formazione e tecnologia

“Cultura digitale”, insegnarla a scuola e formare gli insegnanti: ecco perché è una priorità

Sempre più spesso si evoca la necessità di incrementare, nelle aziende, nelle scuole, nella PA e altrove, una “cultura digitale”. Ma che cosa dobbiamo intendere con questa espressione? Qual è la cultura digitale che andrebbe insegnata, e a chi? Una traccia di riferimento

Pubblicato il 22 Apr 2021

Micael Zeller

recuperohd.it, cultura-digitale.com

cultura del lavoro

Sulla divulgazione di una cultura digitale sono tutti d’accordo, il rischio è di considerarla riduttivamente come una serie di abilità. Una vera cultura digitale si costruisce da un insieme di conoscenze tecniche, ma anche storiche, scientifiche, fenomeniche, informatiche, sociologiche. Ecco un possibile percorso.

Un concetto utilitaristico

Un possibile concetto di cultura digitale è quello di un insieme di conoscenze pratiche: sapere come collegarsi, dove cliccare, come usare le applicazioni per computer e le varie app per smartphone, come ricercare e muoversi in internet e come fruire dei social. Insomma, una cultura essenzialmente pratica.

Quando si parla di “consapevolezza digitale” si pensa di solito al sapere stare in guardia dai pericoli in cui si può incorrere nell’uso dei mezzi digitali, come phishing, cavalli di Troia, ransomware, o più semplicemente banali fake news.

Un capitolo importante è poi la consapevolezza digitale che occorrerebbe ai giovanissimi, esposti ai danni del cyberbullismo, con i suoi aspetti legati al sesso.

La divulgazione di questo tipo di consapevolezza è urgente. Ma se si vogliono mettere le basi per un uso veramente consapevole, se ambiamo a una prospettiva e una visione, indispensabili per affrontare nuovi progetti, nuove opportunità e nuove sfide, non basta usare i mezzi del digitale come “scatole nere” ignorando che cosa ci sia “dentro” o “sotto”.

Ecco perché, per quanto preziose, le nozioni utilitaristiche possono costituire solo un punto di partenza per una “cultura digitale” intesa nel senso più pieno e integrato, di cui possiamo abbozzare una traccia esemplificativa.

Bit, byte e file

Tanto per cominciare, questi dati che consumiamo e produciamo a ritmo sempre più forsennato, sappiamo che cosa sono materialmente?

Semplice: zeri e uni. E come mai sono diventati gli elementi base dei calcolatori?

Apprendere le operazioni logiche elementari, fare un’addizione di due numeri binari, sono i primi passi per intuire i principi, meccanici, logici e integralmente stupidi, con cui ragionano tutte le macchine.

Dalla nozione di bit e dei suoi multipli possiamo capire da cosa siano costituiti i testi che leggiamo sui nostri schermi. (A proposito, se credete di sapere quali siano i multipli del byte forse non sapete tutto…).

E le immagini? Come fa una macchina a ricreare i puntini che la compongono? E che differenza c’è tra le immagini nate come insieme di puntini e quelle tracciate mediante linee e curve algebriche?

Afferrati questi principi, è utile capire che in realtà i dati elaborati sono trattati quasi sempre in modalità compressa.

Per esempio, può capitare a tutti di trovarsi davanti a un file .ZIP: su che cosa si basa il suo sistema di compressione non lossy, o abbreviazione? Il suo principio non è molto difficile da capire, e ci insegna qualcosa sulla densità di significato di un messaggio, oltre che sull’utilità di un sistema usato anche dai file delle suite Office.

È istruttivo anche conoscere il principio di un’altra compressione usata continuamente: JPEG, che sfrutta l’imprecisione con l’occhio umano percepisce le sfumature tra i colori, e le altre compressioni lossy.

Ma “dove” sono, materialmente, i nostri dati? Vicino a noi: qualche nozione sugli hard disk e SSD è necessaria, come pure sulla differenza fra le memorie di massa e memorie flash di smartphone e tablet. E non meno importante è avere un’Idea di quelli lontani da noi: i data center, nei quali è in funzione anche una grande massa di computer virtuali al servizio delle aziende.

Tutta la storia in pochi decenni

Come tutte le storie, anche quella dei computer può ben essere appassionante per i curiosi, ma un’idea dell’evoluzione dell’informatica è un aspetto essenziale della cultura digitale; per esempio, il principio dell’empirica legge di Moore, forse oggi in esaurimento.

Ancora più interessante è la storia della nascita di internet, in cui non coincisero solo fatti tecnici o finanziamenti. Un elemento importante scaturì dalla moda “hippie”, in cui convivevano gusto della libertà, rifiuto delle gerarchie, insofferenza per ogni condizionamento autoritario, do-it-yourself, massimo individualismo eppure anche totale disponibilità alla condivisione di idee e saperi. Proprio grazie a questo clima culturale, di cui i creatori dell'”internetting project” erano imbevuti, poté nascere una rete priva di capo e di centro, concepita affinché le applicazioni potessero essere create da qualsiasi punto periferico.

Avanzando di un decennio, si parla di World Wide Web, e qui sarebbero importanti alcune nozioni tecniche di base, perché molti utenti ignorano il basilare concetto (tecnico e giuridico) di “dominio”, o la differenza tra il chiamare un url e l’inserire nella barra una stringa di ricerca, o l’HTML sottostante le pagine.

Nella storia dell’informatica va illustrato l’episodio del “Millennium Bug”, non per l’impatto che ebbe in pratica ma perché indice della complessità dei sedimenti di software che si erano già allora stratificati nei sistemi e nelle applicazioni, con la perdita della visibilità a basso livello.

Un altro episodio storico rilevante è stato il sabotaggio delle centrifughe di uranio iraniane mediante il virus Stuxnet, seguito dal virus spionistico Flame. Questi attacchi dimostrarono la complessità e l’importanza delle cyber-armi.

La transizione storica

Ma c’è un’altra storia del digitale che merita di essere osservata: viviamo in questi decenni il passaggio dalla “era del cartaceo” alla civiltà digitale. Dal libro all’ipertesto. Dal sito web strutturato (come può essere questo) al blog, semplice rullo cronologico inverso.

E poi il trionfo, personalizzato e un po’ caotico, dei post dei social, per arrivare più recentemente alle effimere stories.

In parallelo, l’evoluzione della riproduzione musicale: dall’analogico al CD; dall’MP3 allo streaming.

Una complessa evoluzione del modo di comunicare e di percepire, che si collega al fenomeno dell’accorciamento dei tempi di attenzione, oramai superati anche dalla capacità attribuita ai pesci rossi: 8 secondi.

Altra evoluzione da notare: siamo passati dal foglio allo schermo, ma la scrittura su tastiera non eguaglia la scrittura manuale nella sua capacità di mobilitare profonde risorse cerebrali. Quanto alla lettura approfondita, studiare leggendo su schermo è meno efficace rispetto alla carta, anche per le ultime generazioni.

Possiamo chiederci fino a che punto i cambiamenti della tecnica digitale provocano cambiamenti nel nostro modo di socializzare, di rapportarci al mondo, e fino a che punto valga il contrario. Una domanda da porsi, anche se non esiste certo una risposta univoca.

Certo invece è che veniamo al mondo con gli stessi istinti sociali che guidavano i nostri antenati di 200.000 anni fa nelle tribù delle foreste e delle savane, perciò è inevitabile che ci serviamo dei mezzi nuovi per esprimere la nostra natura ancestrale. Per esempio, alcuni studi hanno rilevato che il numero di amicizie che possiamo intrattenere nei social network non differisce dal numero di amicizie che, in svariate culture, gli uomini coltivano nei rapporti sociali (numero di Dunbar).

I fenomeni del presente

Altri fenomeni del digitale sono stati largamente divulgati dalla cronaca. Con lo scandalo Cambridge Analytica molti si sono resi conto del valore commerciale dei dati per la segmentazione dei target commerciali e politici (anche se raramente sono stati forniti esempi pratici del loro sfruttamento). È nata la consapevolezza dell’enorme potere dei GAFAM, e sono da notare le grandi difficoltà nell’individuare i mezzi per porre limiti all’oligopolio dei giganti del web, Una sfida che la UE sta con difficoltà tentando di affrontare, a partire dal GDPR del 2018, prima pietra miliare per un riequilibrio nei rapporti tra utenti e fornitori dei servizi digitali.

La blockchain è sicuramente un argomento interessante sotto diversi aspetti: il suo fondamento algoritmico, le applicazioni che questa tecnica dispiega in vari campi (controllo della filiera di un prodotto, pubblica amministrazione…), ma anche le implicazioni negative.

Le criptovalute anonime sono infatti un mezzo ideale per malintenzionati di vari generi. Inoltre i blocchi delle transazioni pesano molto nel dispendio energetico di internet; e questa osservazione si innesta sul problema economico, energetico e quindi ambientale generato dal traffico mondiale di dati, che rappresenta ormai diversi punti percentuali del consumo energetico mondiale.

Di intelligenza artificiale il pubblico ha già appreso gli aspetti principali, e i meglio informati anche le preoccupazioni implicate.

Del resto, basta andare su https://photos.google.com/explore per rendersi conto della capacità del riconoscimento automatico di immagini, che dalla IA è forse l’esempio più semplice.

Molti sanno che il machine learning apprende rafforzando le proprie valutazioni in base alle conferme o smentite delle supposizioni fatte. Quasi mai, però, si dà l’idea di come una macchina possa cominciare un “ragionamento”. Per farlo intuire, si può illustrare un esempio-base di OCR, con l’individuazione delle curve e le estremità di un carattere.

È utile proporre diversi esempi di applicazione della IA, che, spesso invisibilmente, è destinata a invadere le nostre vite. Un fenomeno da menzionare è quello dei proletari del click, che in diversi paesi poveri suggeriscono la giusta risposta per l’apprendimento della macchina.

Guardare al futuro

Guardare al futuro è sempre stimolante. Un soggetto classico è impersonato dai robot, di cui nei decenni scorsi si prevedevano sviluppi fantascientifici, e che sono rimasti invece a stadi relativamente primitivi, nondimeno promettenti, in particolare del campo dell’assistenza a persone con mobilità limitata.

Un argomento avveniristico al quale dobbiamo essere preparati è quello della rivoluzione che potrebbe sorpassare il digitale nel giro di un decennio: computer e reti quantiche. La loro sperimentazione pone per ora importanti problemi di temperatura, interferenze e indeterminatezza, ma ha dato prova di una potenza incomparabile.

Altre considerazioni riguardanti il futuro rischiano invece di giustificare un pessimismo, già prima della presente pandemia. Pesante crisi della classe media, sparizione di mestieri e sfavorevoli prospettive dell’occupazione in molti campi. A questo proposito vanno ricordate le rivoluzioni industriali dei secoli scorsi, con le conseguenti, drammatiche perdite di posti di lavoro, che però si risolsero infine a vantaggio di tutti.

Spunti ottimisti possono essere suggeriti proprio dall’accelerazione forzata che il Covid-19 ha impresso in quasi tutti i campi del digitale: l’odiata (ma non sempre) DAD, l’ormai accettato “smart working”. Ma anche, per esempio, il rapido progresso della telemedicina.

Il messaggio da mandare ai giovani è quindi che per la carriera preparazione e impegno saranno sempre fondamentali, ma non meno importante sarà la capacità di adattarsi e di contribuire alle trasformazioni.

Cultura digitale per chi

Chiunque si occupi di transizione digitale, ma anche chiunque si occupi di prodotti o servizi innovativi, deve oggi di partire da una cultura digitale solida. In tutti i settori, si farebbe prima a individuare chi non abbia bisogno di una cultura digitale.

Questo, pensando a chi è già nel mondo del lavoro, ma a maggior ragione a chi deve ancora entrarci. Perciò l’ambito di destinazione naturale della cultura digitale come materia è la scuola.

Si usa attribuire a tutti i giovanissimi la più grande competenza dei mezzi digitali, ma ciò non corrisponde alla realtà. Dai colloqui intrattenuti con studenti di tutta Europa nell’ambito delle iniziative Wyred, è emersa una richiesta molto forte, da parte dei giovani europei, di un’educazione digitale come materia scolastica.

In effetti il Ministero dell’Istruzione italiano ha inserito negli anni scorsi il concetto di istruzione digitale nell’ambito dell’educazione civica, di cui la cittadinanza digitale è uno dei tre assi portanti.

Secondo la legge 20 agosto 2019, n. 92, “Per Cittadinanza digitale deve intendersi la capacità di un individuo di avvalersi consapevolmente e responsabilmente dei mezzi di comunicazione virtuali”.

Ma “virtuale” rischia di essere l’intenzione del Ministero, visto che il D.M. n. 35 del 22.06.2020 assegna sì all’Educazione Civica almeno 33 ore all’anno, ma da ricavare “all’interno della quota oraria settimanale”. In altre parole, agli insegnanti non è assegnata né un’ora né un euro in più; e comunque il digitale non è indicato tra le competenze da raggiungere al termine del secondo ciclo di istruzione superiore.

Più recentemente, il modello di formazione per i docenti neoassunti 2020-2021 prevede laboratori formativi comprendenti “lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti, l’uso responsabile di Internet, la protezione dei dati personali, il contrasto al cyberbullismo”.

Cittadinanza digitale a Scuola, un’ora preziosa: tutte le novità

Una nuova materia

Più lungimirante, nella direzione della formazione di una cultura digitale, è il Piano d’azione per l’istruzione digitale (2021-2027) delineato nel settembre 2020 per iniziativa della Commissione europea.

Esso si propone di “imparare dalla crisi della COVID-19, durante la quale la tecnologia viene utilizzata su una scala senza precedenti nell’istruzione e nella formazione” e “adeguare i sistemi di istruzione e formazione all’era digitale”.

A tal fine la Commissione ritiene necessarie “capacità e competenze digitali di base sin dall’infanzia; alfabetizzazione digitale, compresa la lotta alla disinformazione; insegnamento dell’informatica; buona conoscenza e comprensione delle tecnologie ad alta intensità di dati, come l’intelligenza artificiale; competenze digitali avanzate che producano un maggior numero di specialisti digitali” di entrambi i sessi.

La Commissione intende inoltre “elaborare un quadro europeo dei contenuti dell’istruzione digitale”.

La direzione è quella giusta. Possiamo già immaginare una “cultura digitale” come materia scolastica curricolare e, fuori dalla scuola, come competenza rivolta a tutti?

Sì. A patto di formarne prima gli insegnanti.

C’è tra l’altro da notare che attualmente le università italiane si occupano di questi argomenti o dal punto di vista informatico o dal punto di vista sociologico, come all’università Federico II di Napoli o La Sapienza. Insomma, gli argomenti del digitale sono un po’ smembrati nella tradizionale divisione tra cultura scientifica e cultura umanistica.

Comunque, un corso di cultura digitale, sulla traccia abbozzata in questo articolo, può essere svolto in otto di ore di lezione.

Otto ore per cominciare a essere noi padroni dei mezzi, anziché il contrario.

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