STRATEGIE

Innovazione, abbiamo tagliato fuori la generazione Z: come rimediare

Comunità virtuali o reali, scuola, famiglia, hanno il compito di rifondare il patto con le nuove leve della società. Per scardinare il pessimismo e liberare talenti favorendo così un concreto passaggio di consegne. Un’analisi dell’attuale scenario in Italia

Pubblicato il 05 Dic 2019

Gianna Angelini

Direttrice scientifica di AANT

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Rendimento più basso, minore grado di innovazione dei progetti, debole pianificazione strategica delle proprie idee. Sono alcuni fra gli elementi che si accompagnano alla ridotta competitività delle nuove generazioni italiane rispetto ai coetanei stranieri. Una panoramica delle tendenze in atto e gli strumenti per riorganizzare la rotta.

Questo articolo nasce con due presupposti. Il primo è quello di voler condividere un’esperienza maturata tra i banchi universitari in qualità di docente e coordinatore didattico negli ultimi 15 anni. Il secondo è quello di inserirsi all’interno di riflessioni più generali relative a quanto e come percepiamo e quantifichiamo la nostra felicità, i cosiddetti happiness studies.

L’idea di unire questi due presupposti deriva dalla constatazione personale, ogni anno più forte, del pessimismo che nutrono i giovani nei confronti del proprio futuro – pessimismo peraltro confermato anche da un recente studio di Deloitte.

Giovani e futuro: la perdita di autostima

Dal mio primo incarico di docenza universitaria, che risale ormai al 2005, ad oggi, ho sperimentato, parlando con matricole e laureandi di età compresa tra i 20 e i 30 anni, una perdita sempre più evidente di autostima, fiducia nei confronti del sistema, speranza nei confronti del proprio contesto di riferimento.

Questo ha comportato una serie di comportamenti che rendono i nostri giovani (in media e generalizzando ovviamente) meno competitivi rispetto ai loro coetanei stranieri. Molti giovani all’università si limitano ad osservare programmi, fare la somma dei crediti di cui hanno bisogno, fare i compiti che sono loro richiesti, spesso concentrando il proprio impegno nel minor tempo possibile. Senza essere motivati da una fiducia verso una visione a lungo termine.

Da formatrice, oltre che ricercatrice, questa tendenza mi appare preoccupante, soprattutto sapendo quanto invece possano la vitalità e la creatività dei giovani – che di certo non sono cambiati nel loro DNA, e non può essere di certo giudicata senza considerare le variabili del periodo storico e del sistema politico-governativo in cui si inserisce.

Innovazione e giovani: uscire dallo stallo

Perché se la mia percezione è vera, è vero allo stesso modo che non è semplicemente con i giovani che dobbiamo dialogare per comprendere come uscire da questo stallo, ma dobbiamo indagare sulle diverse responsabilità in gioco. Responsabilità distribuite equamente tra tutti coloro che partecipano al processo di crescita di questa nuove generazioni. Se siete curiosi, ne ho parlato più in dettaglio qui.

Sì perché il pessimismo di queste nuove generazioni – mi riferiscono in particolare alle generazioni Y e Z – si inserisce all’interno di un incupimento generale degli umori, registrato da più parti da ricercatori e sociologi di tutto il mondo. Lo studio più conosciuto in questo senso è probabilmente la ricerca sulla felicità condotta da 4 generazioni di ricercatori ad Harvard su un campione di oltre 700 individui seguiti anno per anno a partire dal 1938 (per approfondimenti, vedi qui), ma non mancano studi sociologici in Italia, di cui, probabilmente il ricercatore Enrico Finzi appare tra i nomi più ricorrenti, avendo dedicato allo studio della felicità degli italiani più di una pubblicazione.

Lo stop impresso dalla crisi economica

Sociologicamente, e per certi versi antropologicamente parlando, dagli studi emerge con una certa chiarezza un deciso cambio di rotta nel modo di sentirsi felici prima e dopo la crisi economica dell’ultimo decennio. Dato probabilmente scontato, ma che non è interessante in sé, quanto se si analizza dal punto di vista di chi, nonostante le difficoltà del periodo, dichiara di sentirsi ottimista e felice.

Se ascoltiamo infatti le loro parole e analizziamo le risposte ai quesiti posti loro in questi anni, notiamo che la complessità del periodo che stiamo vivendo, per poter essere affrontata in modo costruttivo ed ottimistico, viene interiorizzata cambiando le priorità nel proprio modo di vivere.

La felicità e la fiducia nei confronti del futuro non sono più offerte dalla sicurezza professionale o dal benessere economico, ma da concetti più profondi, che riguardano la bontà delle relazioni interpersonali, il recupero del senso dei valori in senso ampio, la valorizzazione della dimensione privata rispetto a quella pubblica. Certo la dimensione pubblica ed il lavoro sono importanti e fondamentali per la propria riuscita nella vita, ma vengono vissuti meglio e con più positività se le variabili prima citate sono messe al primo posto.

Giovani e innovazione, educare chi educa

E se questo è vero, alle relazioni, ai valori, all’intimità bisogna essere educati. Cosa che sembra mancare a questi giovani oggi. Perché ad educarli a credere nelle proprie potenzialità e ad investire nel rischio insito nella proclamazione delle proprie idee devono contribuire tutti assieme, gli istituti di istruzione, le famiglie e le comunità – reali o virtuali che siano, in cui essi interagiscono. Ed è qui che siamo evidentemente impreparati.

Perché se lo fossimo, non dovrei trovarmi nella posizione di arginare genitori che vogliono sostituirsi alle decisioni dei figli quando essi sono già maggiorenni, o di dover spiegare a un ragazzo di 20 anni il valore di un’idea a prescindere dal suo successo, cosa che invece da almeno 10 anni a questa parte mi succede regolarmente. Giovani che vivono la scuola e l’università come un tributo dovuto a qualcun altro, che vivono le comunità in modo isolante ed isolato, come se non avessero interferenza con tutto il resto e hanno una confusione imbarazzante su quali debbano essere considerati, per loro, dei valori guida.

Questa situazione non produce e non ci fa crescere. Dunque ritengo sia arrivato davvero ormai il momento di ridare ai giovani ciò che si meritano. Una buona istruzione – abbiamo elaborato un sistema scolastico d’eccellenza che il mondo ci invidia, come il metodo Reggio-Emilia, che però non abbiamo mai saputo adeguare ai tempi, ed alle età; un’iniezione di fiducia in se stessi, una dose adeguata di indipendenza e senso di responsabilità. Se torneremo ad educarli in modo idoneo ai tempi, sapranno di sicuro sorprenderci. E magari anche sbalordirci.

Io non vedo l’ora.

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