il dibattito

Influencer leader politici del futuro? Attenti all’impegno senza contesto

La comunicazione politica degli influencer propone temi di discussione ma in formato monologo, su un tema, contro un nemico. A sparire è il contesto circostante in cui soppesare i temi, misurarli, valutarli. Ben vengano la schiettezza e il conflitto dialettico, ma siamo sicuri siano totalmente estranei ad altre logiche?

Pubblicato il 05 Ott 2021

Sabino Di Chio

Docente di Media e Consumi Culturali, Università degli Studi di Bari

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Dal “Che schifo che fate politici” di Chiara Ferragni a luglio al “Fedez, sei un politico” (non con il tono di un complimento) di Salmo ad agosto, l’estate 2021 ha posto all’attenzione generale il tema del rapporto tra celebrity digitali e impegno politico. Per anni il dibattito si era concentrato sul versante opposto dell’adattamento dei politici alle novità del digitale. Dall’exploit di Nichi Vendola su Facebook nel 2010, ai tweet quirinalizi di Matteo Renzi fino all’ingresso di Matteo Salvini su TikTok, l’attenzione era concentrata sulla capacità di domare la bestia social, riportandola nell’alveo degli strumenti di gestione del consenso. Compito complesso: la rete livella le posizioni, amplificando le voci senza pretendere tesserini. Per molti osservatori, lo stile populista di buona parte della comunicazione politica degli anni ’10 arriva proprio da qui, da mezzi senza gerarchia in cui assomigliare al pubblico è sembrata a lungo la formula magica.

Influencer per il sociale? Ci serve la “pedagogia mediatica” per orientarci

I Ferragnez primi protagonisti dei social a “sconfinare”

La comunicazione digitale, però, evolve rapidamente: i suoi protagonisti si affermano come idoli trasversali e si sentono pronti a sostenere conversazioni più complesse, oltre le terre sicure dell’influencer marketing o dell’intrattenimento. In Italia, il ruolo di apripista spetta a Chiara Ferragni e Fedez, sodalizio pubblico/privato tra i maggiori interpreti di un ruolo ibrido in cui le professionalità di partenza (imprenditrice di moda di caratura internazionale, lei; rapper da hit parade nazionale, lui) si fondono e confondono con quelle di testimonial, opinionista, socialite, genitore e narratore della quotidianità.

Da mesi i due sono impegnati in azioni di contrasto agli effetti della pandemia e nel sostegno al ddl Zan contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Nell’affrontare questi temi, i due non hanno cambiato l’approccio tipico fatto di autoproduzione dei contenuti (le stories sono la tribuna dal quale si detta l’agenda), coinvolgimento dei follower (gli appelli al crowdfunding hanno permesso di raccogliere quasi 5 milioni di euro in pochi giorni per convertire una tensostruttura in un nuovo reparto di terapia intensiva del S. Raffaele), narrazione intima (la critica alla gestione della campagna vaccinale lombarda prende spunto ad aprile dalle difficoltà incontrare dalla nonna di Fedez nell’ottenere una prenotazione). L’engagement è totale, il linguaggio colloquiale, diretto, senza alcun filtro che possa far sospettare ai follower un deficit di sincerità.

Fedez al Concertone del Primo maggio

L’impatto tra lo stile Instagram e la ritualità televisiva deflagra durante il Concerto del Primo Maggio su Rai 3. Fedez annuncia un intervento sui tentativi della Lega di ostruire l’approvazione in Senato del disegno di legge. Contemporaneamente, aggiorna i follower sul negoziato con la Rai per ottenere la piena libertà di espressione, arrivando a pubblicare, per testimoniare i tentativi di censura, l’audio delle telefonate con i dirigenti Rai registrate senza preavviso. Il confronto appare impietoso: da un lato la burocrazia novecentesca della tv, dall’altro la trasparenza radicale dei social, certo. Ma anche, da un lato un’azienda di servizio pubblico che deve svolgere il suo ruolo di mediatore tra le istanze differenti che permeano la società, dall’altra, un utente di Instagram che gode di tutto il potere che la piattaforma gli concede per gestire, in assenza di qualunque controllo editoriale, contenuti a 12,8 milioni di follower.

La schiettezza è l’ingrediente che rende affascinanti le prese di posizione delle celebrity digitali in ambito sociale e politico. Non è solo una questione di linguaggio: da tempo la politica si è sintonizzata sul colloquiale, ed anche qualche gradino più in basso. Sono convinzione e costanza a colpire, perché radicalmente estranei ad uno scenario post-democratico dominato dall’immobilismo del “non c’è alternativa”. La politica contemporanea è affollata di immagini ecumeniche: la concertazione, l’unità nazionale, le larghe intese. A Roma e Bruxelles attualmente, il timone del governo è in mano a esecutivi di coalizione che si fanno interpreti di un presupposto perseguimento dell’interesse generale, raggiungibile esclusivamente attraverso misure motivate dalla razionalità tecnica e blindate dall’emergenza.

Il conflitto torna al centro della scena

L’integrazione è un dovere, il dissenso critico una minaccia alla stabilità del sistema che assomiglia alla diserzione. È così che il conflitto represso si trasfigura online in scontro tribale tra appartenenze sanguigne, identitarie, claniche che non possono contemplare conciliazione né persuasione. L’altra faccia della neutralizzazione è l’incancrenirsi delle identità in monoliti che danno riparo alla fragilità del soggetto ma trasformano la sfera pubblica in uno scenario dilaniato, al limite dell’incomunicabilità. Paradossalmente gli influencer hanno il merito di riportare al centro della scena una forma di conflitto aperta, dialettica, seppure su temi di emancipazione individuale e non collettiva. Un piglio che arriva dalle esperienze commerciali e da quelle mutua la fiducia nel futuro e la concentrazione sul risultato, selezionando topic dotati di inerzia positiva come il riavvio dell’industria culturale dopo la pandemia o il ddl Zan, sui quali il consenso popolare è molto più vasto e trasversale degli equilibri parlamentari, facendo ipotizzare un lieto fine non impossibile, a portata di mano.

Influencer leader del futuro?

La positività associata alla chiarezza delle rivendicazioni, messa a confronto con le oscillazioni dei professionisti, spinge una porzione dell’opinione pubblica a vedere negli influencer il prototipo di leader del futuro in grado di lottare per le cause che gli stanno a cuore senza ripensamenti, codardie o compromessi al ribasso e i giornali a ventilare discese in campo gratificate da sondaggi con percentuali rilevanti[1]. Addirittura, Matteo Renzi, politico nativo digitale per la media italiana, accusato frontalmente da Ferragni di complottare per il rinvio dell’approvazione del ddl, ha dovuto utilizzare una cifra inedita di caratteri per spiegare quanto la politica sia studio, approfondimento, attesa, compromesso, serietà, passione, fatica. Invecchiando, però, di colpo rispetto all’immagine decisionista e irriverente che ne ha accompagnato l’ascesa, di fronte ad una “avversaria”, libera, globale, indipendente perché dotata di un apparato mediale autonomo che la pone in simbiosi immediata con una fanbase entusiasta.

Se la libertà è partecipazione, l’impegno politico di qualunque cittadino è sempre auspicabile e la storia recente italiana insegna che i veri game changers del settore (Berlusconi e Grillo) sono arrivati, non a caso, proprio dal mondo dei media e dello spettacolo. Occorre piuttosto chiedersi, dunque, quali caratteristiche l’impegno politico delle celebrity digitali prenderà in prestito dai canali che ne hanno sancito il successo. Lorenzo Pregliasco ha parlato di “politica Netflix[2]: gli influencer offrirebbero al pubblico una politica single-issue in cui ogni elettore può scegliere “on demand” una causa di riferimento (ambiente, diritti civili, ecc.) isolandolo da un sistema ideologico classico sull’asse destra-sinistra con l’effetto collaterale di esasperare le posizioni in campo e aumentare la frammentazione dell’opinione pubblica. Il sociologo Marco Pedroni, invece, pone l’accento sullo statuto profondamente commerciale della presenza online dei protagonisti. Difficile eliminare il sospetto che ogni esposizione sia in realtà strumentale alle esigenze di marketing di self entrepreneur costantemente mobilitati per l’espansione delle fanbase[3].

A queste analisi va aggiunta una considerazione sui limiti del mezzo: la comunicazione digitale ha il grande merito di mettere l’utente direttamente in contatto immersivo con il contenuto che desidera. Di conseguenza, però, ha anche il grande difetto di eliminare tutto il resto: l’oggetto dei desideri su Amazon o StockX diventa tale anche perché si erge in solitaria sulla vetrina dello schermo senza l’ingombrante confronto con un negozio circostante pieno di oggetti, stimoli, ripensamenti. Una notizia su Facebook si impone con tutto il suo peso in assenza di una pagina di giornale che le assegni una posizione o una dimensione. E così una destinazione su Google Maps rispetto allo spazio che la circonda, una canzone su Spotify rispetto all’album che la contiene o una stanza su Booking rispetto alla città che la ospita.

Allo stesso modo, la comunicazione politica degli influencer propone temi di discussione ma il formato più efficace è il monologo, su un tema, contro un nemico. A sparire è il contesto circostante in cui soppesare i temi, misurarli, valutarli. La principale preoccupazione è dunque l’idea di un dibattito pubblico trasformato in una successione di allarmi, appelli e scontri, in cui i temi senza sponsor perdano appeal, in cui per decidere insieme ci si renda incapaci di guardarsi da lontano, dall’esterno, dandosi tempo.

  1. https://www.open.online/2021/05/11/quanto-vale-partito-fedez-sondaggio-swg/
  2. https://www.instagram.com/p/COaBu0nDhlJ/?utm_medium=copy_link
  3. https://www.derstandard.at/story/2000128906064/wie-modebloggerin-chiara-ferragni-zu-einer-der-einflussreichsten-unternehmerinnen-italiens?fbclid=IwAR2XsfKtc5WXmndFUgtQuet_tldCdBoN6iWZwEsqQY8BGzl2FOtAEzqn0dQ

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