Transizione sostenibile

Divario digitale: servono alleanze ibride tra tech e Terzo Settore

Il Terzo Settore è attivo da anni sui territori con progetti basati su azioni multidimensionali, mirate a supportare la crescita delle diverse competenze di individui e comunità. Un patrimonio che va sostenuto e scalato per combattere e colmare il divario digitale. Ecco come

Pubblicato il 24 Ott 2022

Mirta Michilli

direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale

scuola digitale - pagamento contributi scolastici

Per colmare in tempi brevi il divario digitale serve un ecosistema formativo, basato su alleanze ibride, costruite anche con le grandi corporation tecnologiche, perché svolgono un ruolo strategico con le tecnologie abilitanti che consentono alle persone e alle comunità di imparare a vivere in modo più equo e sostenibile. E una governance orientata al bene comune.

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Che fare? Basta scalare il modello di innovazione sociale che le organizzazioni non profit attuano da anni nei territori per combattere il divario digitale, promuovere la formazione continua e la piena partecipazione dei cittadini. Mi auguro che le nuove risorse messe in campo con il Fondo per la Repubblica Digitale, sul modello del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, siano in grado di valorizzare questi modelli di intervento.

Le non profit invisibili alla politica

La trasformazione digitale del terzo settore e la domanda di innovazione della società civile sono oggetto di una discreta letteratura, tra analisi e ricerche. Se invece proviamo a rovesciare la questione, e a chiederci cosa ha fatto il terzo settore per innalzare il livello culturale degli italiani e l’inclusione digitale del paese, troviamo non solo un vuoto di informazioni, ma anche un certo disinteresse e perfino quella diffidenza e supponenza che si riserva a chi si reputa incompetente in materia. In altre parole, si dà per scontato che nel terzo settore non possano esistere professionalità alte e competenze specifiche.

Una prima inversione di rotta sembrava si fosse verificata con la pandemia, con il riconoscimento dell’importante ruolo di connessione e supporto svolto da tutte le associazioni e le organizzazioni con le comunità educanti dei territori: hanno aiutato a connettere scuole e famiglie e hanno arricchito l’offerta formativa con attività formali e informali che hanno riempito lo spazio vita dei più giovani. Allo stesso modo, sono state vicine a tutte le persone in condizione di fragilità, creando relazioni e sperimentando nuovi strumenti digitali di connessione.

Il gruppo di lavoro di Secondo Welfare, con lo strumento messo a disposizione da Slow News, ha verificato come il tema delle politiche sociali integrative sia stato poco affrontato nei programmi politici delle recenti elezioni e come non compaia mai l’espressione “secondo welfare”, cioè l’insieme di interventi che si affiancano a quelli garantiti dal settore pubblico per offrire risposte innovative a rischi e bisogni sociali che interessano le persone e le comunità.

Il magazine Vita invece ha analizzato la presenza delle “parole sociali” nei programmi dei partiti, evidenziano come, ad esempio, sia sparito il termine “sussidiarietà” caro al non profit. Nonostante comprenda oltre 370mila organizzazioni, il terzo settore continua a essere di fatto invisibile.

Perché allora stupirsi se non acquistano visibilità le azioni specifiche contro il divario digitale? In realtà in questi anni si è fatto molto proprio grazie alle collaborazioni di attori del mercato e del terzo settore che hanno affiancato lo Stato per rispondere ai bisogni sociali, compresi quelli formativi, dei cittadini.

Basti pensare a progetti ventennali come Nonni su Internet”, che usa il modello di apprendimento intergenerazionale, esportato anche all’estero, per mettere insieme attività in grado di sviluppare competenze funzionali e digitali negli over 60.

Una Repubblica Digitale promossa dalla società civile

Il monitoraggio della Commissione europea dello scorso anno (Indice di digitalizzazione dell’economia e della società) sottolineava come un ruolo chiave nell’attuazione della Strategia nazionale per le competenze digitali lo stesse svolgendo la Coalizione italiana per le competenze e le occupazioni digitali, basata su “Repubblica Digitale”, un’iniziativa multilaterale che promuove le competenze digitali a tutti i livelli. Un primo, vero, tentativo di mettere a sistema tutte le azioni che funzionano con lo sforzo di costruire anche una diversa cornice mentale. Scorrendo la pagina web di Repubblica Digitale dedicata ai progetti, basta un colpo d’occhio per rendersi conto di quanti siano promossi dalla società civile, anche su scala nazionale.

Peccato che il sistema di ricerca a filtri non permetta di visualizzare quali progetti nascano dalla sinergia delle diverse tipologie di proponenti, cioè pubblica amministrazione, associazioni del settore privato e organizzazioni della società civile.

Invece credo che proprio questa sia la chiave di volta: collaborazioni ibride e una nuova governance con una leadership forte che non abbia paura di “dettare le regole” del bene comune. Su questo aspetto mi convince molto la posizione di Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, dove dirige il Digital Ethics Lab, che teorizza la governance degli Stati di concerto con le aziende che detengono la potenza di calcolo per uscire rapidamente dall’impasse. Si può rivedere online la sua intervista rilasciata per lo speciale del Tg1 dedicato ai “Superpoteri”.

Il legame tra competenze funzionali e digitali

Credo che il primo obiettivo da porsi sia accelerare l’innalzamento della qualità del capitale umano, a partire dalle competenze funzionali. Il Censis calcola che fra il 2012 e il 2020 la partecipazione alla formazione continua (25-64 anni) è passata dal 6,6% al 7,2% con un incremento di soli 8 decimi di punto.

Non possiamo pensare di migliorare le competenze digitali degli italiani senza occuparci di accrescere anche il livello culturale. Tullio De Mauro sosteneva che l’acquisizione di competenze legate alle tecnologie informatiche e della comunicazione funziona solo se l’individuo possiede buone competenze di base, ovvero un buon livello di alfabetizzazione funzionale, cioè la capacità di attivare le conoscenze per svolgere attività della vita quotidiana, come saper leggere il bugiardino di un medicinale o l’etichetta di un prodotto alimentare.

Secondo il recente Desi 2022, oltre la metà dei cittadini italiani ancora oggi non dispone neppure di competenze digitali di base. Un dato che ci fa capire che dobbiamo attivarci con urgenza per progettare azioni multidimensionali. Non è più possibile mettere in campo interventi di trasferimento di tecnologie e risorse per sostenere imprese e organizzazioni senza accompagnarle con azioni forti di formazione continua. Se procediamo in questa direzione, continuiamo ad ampliare il divario tra la digitalizzazione dell’economia e la capacità dei cittadini di usare i servizi digitali.

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