la riflessione

La pandemia fa ricche le big tech, quale lezione per la politica

La dicotomia tra la crisi sociale e industriale e i profitti stellari di poche aziende impone ai Governi di promuovere politiche non solo volte al sostegno delle imprese ma anche alla reingegnerizzazione dei comparti, alla trasformazione dei modelli di business, al contrasto dei monopoli. Prima che sia troppo tardi

Pubblicato il 01 Feb 2021

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

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Durante la crisi immane della pandemia le cosiddette “big tech” – Microsoft, Amazon, Facebook, Google e Apple – sono state tra le poche aziende a raggiungere livelli senza precedenti di crescita. Anche Tesla, per altri versi, ha visto per la prima volta dei trimestri in terreno positivo.

E i guadagni non sono solo stati in termini di crescita in Borsa, che pure c’è stata: la crescita è avvenuta nei profitti e nei margini. Si è venduto di più e si è venduto spesso con margini maggiori, come dimostrano anche i dati di bilancio di Facebook, Apple e Microsoft usciti nei giorni scorsi.

La lezione da trarre da questa situazione è economica, certo, ma soprattutto politica. Occorre, ora, agire in fretta su molti fronti, per imprimere un cambiamento che non sia solo inteso come “sostegno” economico alle aziende “tradizionali” in crisi, ma che punti sull’accompagnamento verso un cambiamento radicale dei processi e dei modelli di business.

I dati super-rosei delle big tech nel 2020

La tendenza, del resto, era prevedibile: lo scorso anno Amazon ha assunto tantissime persone in giro per il mondo, ha potenziato la sua logistica per far fronte alle richieste dei clienti. Anche quando si sono riaperti i negozi comunque molti consumatori hanno continuato a comprare online. Facebook ha aumentato notevolmente i suoi incassi pubblicitari: con le persone che stanno più in rete, per chi fa pubblicità è impossibile non essere presente sui media che canalizzano l’attenzione degli utenti.

Fa notare Mathias Döpfner, AD della società di media tedesca Axel Springer, che a gennaio 2020 la capitalizzazione di Borsa di Google, Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Tesla era di 3,9 trilioni di dollari. A gennaio 2021 il valore di mercato è salito a 7,1 trilioni di dollari, un aumento dell’82%. Questo mentre l’Europa ha perso 255 milioni di posti di lavoro e centinaia di migliaia di imprese rischiano il fallimento. Nel frattempo, le sole Google e Facebook controllano circa il 46% del mercato pubblicitario mondiale e, se continua in questo modo, nel 2024 ne controlleranno il 60%.

Ciò che è accaduto in più nel 2020 è che moltissimi consumatori sono stati molto più tempo a casa e la rete è stato l’unico punto di accesso alla socialità, allo shopping, allo studio e al lavoro.

I bilanci 2020

E così, il reddito netto di Facebook è cresciuto del 58%, Apple ha registrato il secondo più alto reddito netto di sempre, guidato dalla vendita dei nuovi iPhone 5G. Molti consumatori che avevano evitato di rinnovare il loro telefono negli anni scorsi l’hanno fatto quest’anno. Tesla ha venduto di più e meglio, uscendo dal terreno negativo che la aveva vista negli anni (ricordiamo che chi compra Tesla è un consumatore con disponibilità economica sicuramente oltre la media).

Microsoft ha avuto una esplosione di vendite sia su Azure, in conseguenza della necessità delle imprese di “virtualizzarsi”, sia sulle linee consumer come la Xbox.

Cosa ci dice la dicotomia tra profitti e perdite

Cosa ci dice la dicotomia tra profitti e perdite? Tra profitti sempre più elevati per un pugno sempre più piccolo di aziende tuttofare e la crisi sociale devastante presente non solo nei paesi più industrializzati ma soprattutto nel resto del mondo. Lo stesso Wall Street Journal, giornale finanziario non certo di sinistra, nota come particolare la crescita di vendite di prodotti di fascia alta (Tesla, Apple) in mezzo alla peggiore crisi economica del secolo.

Un paradosso notato, per tutte le big tech, anche dal New York Times; in particolare per Facebook che cresce anche in utenti nonostante le crescenti polemiche sul ruolo negativo dei social sulla disinformazione.

L’ABI nei mesi scorsi ha messo in evidenza come il risparmio non sia affatto calato in quest’anno, anzi i depositi sono cresciuti. Gli analisti finanziari Usa però sottolineano come sia necessario che i depositi dei cittadini si mettano in circolo nell’economia per dare quel “boost” necessario a superare la crisi sociale in atto. Le Borse continuano a macinare profitti a far girare denaro come un enorme casinò, mentre il resto rimane fermo o va in malora.

Ciò che vediamo è che continuano ad allargarsi le disuguaglianze tra imprese e lavoro “tradizionale” che hanno preso in pieno la crisi e faranno fatica a recuperare – molte aziende cesseranno di esistere o saranno costrette a cambiare profondamente – e imprese che operano nella “economia dei dati”. La capacità di spesa è sempre più concentrata in poche aziende, ormai questa concentrazione non è solo legata alla tecnologia ma alla capacità di gestire enormi quantità di dati, di fare economie di scala e di disporre di capitali in quantità difficilmente disponibili ad altri. Queste aziende continuano a mangiare tutto, ad entrare in sempre più settori e a stravolgere i modelli di business.

Questo stravolgimento è determinato non solo dalla capacità di queste aziende di controllare tecnologie sempre più innovative, ma anche dal fatto di essere pervasive e di confrontarsi alla pari con gli Stati (recentemente di fronte all’imposizione dello stato australiano a Google di riconoscere agli editori un giusto compenso, l’azienda ha minacciato di lasciare gli abitanti dell’Australia senza motore di ricerca).

Cosa troveremo sotto le macerie della pandemia

Per combattere la pandemia gli Usa, l’Europa e molti altri paesi hanno dovuto chiedere aiuto a Google e Apple affinché fosse possibile tracciare gli utenti. Facebook è stata richiamata più volte per come il suo algoritmo stia “manipolando” l’opinione pubblica non solo a fini pubblicitari ma anche indirizzando gli utenti verso gruppi estremisti politici.

Quello che ci dicono questi dati è che il resto dell’economia non ha compreso la trasformazione digitale, ha digitalizzato qualcosa ma ha lasciato intatto il modo di operare tradizionale. Non riesce a rinnovare prodotti, modelli organizzativi, sviluppare innovazione per trasformare il suo business.

La vendita al dettaglio probabilmente non sarà più come prima, lo shopping sarà completamente cambiato, cannibalizzato dallo shopping online. Se già prima molti negozi si lamentavano che i giovani andavano a provare le misure prima di comprare online (fino ad arrivare a chiedere una somma per provare i vestiti in negozio se non si comprava l’articolo) adesso sarà ancora più semplice per i consumatori fidarsi di fare acquisti online. La barriera del sospetto dell’acquisto online è venuta meno e lo shopping compulsivo può avvenire 24 ore su 24.

Quando usciremo dalla pandemia e cominceremo a fare l’inventario delle macerie troveremo interi settori industriali che saranno costretti a cambiare o scomparsi.

Chi negli anni scorsi ha saputo cambiare e trasformare il proprio business si troverà meglio. Molti, come le catene della moda di massa, stanno cercando di correre ai ripari attraverso piani di razionalizzazione dei punti vendita con pesanti tagli e uno spostamento del business online. Gli altri settori tradizionali dovranno fare i conti con le piattaforme, decidere di smarcarsi dalla percentuale che chiedono per vendere, affittare appartamenti, prenotare cene, ecc. o di diventarne sempre più dipendenti anche erodendo i propri margini pur di stare dentro le piattaforme.

La crescita del business del cloud avuta dai principali player ci dice che anche qui avremo sempre più una concentrazione del mercato e l’esperienza degli scorsi anni insegna che questa concentrazione determinerà un aumento dei costi e della dipendenza.

Conclusioni

La dicotomia tra crisi sociale e industriale e profitti di poche aziende impone alle aziende di agire in modo diverso ma impone ancora di più alla politica e ai governi (l’Europa in primis) di farsi promotori di politiche non solo volte al sostegno delle imprese ma anche alla reingegnerizzazione dei comparti, alla trasformazione dei modelli di business, al contrasto all’accumulazione nella gestione dei dati.

L’iniziativa dell’UE nei confronti di Amazon per chiedere trasparenza sull’utilizzo dei dati di vendita del proprio marketplace o verso Facebook e Google è un passo in avanti ma non è sufficiente come non sono sufficienti i capitali messi a disposizione con il Recovery Plan.

Servono soldi ma servono cambiamenti, serve il coraggio di innovare profondamente i modelli organizzativi, accelerare il modo di produrre, ripensare cosa produrre e ripensare come vendere e a chi.

I profitti enormi delle big tech ci dicono che è stata data troppa libertà di eludere il fisco, muoversi su settori diversi, utilizzare la leva della finanza investita dalla massa monetaria enorme creata dalle banche centrali con il QE e non arrivata nell’economia reale, agire senza regole nella raccolta dei dati dei cittadini, degli Stati e delle imprese e nella loro elaborazione; ma ci dice che il resto dell’economia (e anche la politica) si è seduta senza accorgersi che, come accade nella storiella della rana bollita, ha finito di essere quasi bollita.

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