colossi digitali

Le big tech ora fanno paura: così i Governi si organizzano, a Occidente e Oriente

Fino a poco tempo fa, in Cina, ove le big tech erano viste come uno strumento di crescita quantitativa e qualitativa dell’economia all’interno e di potenziale affermazione su scala internazionale. Negli Stati Uniti come mezzi di affermazione del potere del Paese nell’ambito dell’economia mondiale. Ma ora il vento è cambiato

Pubblicato il 12 Lug 2021

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

big tech schermi digitale

Dagli Usa alla Cina, le big tech sono nel mirino di Governi e autorità di regolazione: un vero e proprio cambio di rotta nei confronti di aziende fino a poco tempo fa considerate vettori di crescita e innovazione.

Vediamo con quali azioni e quali motivazioni, partendo dalla stretta di Pechino su Didi, arrivando ai recenti ordini esecutivi del presidente Usa Biden per finire agli accordi relativi alla tassazione delle multinazionali digitali in seno al G20.

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Le vicende di Didi, la Uber cinese

Il motore di fondo di quella che sempre più appare essere la linea delle authority cinesi – in pieno accordo se non sotto la spinta di Xi Jinping – verso le big tech del Paese è riassunto in un titolo di The Economist: “China’s communists take control of tech: The attack on Didi shows how high a price the Communist Party puts on control”. Un titolo inconsueto per lo stile e la tradizione del settimanale, ma che in risalto le intenzioni di Pechino: evitare che i colossi tech diventino troppo potenti e riportarli sotto il controllo del partito con gesti palesemente dimostrativi, accettando i possibili impatti negativi sull’economia.

Le vicende di Didi Chuxing (quasi mezzo miliardo di utilizzatori e 15 milioni di autisti), la “Uber” cinese che ha costretto Uber a lasciare la Cina, credo siano note a tutti. Didi si è quotata a fine giugno al NYSE, con la più ricca IPO di un’impresa cinese negli Stati Uniti dopo quello di Alibaba del 2014, e ha toccato quasi subito gli 80 miliardi di dollari di capitalizzazione, per poi perderne un quarto a causa della violenta reazione postuma della Cina all’operazione, motivata con il rischio della perdita del controllo sui dati da parte di Didi: accusa di dubbia consistenza dal momento che Didi già prima dell’IPO aveva azionisti esteri in posizione di grande rilievo, quali il Vision Fund della giapponese Softbank con il 21,5% e Uber con il 12,8% (quota ricevuta a fronte della cessione a Didi della sua sussidiaria cinese). Anche se caratterizzata da una dinamica diversa, la vicenda di Didi ricalca quella di Ant, il braccio finanziario di Alibaba, la cui IPO a Hong Kong e Shangai all’inizio di novembre 2020 – destinata a essere lapiù grande della storia mondiale per entità della raccolta (37 miliardi di $) – fu di fatto bloccata a due giorni dal decollo ufficiale dalle authority cinesi, con una modifica penalizzante delle regole del gioco in quello che era il suo principale business, e fu accompagnato dalla palese caduta in disgrazia di Jack Ma, fondatore e principale azionista di Alibaba e Ant.

E dopo la mossa su Didi la Cina ha messo in chiaro la sua politica futura: combattere ogni possibile atteggiamento monopolistico nel settore tech, con Tencent – primo gruppo cinese per valore con una capitalizzazione di 670 miliardi di dollari  – come possibile prossimo bersaglio dopo Alibaba; considerare i dati raccolti dalle imprese cinesi come un bene pubblico; contrastare le nuove quotazioni nelle Borse statunitensi delle imprese cinesi e creare crescenti difficoltà per quelle esistenti.

La linea di Washington contro i monopoli del web

Se le big tech cinesi sono sotto attacco in Cina, quelle statunitensi – Apple, Amazon, Alphabet-Google e Facebook (con Microsoft al momento meno sotto il mirino) – lo sono sempre più negli Stati Uniti. Ci sono similitudini nelle motivazioni? Io credo di sì. Sono convinto che, pur con le differenze legate alla natura profondamente diversa dei sistemi politici dei due Paesi, ci sia la comune paura della formazione – al loro interno – di soggetti dotati di un potere ritenuto eccessivo, perché in grado non solo di dominare l’economia ma di condizionare le scelte politiche.

Una paura che ha comportato una totale inversione di rotta in Cina, ove le big tech digitali erano viste sino a poco tempo prima come uno strumento di crescita quantitativa e qualitativa dell’economia all’interno – e addirittura protette contro le accuse antitrust rivolte loro dai concorrenti minori – e di potenziale affermazione su scala internazionale (almeno sino allo scoppio del caso Huawei).

Una paura che negli Stati Uniti rompe la tradizionale visione delle imprese multinazionali come uno strumento di affermazione del potere del Paese nell’ambito dell’economia mondiale – da difendere anche con pesanti ritorsioni (come quelle nei riguardi dei Paesi europei) – e che sta facendo diventare in misura crescente bipartisan un’opposizione prima limitata ai circoli più intellettuali di sinistra.

Una paura comprensibile guardando ai numeri: le big five capitalizzano 8.700 miliardi di dollari, il 40 per cento circa del PIL statunitense di 22mila miliardi previsto per il 2021. Una paura che Joe Biden ha gestito ponendo in posizioni di vertice nell’amministrazione due esponenti del cosiddetto neo-Brandeisian movement: come capo della Federal Trade Commission la trentatreenne Lina Khan, divenuta famosa per le sue forti critiche ad Amazon, e come membro del National Economic Council Tim Wu, professore alla Columbia University, considerato l’ispiratore del recentissimo ordine esecutivo di Biden volto a limitare lo “strapotere delle grandi imprese nei riguardi dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese minori”. Ove il neo-Brandeisian movement si ispira al pensiero di Louis Brandeis, un famoso avvocato promotore di cause civili e membro poi della Corte Suprema, che sosteneva cent’anni fa che “la grande dimensione è allo stesso tempo inefficiente e antitetica alla libertà”.

Differenze tra Cina e Usa

Fra le maggiori differenze fra la Cina e gli Stati Uniti vi sono i tempi in cui i nuovi orientamenti della politica possono assumere una reale efficacia nel cambiare le “regole del gioco”: quasi immediati in Cina, fortemente rallentati negli Stati Uniti – come peraltro e ancor più nell’UE – dai delicati bilanciamenti nei poteri che caratterizzano (peraltro fortunatamente) le democrazie.

È di fine giugno la vittoria di Facebook, in tribunale, contro le procedure antitrust parallelamente aperte dalla Federal Trade Commission (con la richiesta di revoca delle acquisizioni di Instagram e WhatsApp) e da un gruppo di oltre 40 Stati. Così come un anno fa fu il tribunale UE ad annullare l’ordine di quattro anni prima dell’antitrust che aveva imposto a Apple di corrispondere all’Irlanda 13 miliardi di euro a fronte di accordi fiscali ritenuti illegittimi: in una Europa che, a differenza della Cina e degli Stati Uniti, soffre della totale assenza di big tech in grado di fronteggiare quelle statunitensi (le cinesi hanno una presenza molto ridotta) e che da anni è impegnata – per limitare l’impatto della loro presenza – nella continua apertura di nuove procedure antitrust e nella messa a punto di nuove regole (quali quella sulla privacy poi diffusasi nel mondo o quella in fieri sul trattamento differenziato da riservare alle imprese cosiddette gatekeeper che regolano l’accesso alle grandi piattaforme digitali).

Le tasse

Ultimo punto, ma non certo di minor rilievo, è quello che riguarda la tendenza delle multinazionali in genere, ma di quelle tech (data l’immaterialità di molte delle loro vendite) in particolare, a (quasi) sfuggire a qualunque forma di imposizione fiscale: una tendenza non nuova, ma vissuta in modo sempre più negativo da Stati sempre più bisognosi di entrate fiscali, dopo le emorragie dovute alla grande crisi del 2008 e alla pandemia tuttora in atto.

Gli accordi di questi giorni a Venezia fra i Paesi del G20, sulla minimum tax al 15%, che fanno seguito a quelli di poco precedenti dei Paesi del G7, confermano (anche se molti aspetti critici rimangono ancora da definire) questa volontà diffusa e sono fortemente sponsorizzati dagli Stati Uniti, che vogliono portare dal 10 al 21% la tassazione sugli utili – per finanziare i grandi progetti di Biden sulle infrastrutture e sulla lotta alla povertà – senza penalizzare troppo però le loro imprese in sede di concorrenza internazionale.

In conclusione

Saranno i grandi studi legali probabilmente, lo dico scherzando ma non troppo, i maggiori beneficiari degli scontri sempre più grandi che si preannunciano fra le big tech e gli Stati, ma anche di quelli crescenti fra le big tech e le imprese che si ritengono danneggiate dai loro comportamenti o comunque puntano a trarre vantaggi da una riduzione dei loro poteri discrezionali.

Come si è visto nel caso di Apple, attaccata – per la gestione della sua piattaforma – da Epic Games nei tribunali statunitensi e da Spotify presso l’antitrust UE.

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