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Diritto dell’informazione: ecco le tre sfide da affrontare nei prossimi mesi

Sono almeno tre le sfide che nei prossimi mesi impegneranno legislatori, decisori istituzionali, addetti ai lavori, categorie, studiosi e utenti: qualità dell’informazione e stati generali dell’editoria; riforma del copyright: riforma del copyright. Vediamone i punti salienti

Pubblicato il 09 Lug 2019

Ruben Razzante

docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e alla Lumsa di Roma

editoria-digitale

L’inarrestabile progresso tecnologico pone sempre nuove sfide al diritto dell’informazione, che si sta attrezzando per farvi fronte, utilizzando i suoi quattro strumenti a disposizione: le leggi, la giurisprudenza, la deontologia, la dottrina.

Nei prossimi mesi esso sarà chiamato ad utilizzarli tutti per dare compiutezza a un quadro regolatorio che appare sempre più decisivo per dare certezze agli operatori della Rete e alla comunità degli utenti.

Se fino a dieci anni fa si poteva affermare con cognizione di causa che il diritto aveva le armi spuntate e non riusciva, se non con grande fatica e con approdi provvisori, a governare i nuovi fenomeni del web, oggi si può sostenere con sano ma prudente realismo che tutto appare fluido ma che alla fluidità del mondo virtuale si sta affiancando la consistenza di una regolamentazione puntuale ed efficace.

Sono almeno tre le sfide che nei prossimi mesi impegneranno legislatori, decisori istituzionali, addetti ai lavori, categorie, studiosi e utenti.

Qualità dell’informazione e stati generali dell’editoria

Sono in corso i lavori degli Stati generali dell’editoria, convocati dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria e all’informazione, Vito Crimi. Termineranno a ottobre, anche se già nelle prossime settimane il governo inizierà a fare sintesi dei differenti apporti, al fine di proporre alcuni disegni di legge che possano rianimare un settore, quello dell’editoria, in profonda agonia, attraverso soluzioni innovative e modelli di business in grado di conciliare le esigenze di chi produce opere creative, anche di natura giornalistica, di chi le diffonde, anche attraverso le piattaforme web, e di chi ne fruisce, cioè il grande pubblico.

Su queste valutazioni si innesta il tema della qualità dell’informazione e quello, in larga parte correlato, delle fake news. L’emergenza fake news, ancor più se collegata ai rischi di manipolazioni delle campagne elettorali, ha riproposto all’attenzione delle forze politiche e dell’opinione pubblica il tema della qualità dell’informazione. I molteplici punti di vista sull’argomento possono ricondursi a due indirizzi di pensiero.

Il primo tende ad esaltare le potenzialità della Rete e a ritenere ormai indistinguibile il contributo professionale dei giornalisti da quello dei generici produttori di contenuti e preme per una deregulation del settore editoriale che scardini le anguste visioni corporative e garantisca la qualità delle notizie a prescindere da chi le produce.

Il secondo rimane ancorato al mondo editoriale tradizionale e ritiene che si debba continuare a proteggere il giornalismo professionale, valorizzandolo nei suoi qualificanti elementi di attendibilità e affidabilità deontologica. Entrambe le posizioni presentano costruttivi elementi di interesse e il futuro dell’informazione non potrà che passare da un sapiente bilanciamento tra i due approcci. E’ innegabile che anche l’informazione tradizionale, tanto cartacea quanto radiotelevisiva, sia contrassegnata da condizionamenti extraeditoriali. In questo senso attribuire soltanto alla Rete la produzione e diffusione di fake news apparirebbe fuorviante. Anche i media tradizionali a volte veicolano informazioni incomplete, imparziali, faziose, viziate da interessi di parte e da visioni preconcette. Tuttavia, l’amplificazione che una notizia manipolata può ottenere nel web è infinitamente superiore, tanto più che attraverso i meccanismi di distribuzione e condivisione offerti dai motori di ricerca e dai social essa può diventare virale.

Di qui la necessità di rendere riconoscibile, anche in Rete, l’informazione di qualità prodotta professionalmente e nel segno della trasparenza, della correttezza e della verità dei fatti. Più che altro andrebbero rivisti i meccanismi di accesso alla professione giornalistica, proprio in ragione dell’espansione del giornalismo digitale, che richiede competenze nuove e che segue binari non esattamente sovrapponibili a quelli degli altri “giornalismi”. Soltanto dopo aver sciolto il nodo della identità professionale di chi fa informazione, e quindi della sopravvivenza o meno dell’Ordine dei giornalisti, si potranno affrontare le altre questioni legate al sostegno finanziario alle testate giornalistiche, agli incentivi alle start up del settore editoriale e al ruolo dei giganti del web nella promozione dell’informazione di qualità.

La convocazione degli Stati generali dell’editoria ha consentito di coinvolgere tutte le categorie di attori della filiera di produzione e distribuzione delle notizie (giornalisti, editori, poligrafici, professionisti del web, giganti della Rete), che stanno discutendo del futuro dell’ecosistema dell’informazione e che dovranno trovare, sotto la regia del governo, ma in un’ottica di neutralità contenutistica e di lucidità di mercato, una sintesi armoniosa tra diritti e doveri, libertà e responsabilità.

Riforma del copyright e garanzie per i produttori di contenuti

Dopo quasi tre anni di aspri e conflittuali negoziati, il Parlamento europeo ha approvato, nel marzo scorso, il testo della nuova Direttiva sul copyright. Esso aggiorna le regole giuridiche del web, ferme alla Direttiva n. 29 del 2001, e le adegua ai ritmi impressionanti del traffico online, che imponevano punti fermi per tutelare gli autori e i produttori delle opere dell’ingegno creativo di natura giornalistica, musicale, cinematografica, artistica etc.

L’Assemblea di Strasburgo ha espresso parere favorevole con 348 sì, 274 no e 36 astenuti. Questi numeri confermano le fratture tra i gruppi politici, e anche al loro interno, e le pressioni esercitate fino all’ultimo dai colossi del web per impedire l’approvazione della Direttiva. Nel concreto essa impone obblighi molto stringenti ai giganti della Rete per quanto riguarda la condivisione di contenuti prodotti da altri. La Direttiva, è bene ricordarlo, intende garantire che diritti e obblighi del diritto d’autore si applichino anche online e che i ricavi di società come Google, YouTube e Facebook siano condivisi con artisti e giornalisti. Le nuove norme dovrebbero infatti rafforzare la possibilità per autori, editori e creatori, ovvero i titolari dei diritti (musicisti, artisti, interpreti, sceneggiatori ed editori di notizie), di negoziare accordi migliori sulla remunerazione derivata dall’utilizzo delle loro opere presenti sulle piattaforme internet.

Gli articoli più controversi dell’intera direttiva sono il 15 e il 17, che prevedono rispettivamente un compenso per gli editori da parte delle piattaforme online e una maggiore responsabilizzazione di queste ultime per le violazioni dei diritti d’autore. Le attenzioni dei critici della riforma – fra cui le grandi piattaforme americane e gli attivisti per la libertà di Internet – si sono concentrate soprattutto sull’articolo 17. Esso prevede che le piattaforme online esercitino delle forme di controllo su ciò che viene caricato dagli utenti, in modo da escludere la pubblicazione di contenuti protetti dal diritto d’autore e sul quale gli utenti non detengono diritti.

Le piattaforme dovranno impegnarsi a rimuovere tutti i contenuti illeciti e prevenirne la loro futura pubblicazione con un meccanismo di “filtro” (anche se il testo approvato in Consiglio parla di “massimo impegno” nel rimuovere i contenuti, cosa che lo ha reso meno stringente della proposta iniziale del Parlamento).

Gli utenti non saranno responsabili di quanto caricheranno; lo saranno le piattaforme che dovranno verificare se il materiale è legale. Per i promotori delle modifiche le soluzioni proposte, e via via corrette e integrate nella Direttiva, danno la possibilità di avere licenze più adeguate da applicare online, tutelando meglio i diritti degli autori. Anche per questo motivo l’articolo 17 ha trovato nelle case discografiche, nelle associazioni degli autori e nelle case cinematografiche i principali sostenitori.

Ma chi è contrario al testo fa notare che le norme sono confuse e lasciano troppo spazio alle normative nazionali per la definizione di cosa sia un sito di notizie o una piattaforma, con il rischio di avere 28 legislazioni diverse e poca tutela per i titolari di copyright più deboli. La Direttiva prevede che una parte del materiale, come i meme o i Gif, possa essere condiviso gratuitamente, così come gli hyperlink agli articoli accompagnati da poche parole o estratti molto brevi. Formalmente la Direttiva non impone filtri o altri meccanismi per individuare il materiale con copyright. Ma, secondo i contrari al testo, questo meccanismo incoraggerà i colossi a usare meccanismi automatici per filtrare i contenuti e cancellare anche materiale legale perché non coperto da diritti d’autore.

Quanto ai cosiddetti “snippet” (i link con titoli o frammenti di un articolo), il testo dell’accordo è formulato in modo vago: gli aggregatori di notizie come Google News o Facebook dovranno far comparire solo un testo “molto breve”. Chi si oppone al provvedimento sostiene che si tratti comunque di una “tassa sui link”, che perfino Wikipedia rischia di dover pagare. Nel testo viene specificato però che il caricamento di opere su enciclopedie online in modo non commerciale, come nel caso di Wikipedia, o su piattaforme software open source, come nel caso di GitHub, sarà automaticamente escluso dal campo di applicazione della Direttiva. Le piattaforme di nuova costituzione (start-up) saranno soggette a obblighi più leggeri rispetto a quelle consolidate purché abbiano meno di 5 milioni di utenti unici al mese e meno di 10 milioni di fatturato l’anno. Le restrizioni del diritto d’autore inoltre non si applicheranno ai contenuti utilizzati per l’insegnamento e la ricerca scientifica.

La Direttiva dovrà essere recepita entro due anni dagli ordinamenti giuridici dei singoli Stati. Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno dichiarato la loro contrarietà al testo approvato a Strasburgo e dunque lasciano intendere che la legge di recepimento italiana prevederà una certa flessibilità applicativa. Stessa linea potrebbero seguire altri Stati del Vecchio Continente, con l’effetto deleterio di una sostanziale difformità di trattamento da Stato a Stato per i colossi della Rete. L’esatto contrario del tanto auspicato mercato unico digitale. L’impegno dei prossimi mesi su questo versante dovrà essere proprio quello di concertare, sul modello degli Stati generali dell’editoria, una soluzione legislativa in grado di interpretare e applicare al meglio lo spirito della Direttiva, adeguando la legislazione italiana alle esigenze del mondo della Rete, conciliando le aspettative dei produttori di opere creative con quelle dei distributori e dei fruitori.

Per ora in Italia il dibattito sulla definizione dei contenuti della legge di recepimento non è neppure partito. Sarebbe auspicabile immaginare un percorso simile a quello degli Stati generali, al fine di ascoltare le esigenze di tutti. La protezione del diritto d’autore in Rete presenta profili morali, legati al riconoscimento della paternità delle opere, ma anche patrimoniali, riconducibili allo sfruttamento economico delle opere stesse. Si tratta di dinamiche complesse che soltanto attraverso un coro polifonico di apporti costruttivi possono trovare una armoniosa sintesi giuridica sul piano nazionale.

Tutela dei diritti delle persone e responsabilità dei colossi

Si moltiplicano le sentenze nazionali e internazionali che tendono a responsabilizzare le piattaforme di condivisione dei contenuti postati dagli utenti rispetto a condotte illecite e contenuti inopportuni e in violazione dei diritti delle persone. Nei giorni scorsi, in sede europea, l’Avvocato Generale Maciej Swpunar, nelle conclusioni presentate alla causa C-18/18, ha affermato che l’host provider, nel caso di specie Facebook, può essere obbligato a rimuovere commenti diffamatori a livello mondiale. L’Avvocato Generale ritiene che la direttiva sul commercio elettronico, di 19 anni fa, non osti a che un host provider che gestisce una piattaforma di social network, come Facebook, sia costretto, con provvedimento ingiuntivo, a cercare e a individuare, tra tutte le informazioni diffuse dagli utenti di tale piattaforma, quelle identiche a quella qualificata come illecita dal giudice. La direttiva n.31 del 2000, infatti, non disciplina la portata territoriale di un obbligo di rimozione. Se, dunque, la Corte di Giustizia europea accoglierà la soluzione prospettata dall’Avvocato Generale, Facebook e le altre piattaforme di condivisione saranno obbligate a rimuovere i post lesivi, non solo in via successiva, ma anche in via preventiva.

Non c’è dunque contrasto con il divieto dell’obbligo generale di sorveglianza previsto dall’art.15 par.1 della Direttiva del 2000. Viene ammesso, in altre parole, il filtraggio speciale preventivo verso tutti gli utenti (portata personale) per i “contenuti identici” (portata sostanziale), oltre che, unicamente verso l’utente autore (portata personale), per i “contenuti equivalenti”.

Si tratta di un’apertura a una prospettiva di progressiva responsabilizzazione dei colossi del web, destinata a produrre implicazioni sul piano giurisprudenziale e, forse, anche su quello legislativo.

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