente gli strumenti per esprimersi, per esibirsi e soprattutto per raggiungere un pubblico sterminato di follower. La moneta, in questo nuovo spazio, sono le interazioni, pagate zero, ma capaci di dare all’ego quel boost di dopamina irrinunciabile. Tuttavia è proprio questa democratizzazione orizzontale, priva di profondità, ad aver distrutto l’arte, trasformandola in un mero hobby, che chiunque può, anzi deve, praticare. È come se l’arte fosse ormai la pillola (blu) in grado di guarire dalla nullificazione esistenziale gli esseri umani.

Nel saggio “The Death of the Artist”, Deresiewicz considera le Big Tech le mandanti dell’assassinio dei veri artisti. “Veri” poeti, pittori, scrittori, musicisti, perché l’arte non è un post tra i tanti nello scrolling infinito, ma è dedizione, ricerca faticosa della parola perfetta (i sinonimi non esistono, il poeta lo sa), è studio. “Arte” non risponde alla domanda “a cosa stai pensando”; non è quel “più” con cui “nutrire” Instagram.

L’arte sta diventando un hobby, uno sfogo e, pertanto, non può che essere essere gratis. E se non è lavoro, benché comunque richieda il W della fisica, può essere praticata il sabato? Lo chiedo per un amico.

Durante l’inverno i contadini delle nostre campagne, per passare il tempo, non avendo lavoro da svolgere nei campi gelati, ovvero quello che per loro era lavoro vero e proprio, erano soliti intrecciare cestini e sferruzzare maglioni di lana: si dedicavano a una serie di attività a cui però non davano alcun valore di scambio. Benché inevitabilmente avessero speso ore a produrre quegli oggetti, i contadini non davano importanza a quel tempo. È chiaro che il valore non sia solo l’utilità o il lavoro incorporato dalla merce, piuttosto ha a che fare con l’idea che un soggetto ha di star lavorando; quello che ha incorporato l’oggetto, sarebbe stato tempo vuoto. È per questo che i cestini non potevano che essere gratis. Se i contadini regalavano questi prodotti invernali, gli artigiani, tuttavia, li vendevano a un prezzo. Dunque, non è l’oggetto in sé a determinare il suo valore, ma l’intenzione con cui l’attività umana viene svolta.

Questa situazione è molto simile a quella che tutti quanti abbiamo sotto gli occhi: gli utenti regalano le loro immagini, i loro articoli nella blogosfera, perché, essenzialmente, sono hobby. Ciò, tuttavia, costringe giornalisti e vignettisti di professione ad adeguarsi alla tendenza.

L’assenza di pretese e la gratuità dei disegni, delle poesie, solleva, inoltre, le persone dal dover affrontare il dolore del rifiuto. I giudizi negativi plasmerebbero una reputazione digitale non cancellabile. Se l’autore per primo toglie valore a ciò che crea, proponendo l’arte attraverso nuove semantiche, chiamandola “post”, egli, sì, priva il dislike del potere, svincolandosi dalla vergogna narcisistica del fallimento, ma priva anche se medesimo della possibilità stessa di avere successo nell’arte. Il fatto di proporre un contenuto senza pretesa alcuna, significa fallire a priori.

L’editoria sopravvive ai torrent chiedendo soldi direttamente agli autori: tutto è self-publishing. Il genere indie significa sfruttare il sogno dei tanti. L’unico ricavo delle piccole etichette e degli editori è nella produzione. La distribuzione, infatti, è sempre un rimetterci. Lo scheletro negli armadi dei poeti sono copie e copie incellofanate delle loro stampe: errori di gioventù e recidive.

AAA Artisti in vendita (di sé): fenomenologia dell’homo artifex

Secondo Deresiewicz, la crisi attuale deriva dal fatto che gli artisti siano costretti a fare gli imprenditori di se stessi. Ciò, inevitabilmente, toglie spazio alla creazione e anche all’ufficio stampa. Ogni artista vanta miseri risultati dalla vendita di sé.

In questa nuova veste di manager di se stessi, gli autori come potrebbero essere presi sul serio? Appare disonesto, a tratti narcisistico e auto-compiacente l’artista che chiede date ai locali, che invia copie ai critici per avere una recensione (che oltretutto nessuno leggerà). Dal punto di vista del pubblico, sembra addirittura un atto caritatevole, elemosina per ingraziarsi il proprio Dio, quello di rispondere a crowdfunding o quello di concedere date nei bar (quando ancora era possibile farlo). Non si possono spremere gli amici e le “anime buone” per raccogliere consensi. Ormai l’arte è davvero morta. Il pubblico dei musicisti è composto solamente da altri autori che sperano di scambiarsi il favore.

Non si incontra più chi, beatamente, affermi: “Io non creo niente! Amo essere ascoltatore, amo essere lettore e nella vita mi occupo di (esempio) idraulica”. Il punto è proprio questo: l’idraulica non si può esibire su Facebook come invece l’arte. “Vuoi mettere un bel post con la nuova poesia poetica?”, direbbe un qualunque utente medio.

In mancanza di talento canoro, le persone si sono pure inventate l’abilità del playback, da sempre vergogna di ogni artista afasico, additato dai maliziosi in tutti i Sanremo passati.

In quest’epoca in cui nessuno può restare escluso dalla categoria “artista”, bisogna fare in modo che l’incapacità, la mediocrità trovino comunque modo di essere applaudite: ecco la nuova definizione della specie umana, “l’homo artifex”, l’homo è un essere artista.

Se per le discussioni sui vaccini e su altri argomenti di scienza ci fa ridere che ogni signor nessuno possa trasformarsi in esperto del settore, per l’arte ci balza meno all’occhio questa appropriazione obesa, indebita e non consapevole di sé. L’arte, lo vediamo anche nelle priorità ricalibrate dal Nuovo Coronavirus, è ormai più che superflua. È uno sfogo, una cura che lo psicanalista consiglia.

La funzione di svago, di divertimento che da sempre gli artisti erano chiamati a offrire a un pubblico viene meno. Le persone spendono il tempo libero creando o sul divano in pieno binge watching. Ognuno si appaga già come autore, pertanto non c’è più la necessità di godere dell’opera altrui. Alle persone basta incollare quattro tappi e postare la foto chiamandola “scultura”. L’arte è solo attività diretta in prima persona, non è più qualcosa da fruire in qualità di destinatari.

Deresiewicz sostiene, anche in base ai costi della vita, che nessuno ormai possa vivere della sua arte. A meno che non si abbia una qualche rendita altra, un fondo, una famiglia pronta a coprirci le spalle, si è costretti rinunciare ai propri sogni. L’arte non è mai un guadagno, nemmeno quando si ha una certa fama online.

La domanda che ogni vero artista si pone è: “Cosa sei disposto a sacrificare?” Famiglia? Tempo? Comodità? Rispettabilità? L’arte?

Il fidanzato artista è presentabile alla famiglia a vent’anni, a quaranta gli assennati cominceranno, invece, a guardare con biasimo, credendo di avere a che fare con il pazzo di Sartre che immaginava sculture nella sua stanza.

Avete presente la canzone di Roberto Vecchioni, “Parabola”? O Fabrizio De Andrè ne “Il fannullone”? Bene, l’Artista da sempre è un perdigiorno, una “giara vuota capace però di creare fiumi dove non esistevano e impossibili da cancellare dal cuore di chi ne aveva sentito raccontare”. Qualcuno ha pure provato a lavorare, nell’orto o nella cucina di un ristorante, ma “siccome l’acqua dei piatti non specchia la luna”, parafrasando De Andrè, è meglio rinunciare a queste comodità e “recitare una parte fastidiosa alla gente”, quella del fannullone da biasimare. Il Poeta è allora “condannato a vagare nel mondo, eternamente ventenne, a non poter che amare Margherita”, senza però averla. C’era sempre da rinunciare a qualcosa se si faceva arte, ma, perlomeno, esisteva ancora chi nasceva con l’orgoglio di essere Ragioniere, senza volersi sostituire a Poeta, anzi.

Secondo il filosofo Walter Benjamin, il problema dell’arte contemporanea derivò dalla riproducibilità dell’opera, in particolare con la fotografia e il cinema. La possibilità della duplicazione infinita, attraverso copie non distinguibili l’una dall’altra, avrebbe privato l’artista e l’opera stessa dell’aura. Oggi il web ha addirittura eliminato il quid di originalità all’archetipo. Ogni post è una serie di bit, e ogni “copia e incolla” è assolutamente identico all’originale.

Anche il tempo non ha più alcun valore. Abbiamo pochi istanti a disposizione per accumulare i like e poi ogni post diventa inevitabilmente già vecchio, senza più possibilità che l’algoritmo distribuisca favorevolmente quel contenuto nella rete.

Il problema della viralità e della gratuità di internet hanno trasformato, poi, il furto in qualcosa di lecito. Chi bada più al copyright? Se è su Internet, frase o foto che sia, è di tutti. In poco tempo una frase viene riadattata in meme, copiato e ricopiato centinaia di migliaia di volte. Inviato, ricondiviso, replicato anche offline in ufficio. In brevissimo tempo, insomma, ogni battuta è un già sentito, un cliché. Oggi Oscar Wilde viene smembrato tra migliaia di post in quelle che, oramai, paiono frasi fatte, vecchie boutade. Perlomeno Wilde ha il vantaggio di godere dell’eternità del suo nome, raggiunta in epoche pre-www, ma cosa sarebbe accaduto fosse nato oggi?

Il meme è l’equivalente culturale del gene, pertanto sarà necessario inventare una regolamentazione, qualcosa come il matrimonio e il cognome, in grado di garantire una tutela della paternità e di richiamare alla responsabilità l’artista nei confronti di quello che produce. È necessario un equivalente culturale del contratto matrimoniale per fermare il ladrocinio indiscriminato.

La liceità del furto dipende altresì dalla svalutazione dell’arte. Finché nell’immaginario odierno resta un hobby non pagato, un mero post su internet, allora come potrebbe sembrare un atto grave quello di aver privato della sua unicità l’artista?

Morte dell’artista: come si è arrivati e quali risvolti con l’IA

Deresewicz nel suo saggio prosegue con un’analisi storica della figura dell’artista, rintracciando il processo che avrebbe preparato il terreno perché si realizzasse la situazione odierna. Shakespeare, Dante, Caravaggio erano artigiani. Andavano a bottega per imparare un mestiere. L’Arte era essenzialmente una tecnica: gli artisti, dunque, si guadagnavano da vivere mettendosi nelle mani di un mecenate, venivano chiamati nelle corti e lì offrivano il loro talento per dare lustro alla famiglia (o alla Chiesa) che li finanziava.

Nell’Ottocento,  l’arte diventò espressione interiore di un assoluto a cui tutti partecipavano: si aprì quindi la possibilità perché ogni uomo potesse praticarla. Parallelamente, infatti, nasceva la società di massa, l’opinione pubblica, l’uguaglianza formale davanti alla legge, insomma, la partecipazione.

Nel Novecento, la borghesia aveva bisogno di esprimere simbolicamente il proprio status: aveva quindi bisogno di mostre, di discorsi colti, di teatro. Ecco che l’artista è stato sfruttato come lustrascarpe della classe in ascesa, in grado di nobilitarne l’aspetto: in questo contesto, allora, il genio/imprenditore ha potuto arricchirsi, guadagnando fama e riconoscimento.

Oggi non c’è nulla di tutto questo: l’arte è solo flussi di Big Data che creiamo e regaliamo alla Valle del Silicio, di modo che sappiano sempre qualcosa di noi e possano avere training set con cui nutrire le reti neurali.

Cosa accadrà quando l’arte sarà un prodotto di sistemi come GPT-3? Forse a quel punto l’arte diventerà tanto superflua che non sarà più necessario sprecare risorse perché l‘Intelligenza Artificiale produca opere creative. L’arte è esibizione di sé, dunque, il giorno in cui una OpenAI qualunque si esibirà al posto nostro, sparirà il bisogno stesso dell’arte. Essa verrà usata solo per velocizzare il lavoro dei direttori di giornale, avendo in poco o nulla centinaia di articoli con cui coprire le scadenze editoriali.

Ma il processo artistico nella storia è leggibile anche in un’ottica spaziale. Non è un caso che le crisi economiche siano sempre partite da crisi immobiliari: l’abitazione ha un ruolo più centrale di quello che crediamo.

Pensiamo solo alle pitture rupestri. Il primo esempio di traccia artistica umana fu lasciata proprio sulle pareti delle caverne, cioè i rifugi dei nostri antenati. Inoltre a seconda dello stile di vita di un gruppo, se stabile o nomade, l’arte si adatta. I Tuareg non possono essere scultori di marmo ed è per questo che sono poeti.

Proseguendo in questa disamina, nel Trecento non c’era un’idea separata di pubblico e privato. L’intera città era corte e tutti gli abitanti erano proprietà del Signore. Costruire palazzi meravigliosi, chiamare i più illustri architetti, farsi affrescare le pareti da Michelangelo era lustro per la comunità intera, ossia per il Sé. Non essendoci discontinuità tra ego pubblico e privato, i magnati vivevano naturalmente l’urbanistica come abbellimento del proprio Io. La competizione sussisteva solo con le collettività limitrofe rappresentate da altri Signori.

Nel Settecento, la nascita del soggetto separato dagli altri trasformò l’arte in una questione solo personale. Ecco che comparve la proprietà privata, vista come un diritto naturale indiscutibile. Con essa fece, ovviamente, capolino il diritto d’autore e cioè il diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. L’arista diventò un individuo eccezionale. Il target fu il tipico dandy, cioè un borghese che voleva fingersi nobile consumando ciò che avrebbe potuto dargli il diritto di prestigio: l’arte. Il fine del borghese era esibire oggetti come fossero caratteristiche legate all’identità personale. Le opere servivano al solo abbellimento dell’Io privato, così da rilucere nel confronto con gli altri soggetti. Le città pian piano diventarono solo spazi per muoversi e passare dalla fabbrica all’appartamento.

Il Novecento, poi, relegò l’arte in musei costruiti ad hoc, mentre lo spazio urbanistico diventò sempre più un non-luogo di case popolari e palazzi rapidi da costruire. L’urbanizzazione eliminò l’arte e la bellezza dalla città-tragitto.

Oggi, invece, lo spazio è in buona parte dematerializzato. Ognuno ha un recinto in cui riprodurre la propria web reputation. Inoltre ciascun utente gode del potere di essere critico d’arte, potendo dare o non dare like ai “colleghi” sul web, quasi fosse un imperatore al Colosseo. Il like è una straordinaria cartina tornasole, in grado di rendere visibili interessanti dinamiche di gruppo.

Siccome online si può solo scrivere, condividere video e immagini, tutto ciò che è lavoro pratico appare inadatto al nuovo spazio. Se si vuole esistere sul web 2.0 in modo attivo, è inevitabile fingersi artista: è lo stesso spazio che lo richiede. Tuttavia, siccome è l’arte il contenuto di internet, eredita la frivolezza e la gratuità dei social network, venendo bandita dalla categoria “lavoro”. Inoltre il web ha generato sproporzione nella domanda e nell’offerta: nessuno chiede, mentre tutti propongono. Il numero di “artisti” e l’eliminazione dell’aura causata dalla replicabilità del digitale hanno dato scacco matto a musica, pittura e scrittura.

C’è da dire che se nel pre-Covid gli artisti speravano ancora di ricavare qualcosa dalle esibizioni dal vivo, ultimamente l’unico spazio è la casa, che si sta reinventando per le nuove richieste. L’ambiente domestico ci sta ospitando per la maggior parte della nostra giornata, se non per tutta. È così che gli appartamenti non sono più in grado di rispondere alle nuove necessità: c’è bisogno di aree divise per ogni familiare e di spazi ben separati per lo smart working, la palestra e il relax. Questa clausura elimina ulteriormente la necessità di fruire dell’arte: il dandy non può più dimostrare di avere buon gusto postando su Instagram una performance esclusiva di qualche artista sottopagato e anche in casa non può più avere invitati a cui mostrare oggetti d’arte.

Conclusioni: oggi il vero artista non fa arte pubblicamente

L’arte è morta e il problema è una pletora di elementi tra cui lo spazio online e la facilità con cui il digitale fa trasformare i vuoti creativi in illusioni di pienezza. Se il libro, lamentava Platone, può tramutare i lettori in boriosi sapienti, in grado solo di ripetere a memoria le frasi scritte, ma senza vera sapienza, il web offre i mezzi di un’arte apparente, condannando i veri artisti a reprimersi, per non essere confusi con i dilettanti e i narcisisti. Ormai dire di fare arte è una dichiarazione imbarazzante. Meglio bruciare tutto come già il poeta Rimbaud ai tempi, per non rischiare di essere travisati con il bohémien di Tik-Tok. L’artista oggi è l’unico a non fare l’artista pubblicamente.

L’arte sul web è solo una tecnica pubblicitaria e anche i musei stanno ripiegando sul marketing per richiamare a sé il pubblico. I direttori museali si affidano a influencer noti e a una tecnologia usata solo come esca per offrire esperienze “wow” ai visitatori, giacché gli Uffizi non bastano più all’utente annoiato, distratto e affamato solo di facile stupore.

L’Arte è ormai una mera A nell’acronimo STEAM, diceva in un’intervista Deresiewicz: oggi ha un qualche valore solo se posta a servizio delle interfacce delle app e delle grafiche dei media digitali.

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