videogame culture

Bisogna saper perdere: accettare la sconfitta nei videogiochi ci rende migliori (e ci fa risparmiare)

Accettare la sconfitta, rispettare l’avversario, serve a non far aumentare l’ansia di vittoria che alimenta un circolo vizioso che ha come vincitore la casa produttrice del gioco e come perdente il nostro portafogli. Ecco perché, nella vita come nei videogames, bisogna saper perdere

Pubblicato il 08 Ott 2021

Marco Faccio

Docente di scuola secondaria di II grado

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I videogames non sono più, probabilmente non sono mai stati, roba da bambini: oggi ancora più di ieri hanno produzioni che rivaleggiano con i film di Hollywood e, come un movimento automatico, soldi chiamano soldi.

Sia chiaro, non si sta facendo una valutazione morale, ma se prima i videogames pagavano lo stipendio a pochi sviluppatori appassionati, mentre i big money erano per le compagnie elettroniche che commercializzavano le console e i computer, oggi le aziende di sviluppo dei giochi hanno dividendi da multinazionali perché sono multinazionali. Ma facciamo un passo indietro.

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All’alba del videogame

All’alba dell’informatica per le famiglie, la nascita del Personal Computer e delle console, la Commodore, la Atari, la Nintendo, per nominare le più famose degli anni 80, portarono nelle case di tutti esperienze di gioco che si trovavano solo nelle sale giochi. Le sale giochi resistettero, credo, fino all’arrivo delle prime PlayStation e Xbox, che diedero loro il colpo di grazia (così come lo streaming ha reso superflui i negozi di noleggio video).

I videogiochi, a mia memoria, non avevano una gran promozione, marketing pressoché inesistente, e in edicola si trovavano raccolte di giochi contenute in cassette (sì, tipo musicassette da far girare sull’apposito cassette player del Commodore, in una maniera molto complicata per degli utenti sostanzialmente ignoranti in merito). Quando si acquistavano i videogiochi, si acquistavano così com’erano: nessuna patch online per risolvere i bug, gli errori di programmazione, né tantomeno aggiornamenti (solo molti anni dopo, con la PS2 e soprattutto con la PS3, gli aggiornamenti arriveranno a risolvere alcuni giochi), quindi l’acquisto era di per sé a scatola chiusa.

Magari si conosceva il brand, come Pac Man o Space Invaders, ma il rischio di ritrovarsi una roba ingiocabile per problemi di programmazione era alto. Internet, come la conosciamo oggi, non esisteva ancora e l’unico modo per avere notizie sui giochi erano le riviste specializzate, i cui redattori avevano, o dovevano avere se volevano lavorare nel settore, la fiducia dei lettori, una fiducia cieca poiché non vi era nessuna possibilità di provare il gioco prima di acquistarlo né di vedere un gameplay.

E qui iniziamo a toccare l’argomento principale: l’acquisto del videogioco era di fatto a scatola chiusa, se era bello ci si poteva divertire e, se non lo era, a capo chino si superava la frustrazione e, racimolata la giusta somma di denaro da parenti vari, si acquistava il successivo gioco con maggiore cautela e l’esperienza acquisita. I videogiochi in sé, inoltre, erano normalmente di due tipi: strutturati a livelli ripetitivi sempre più difficili (ad esempio Pac Man, dove bisognava sempre mangiare le palline e non farsi toccare dai fantasmini, ma cambiava il labirinto dove muoversi e l’aggressività di Blinky, Inky, Pinky e Clyde) oppure si potevano avere diversi scenari, non troppi perché non stavano nella memoria della console/cartuccia/pc. Come esempio di quest’ultima tipologia, ricordo Rambo II per C64: il gioco aveva tre scenari che riprendevano la trama del film, la giungla del Vietnam, la liberazione dei prigionieri americani e il duello con l’elicottero russo. Per portare a termine il tutto, andando a tentativi (try and error) senza nessun tipo di aiuto per scoprire dov’erano i prigionieri, l’elicottero per fuggire e il duello con il super elicottero nemico, ci si impiegava 4 minuti circa, e, risolti gli scenari, il gioco ricominciava a livello più difficile. Altra differenza sostanziale è che non esistevano i salvataggi: se si arrivava al 5 livello di Donkey Kong e si perdevano tutte le vite, si ricominciava da capo, e non si poteva fare altro! Era possibile che il gioco avesse poca longevità, dopo un po’ uno si stufava di ricominciare, e si abbandonava il gioco nel dimenticatoio.

L’avvento dei giochi di ruolo

Un diverso approccio fu intrapreso dai giochi di ruolo e dagli strategici. I GDR, in inglese Role Play Games dalla carta, matita e dadi arrivarono su pc e console e l’abilità degli sviluppatori con la tecnologia del tempo permise di fare giochi più profondi, a volte solo testuali (niente grafica, solo testo da leggere e parole da scrivere sullo schermo per compiere azioni), a volte con una grafica semplice, in linea con il tempo, ma con la struttura che è rimasta fino a oggi: farmare (ovvero raccogliere punti esperienza per migliorare le statistiche del nostro personaggio), lootare (raccogliere armi e armature sempre più potenti), sfidare avversari sempre più forti per poi ricominciare il ciclo. Gli strategici invece si potrebbero paragonare agli scacchi per lo schieramento delle forze, ma con l’aggiunta della ricerca delle risorse per creare nuove unità e sconfiggere l’avversario. Quando arrivò internet, i GDR rimasero giochi per un solo giocatore, con qualche eccezione che permetteva la presenza di altri giocatori “umani” uniti nel combattere l’avversario controllato dal pc, i cosiddetti giochi multiplayer cooperativi. Discorso diverso per gli strategici in tempo reale, cioè quelli non suddivisi a turni come negli scacchi. In quest’ultimo caso era ovvio che si optasse per una sfida uno contro  uno, o tutti contro tutti quando partecipavano più di due giocatori, che, prima della diffusione di internet, si potevano svolgere collegando due o più pc, i cosiddetti LAN party. Anche qui troviamo un’altra connessione col titolo, perché sia nei LAN party che nei successivi incontri con avversari “umani” via internet, vi era al primo posto il divertimento e, soprattutto, il rispetto reciproco che si può sintetizzare con “gg”: alla fine della partita, il perdente scrive nella chat del gioco il codice gg, che sta per “good game”, bella partita, anche quando si gioca con sconosciuti online, mentre oggi la chat è per lo più usata per insultare lo sconosciuto avversario, protetti da un nickname che impedisce di essere riconoscibile, tipo quello che succede nei social network.

Soldi, soldi, soldi

L’ultimo argomento che vorrei trattare riguarda i soldi. Il mercato dei videogames è da un po’ di tempo una torta golosa con possibilità di ricavi altissimi. In passato il ricavo derivava semplicemente dall’acquisto del gioco, oggi, invece, al gioco base si aggiungono le edizioni deluxe/ultra/super con contenuti esclusivi, le espansioni, i cosiddetti DLC (downloadable content), che aumentano l’esperienza di gioco, e i conti in banca delle aziende produttrici. Oltre a ciò, vi sono gli acquisti all’interno del gioco, le cosiddette microtransazioni, che oggi raggiungono proporzioni mai viste prima: basti pensare alla serie di giochi calcistici FIFA che, grazie al gioco online contro avversari umani, scatena il desiderio di “spacchettare”, comprare giocatori a scatola chiusa, nascosti in pacchetti come le figurine, con un meccanismo che si avvicina pericolosamente al gioco d’azzardo per l’utente target del gioco, che spesso è un minorenne.

L’illusione del gioco gratuito

Fino a qui abbiamo visto videogiochi standard, un riassunto molto generico dalle “origini” ai giorni nostri, ma oggi c’è un nuovo tipo: i giochi gratuiti. La domanda è: se sono gratuiti, come fanno a far fare soldi alle aziende? La risposta è molteplice: il gioco premium, il freemium o le microtransazioni all’interno del gioco (già viste, come esempio, in FIFA). Il gioco è premium quando pagando si eliminano i banner pubblicitari e si acquistano nuovi livelli per aumentare l’esperienza di gioco, ma il gioco rimane identico. Invece i giochi freemium, neologismo formato da “free”, gratis, e premium, sono quei giochi che sono gratis, ma per proseguire l’esperienza bisogna acquistare nuovi livelli e/o abilità, altrimenti si rischia di rimanere bloccati. Infine, vi sono i giochi davvero gratis, che non necessitano di acquisti per proseguire, ma qualsiasi acquisto nel negozio del gioco è puramente estetico.

L’esempio di Fortnite

Come esempio utilizzo Fortnite, un gioco molto diffuso fra il pubblico minorenne che genera un indotto non indifferente: il fumetto più venduto nelle ultime settimane è stato Batman/Fortnite non perché sia una bella storia da leggere, e comunque la percentuale di lettori in Italia è bassa, ma perché contiene i codici per sbloccare elementi esclusivi del gioco come le skin, cioè come appare il personaggio controllato dal giocatore, in questo caso vestito da Batman. Vi sono molti giochi gratis che raggiungono la notorietà, ma pochissimi riescono a superare la prova del tempo: Fortnite ci riesce sia per meriti suoi (continue innovazioni nella struttura del gioco, elementi nel negozio all’interno del gioco sempre nuovi con prodotti venduti a tempo così da scatenare la smania dell’acquisto) sia per la spinta che un ragazzino può avere dai propri amici, con cui giocare online, sia con Youtubers che, giocandoci, promuovono il brand e stimolano a provare l’esperienza gratuita.

Le esultanze

Ma non ho usato come esempio Fortnite a caso, perché ritengo abbia una componente potenzialmente tossica che condivide con altre attività come gli sport più famosi e ricchi: le esultanze. Se facciamo un paragone fra come esultano i giocatori di pallavolo e quelli di calcio e del basket NBA possiamo vedere che nello sport definibile come più povero, la pallavolo, principalmente si abbracciano quando fanno punto e si danno la mano quando sbagliano, mentre negli sport più ricchi c’è l’esaltazione del singolo quando fa punto, spesso con un gesto denigratorio/auto esaltatorio, non necessariamente volgare, verso gli avversari, soprattutto i tifosi avversari. Perché questo? All’inizio poteva essere un modo per sfogare lo stress, ma oggi è un brand, una maniera per avere fan che usano le stesse movenze, a cui vendere prodotti, in genere capi di vestiario brandizzati, da sfoggiare “in faccia agli avversari” tifosi di altre squadre o di altri giocatori. In Fortnite si trova un meccanismo simile: il negozio vende i “balletti” cioè esultanze buffe che esaltano colui che le fa, perché ha appena eliminato un avversario, ma al contempo innervosiscono e umiliano l’avversario, e questo è chiaro a tutti. Tra l’altro, tali esultanze sono state utilizzate anche dal calciatore Antoine Griezmann, e ciò avvalora la tesi. Il meccanismo è semplice: gioco gratuitamente, perdo contro uno più forte di me, che fa il balletto umiliante, mi innervosisco e cerco di “vendicarmi” acquistando anche un balletto, magari lo stesso o magari uno da me ritenuto ancora più umiliante per l’avversario e mi rigetto nella mischia cercando di vincere e fare il balletto, provando e riprovando, placando lo stress o con la vittoria o urlando imprecazioni contro sconosciuti online e, necessariamente, gli altri membri della famiglia in casa con me (e tutto questo è valido qualsiasi età io abbia).

Perché bisogna saper perdere?

Qui arriviamo alla fine: perché bisogna saper perdere? Perché se si accetta la sconfitta, anche i Rolling Stones cantano che non si può sempre ottenere ciò che si vuole, si diviene persone migliori, meno  stressate (ci ricordiamo che da bambini, se un gioco non ci piaceva, lo abbandonavamo senza fare scenate né post sui social?) e fa risparmiare soldi.

È un consiglio che do anche a me stesso: divertirsi, accettare la sconfitta, scrivere “gg” all’avversario perché l’avversario merita sempre rispetto, per non far aumentare l’ansia di vittoria che alimenta, non solo lei, un circolo vizioso che ha come vincitore la casa produttrice del gioco e come perdente il nostro portafogli.

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