oltre l'emergenza

Cosa resterà dello smart working? Tre motivi per cui il lavoro non sarà più come prima

Anche se non è (stato) smart working ma forse più lavoro da casa è indubbio che questa esperienza stia segnando profondamente il nostro modo di vivere il lavoro e non sarà possibile né auspicabile tornare indietro e ricominciare a lavorare come prima del 21 febbraio 2020. Ecco l’eredità dell’attuale approccio al lavoro

Pubblicato il 01 Mag 2020

Fiorella Crespi

Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano

Employee Experience

L’attuale emergenza sanitaria pone lo smart working al centro dell’attenzione mediatica e delle organizzazioni perché il lavoro da remoto è una misura che permette di rispettare le limitazioni del distanziamento sociale richieste dall’attuale emergenza sanitaria e, allo stesso tempo, di assicurare la continuità del business.

Sin da subito il Governo con il DPCM del 23 febbraio ha cercato di incentivarne l’adozione semplificando la procedura di attivazione come definita dalla legge n.81/2017. A questo sono seguite alcune direttive e circolari della Ministra della Pubblica Amministrazione che incentivava l’adozione del Lavoro Agile anche nel contesto pubblico.

Gli ultimi dati dell’Osservatorio Smart Working (di ottobre 2019) che fotografano la situazione prima della situazione di emergenza evidenziano che il fenomeno è diffuso soprattutto nelle grandi organizzazioni: il 58% ha già introdotto un progetto strutturato e il 5% dichiara che lo introdurrà entro i prossimi 12 mesi. Nelle PMI, invece, la diffusione delle iniziative di smart working seppur in crescita si assesta intorno al 12%. Nel settore pubblico inizia a crescere l’interesse verso tale pratica e i progetti di smart working sono raddoppiati rispetto al 2018, passando dall’8% al 16%. Nel complesso gli smart worker in Italia (a ottobre 2019) erano circa 570.000.

Tali numeri raccontano un fenomeno importante ma che sicuramente negli ultimi 2 mesi, in cui è sopraggiunta una importante discontinuità, è diventato ancora più rilevante.

Quello che stiamo facendo è veramente Smart Working?

Per capire se effettivamente quello che stiamo sperimentando corrisponde effettivamente al concetto di smart working, occorre riprendere la definizione data dall’Osservatorio ovvero una filosofia manageriale volta a restituire al lavoratore autonomia e flessibilità nello scegliere il luogo e l’orario di lavoro e gli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.

Ci accorgiamo quindi che questa definizione non rispecchia completamente la situazione che stiamo vivendo. Innanzitutto, manca l’autonomia nella scelta del luogo di lavoro che ricade invece obbligatoriamente sulla propria abitazione. Inoltre, lo smart working richiede una trasformazione profonda della cultura dell’organizzazione e dei comportamenti delle persone e del loro modo di vivere il lavoro. I lavoratori, secondo i principi dello smart working, devono sempre più orientarsi verso una responsabilizzazione sui risultati a fronte di una maggiore autonomia nella scelta di come e dove svolgere il proprio lavoro. Tale passaggio culturale non può però avvenire in tempi rapidi come richiesto da questa emergenza, ma deve essere supportato da iniziative di comunicazione, formazione e accompagnamento delle persone.

Sebbene non vi sia una completa sovrapposizione tra i concetti è indubbio che le realtà che avevano già intrapreso dei progetti di smart working sono state più tempestive e hanno fatto meno fatica a adattarsi alla situazione emergenziale, in molti casi riuscendo molto rapidamente a rendere operativi da remoto anche alle persone che non erano coinvolte nell’iniziativa.

Anche se non è (stato) smart working ma forse più lavoro da casa è indubbio che questa esperienza sta segnando profondamente il nostro modo di vivere il lavoro e non sarà possibile né è tantomeno auspicabile tornare indietro e ricominciare a lavorare come prima del 21 febbraio 2020.

Cosa resterà di questo Smart Working d’emergenza?

Al momento non sappiamo ancora quali saranno le modalità con cui sarà possibile riprendere le attività (lavorative e non) a partire dalla prossima fase dell’emergenza. Tuttavia, è impensabile che questa esperienza di un modo di lavorare, che per molti lavoratori è stato radicalmente diverso da quanto erano abituati a fare prima, non lasci alcuna eredità e che si possa tornare a lavorare esattamente come si faceva prima del 21 febbraio.

Le motivazioni sono sintetizzabili in tre punti.

  • Aspetto pratico: per garantire la sicurezza sanitaria sarà necessaria una ripresa graduale degli spostamenti e degli “assembramenti”, quindi pur avendo un po’ più di autonomia nel decidere dove lavorare, dovremo sicuramente continuare, se possibile, a privilegiare il lavoro in remoto per i prossimi mesi. Questo dovrà avvenire non solo per limitare il rischio di contagio in ufficio ma anche durante il percorso casa – ufficio che, nel caso delle grandi città spesso avviene attraverso mezzi pubblici.
  • Aspettative delle persone: nella maggior parte dei casi in cui è stato possibile lavorare da casa, l’esperienza lavorativa delle persone è stata positiva e si è riusciti a svolgere una parte significativa se non tutte le attività lavorative. Nonostante le criticità specifiche del contesto e le difficoltà, le persone hanno imparato e continuano ad imparare a lavorare in un modo diverso, senza però perdere in efficacia ed essendo anche più efficienti. Questa situazione sta inoltre rendendo le persone più consapevoli delle modalità di utilizzo degli strumenti digitali affinandone le competenze. Inoltre, lavorare da casa permette di migliorare in parte il work-life balance, pensiamo ad esempio al tempo (e ai costi e allo stress) risparmiati per i tragitti casa-ufficio evitati.
  • Benefici per le organizzazioni: anche le realtà più scettiche che non ritenevano che tale modalità di lavoro potesse applicarsi al loro contesto si stanno ricredendo. Inoltre, la situazione emergenziale ha portato a sperimentare una modalità di lavoro più flessibile anche particolari categorie di lavoratori che, in alcuni casi, erano esclusi dai progetti di Smart Working tradizionali (es. i referenti dei call center, il personale di front office). Questa forzatura ha permesso di comprendere quali sono i benefici di un modo di lavorare diverso non solo per le persone ma anche per le organizzazioni. Secondo quanto stimato dall’Osservatorio lo Smart Working può portare ad un incremento della produttività di circa il 15% oltre che un maggiore engagement delle persone e l’occasione per ripensare processi aziendali rendendo più fluido ed efficiente il lavoro.

Rispetto alle modalità di organizzazione del lavoro, non solo non è possibile tornare alla situazione pre-Covid ma non è nemmeno auspicabile poiché rappresenterebbe una perdita di opportunità per l’innovazione delle organizzazioni pubbliche e private enorme.

Occorre quindi prendere il meglio di questa esperienza e tradurla in progetti di smart working strutturato lavorando soprattutto su due fronti: da un lato favorendo la diffusione di strumenti e iniziative a supporto dell’innovazione digitale e dall’altro cercando di innescare quel cambio culturale verso una più diffusa responsabilizzazione sui risultati da parte delle persone che non sempre si è riusciti a fare in questa situazione emergenziale.

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