digitale e democrazia

L’onnipotenza delle Big Tech: come e perché gli imperi digitali regneranno anche nel 2022

Il potere delle Big Tech è sempre più forte e sempre più grande. Lo è stato nel 2021 e lo sarà ancora di più nel 2022, per la reiterata assenza (per collusione, correità, complicità?) della politica a governare tale processo. Le contromisure e le leggi che servono

Pubblicato il 12 Gen 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

big tech

Iniziamo prendendo spunto da un articolo dalla newsletter di Shira Ovide, uscito recentemente sul NYT[1] e che ci induce a porci e a porre nuovamente una serie di questioni sempre più importanti e decisive per quanto riguarda libertà e democrazia, potere e governo/governance, demos e livelli di governo nella globalizzazione tecno-capitalista.

Scrive Shira Ovide: “Big Tech got bigger and stronger in 2021. The empires of technology also appeared more vulnerable than ever. […] Yup, this is a contradiction. But this stronger-but-weaker phenomenon for Big Tech is likely to continue in 2022”.

Limitiamo il potere delle élite tecnologiche per salvare libertà e democrazia

Nessuna contraddizione

Prima nostra critica: sicuramente il Big Tech è sempre più forte e sempre più grande. Lo è stato nel 2021 e lo sarà ancora di più nel 2022, per la reiterata assenza (per collusione, correità, complicità?) della politica a governare tale processo: processo per cui il Big Tech diventa sempre più grande perché sempre più autoreferenziale, sempre più autotelico; un processo (che dovremmo considerare ovviamente in senso negativo), di creazione di un oligopolio – o meglio: di un oligopolio di imprese monopolistiche nei loro rispettivi campi di azione/disruption – un oligopolio che sempre più schiaccia la politica, il demos, la democrazia, la cittadinanza sotto i suoi piedi (e quindi la chiamiamo disruption della democrazia per sostituire la democrazia con un sistema di governo basato sullo stesso Big Tech). E certo non bastano a contrastarlo le Authority e i tentativi, sempre deboli e comunque troppo timidi, di legislazione anti-mono/oligo-polistica. Quindi, il Big Tech è tutto, meno che più debole (e anzi il pazzo Elon Musk – che voleva bombardare Marte con le atomiche per renderlo abitabile (!) – è sempre più celebrato come personaggio istrionico, come visionario e come tecno-re del mondo). In realtà Big Tech è la continuazione della rivoluzione industriale e del neoliberalismo con altri mezzi rispetto al passato, ma non certo per altri scopi che non siano l’accumulazione di capitale e l’accrescimento del sistema tecnico. Che infatti continuano a crescere. Indisturbati.

Big Tech invincibile?

Shira Ovide pone poi la domanda: “Are American technology superpowers including Google, Amazon, Apple, Microsoft and Facebook invincible in a way that prior generations of corporate titans were not?”

La nostra risposta è sì, sono invincibili (e non solo quello americano è un superpower tecnologico). E lo sono (1) perché ogni giorno il mondo va in pellegrinaggio fisico o virtuale, ma soprattutto mentale/devozionale alla Silicon Valley, considerando il Big Tech (che non è appunto e ovviamente solo nella Silicon Valley), come il nuovo che avanza e che non si deve fermare, a prescindere dai suoi effetti sociali e ambientali – e basta vedere come ogni giorno i mass/social media siano propagandisti compulsivi del digitale e della digitalizzazione, nel senso proprio della propaganda: non più quella funzionale alle ideologie politiche del Novecento, ma all’ideologia del tecno-capitalismo nella sua versione digitale e che, come tutte le forme di propaganda del passato si basa sullo stimolo basato su parole-chiave, su immagini chiave e sulla ripetizione delle stesse fino a plasmare e a stabilizzare emotivamente la risposta del pubblico; ovviamente escludendo a priori dalle loro pagine (quasi) ogni spirito critico e ogni pensiero pensante e riflessivo (e quindi – ad esempio – favoleggiano di una rivoluzionaria Fabbrica 4.0 che in realtà, lo dimostrano le ricerche sul campo, è solo il vecchio taylorismo[2], anche se digitalizzato, ma che deve essere presentato/propagandato alla credulità del pubblico come nuovo/innovativo/cambio di paradigma, anche se non lo è).

Lo è (invincibile) il Big Tech perché (2) è stato offerto alla nostra credulità come qualcosa di libero e di democratico (ancora la propaganda, o lo storytelling del tecno-capitalismo), quando in realtà non lo era e soprattutto non lo può essere[3], se non distruggendo se stesso; se non riducendo i suoi margini di profitto; se non precludendosi la capacità/possibilità di estrarre profitto crescente dalla profilazione/spionaggio/pluslavoro di massa, cioè dalla sua capacità/possibilità, grazie alle nuove tecnologie (e mai il capitale era arrivato a tanto, mai era stato così sfruttatore dell’uomo) di mettere a profitto per sé non solo il lavoro (come nella fabbrica fordista-taylorista novecentesca), ma appunto la vita intera dell’uomo, quindi emozioni, relazioni, socialità, conoscenza, passioni…tutto venendo industrializzato e mercificato, tutto divenendo capitalismo e tecnica, tutto traducendosi in profitto privato.

Lo sono (invincibili) le imprese del Big Tech perché ormai (3) sono esse stesse il nuovo potere (il Potere, richiamando Pasolini) che governa il mondo, senza più necessità di avere lo stato come sua sovrastruttura di legittimazione. Oggi, appunto lo stato diventa non solo piccolo piccolo davanti al grande Potere del Big Tech – e comunque davanti al Potere dell’impresa multinazionale (lo hanno dimostrato i cosiddetti Grandi della terra che alla recente Cop 26 si sono fatti appunto piccoli piccoli davanti al Potere dei Big delle energie fossili) – ma è incapace non solo di smontare quell’oligopolio che hanno lasciato crescere (ancora: correità, collusione, complicità?), ma neppure di immaginare possibile questo smontaggio, limitandosi a interventi spot.

Lo sono (invincibili) perché (4) noi tutti crediamo (siamo indotti/ingegnerizzati a credere) che la tecnologia sia un bellissimo giocattolo, dimenticando che un social e un videogioco non sono come il vecchio meccano o come il vecchio piccolo chimico, ma sono fabbriche dove ciascuno di noi è messo al lavoro per profitto privato del capitale che ci fa giocare con social e videogiochi e intelligenza artificiale – e oggi con Metaverso.

Too big to fail?

Lo sono (invincibili) perché (5) il Big Tech è così grande come mai nessun altro corporate titan della storia. Troppo grande per poter essere regolamentato dalla politica, soprattutto da una politica che sia democratica. Too big to fail, di nuovo, e questa volta parlando non di finanza e banche, ma di imprese tecnologiche. Il risultato è il medesimo: l’impotenza della democrazia e del cittadino.

Lo sono (invincibili) perché (6) abbiamo totalmente introiettato l’ideologia del tecno-capitalismo (tecnologia di rete e neoliberalismo – in realtà è positivismo), per cui non dobbiamo essere soggetti consapevoli e capaci di immaginare e poi costruire la nostra società, ma dobbiamo solo adattarci (e farlo sempre più velocemente secondo i tempi-ciclo di adattamento imposti, altrimenti detti flessibilità) al mercato e alle esigenze della rivoluzione industriale. E il libero arbitrio, la responsabilità, la riflessione, l’etica? Tutti intralci al funzionamento della macchina tecno-capitalista, che ci inonda di stimoli per avere da noi le risposte richieste in termini di efficienza e di nostri automatismi comportamentali e funzionali. Da due secoli siamo sempre dentro al positivismo nelle sue diverse declinazioni filosofiche (empirismo, pragmatismo, neopositivismo, soluzionismo, neoliberalismo, Silicon Valley); e se Comte e Saint-Simon dicevano nell’Ottocento che società e industria sono (devono essere) la stessa cosa, ebbene oggi il loro delirio sembra essersi compiutamente realizzato.

E la democrazia?

E tutto questo ci riporta dunque ancora una volta al tema – oggetto di questa e di molte nostre precedenti riflessioni, anche su queste pagine – al tema della democratizzazione dei processi di innovazione tecnologica. E lo facciano richiamando Luciano Gallino – che al tema del rapporto (conflitto?) tra impresa/tecnologia e democrazia aveva dedicato anche un libro importante[4] – e poi Shoshana Zuboff, famosa per il suo saggio sul “Capitalismo della sorveglianza”[5].

Scriveva Gallino, nel 2011, sulle pagine di MicroMega: “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […] e viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi strettamente correlati”. E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia. “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri [pensiamo al caso della Gkn di Campi Bisenzio], non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”. Richiamando F. D. Roosevelt – che nel 1938 si dichiarava preoccupato non solo perché l’impresa privata creava sempre meno occupazione e accentuava le disuguaglianze sociali, ma perché era una minaccia per la stessa democrazia esercitando un potere più forte e condizionante dello stesso stato – Gallino aggiungeva: ormai “la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata” – e oggi molto di più. E chi ha avuto la peggio, continuava, “sono stati i lavoratori americani. […] Ma non risulta che quei lavoratori abbiano avuto la minima possibilità di far sentire la loro voce e meno che mai di intervenire con qualche efficacia in decisioni che sconvolgevano la loro esistenza, le loro famiglie, la loro comunità. Pertanto, è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato, da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali [e dei processi di innovazione]. E ancora più arduo è capire […] come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata una sola voce per rilevare che il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca[6].

Il golpe epistemico di Big Tech

Tralasciamo di citarci (del tema abbiamo scritto libri nel 2015, 2018, 2020, 2021) e veniamo a Shoshana Zuboff. Che in un recente articolo uscito sul NYT e ripreso in Italia da Linkiesta.it scrive: “Il potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere capitalismo della sorveglianza perché mantengono elementi centrali del capitalismo tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza. Metodi occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati sui comportamenti. Con un passaggio rapidissimo questi dati, che sono generati dalle persone e che sono stati acquisiti in modo discutibile, sono immediatamente reclamati come proprietà dell’azienda e possono quindi essere utilizzati per aiutare la produzione e la vendita. Questi dati possono essere elaborati per fare previsioni sui comportamenti umani e sono venduti a clienti che operano in un nuovo tipo di mercato in cui si commercia in informazioni che aiutino a individuare in anticipo quali possano essere i comportamenti delle persone. È un mercato delle materie prime con futures umani”.

E aggiunge: “In una civiltà dell’informazione come la nostra c’è anche un ordine sociale derivato dalle questioni essenziali della conoscenza, dell’autorità e del potere che si basano sul possesso di dati. E se non ricordate questo, tenete allora a mente tre domande determinanti: Chi sa? Chi decide chi sa? Chi decide chi decide chi sa? Oggi le aziende del capitalismo della sorveglianza, e in primo luogo i giganti tech, detengono le risposte a ciascuna di queste domande. Non abbiamo votato queste aziende perché governassero. Ma, grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà, gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe epistemico e antidemocratico. Con questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere. I giganti tech decidono che cosa si sa, chi può saperlo e con quale obiettivo”.

E ancora: “Il capitalismo della sorveglianza è la gabbia di ferro dell’era digitale. E, mentre la democrazia dormiva, gli è stato consentito di possedere, manovrare e mediare l’ambiente digitale. […] L’istituzione economica del capitalismo della sorveglianza è lo scenario unificato davanti al quale i danni antidemocratici che fronteggiamo si stagliano non come tanti fenomeni isolati ma come effetti, relazionati fra loro, di una sola causa. […] Il suo scopo è allontanare le persone dai governi, sostituire la società con sistemi computazionali e installare un governo computazionale al posto della democrazia”.

Zuboff è comunque moderatamente ottimista: “Dobbiamo approvare delle leggi che proteggano e promuovano i diritti dei molti contro gli interessi economici dei pochi. Noi affermiamo che il nostro destino non è diventare una distopia basata su sorveglianza, controllo e certezze ingegnerizzate a vantaggio dell’altrui ricchezza e potere. Noi affermiamo che non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo che ogni generazione è chiamata a lottare per prolungare la durata della migliore idea che l’umanità abbia mai avuto [la democrazia e quindi la libertà] e per darle nuova vitalità”[7].

Non facile, per le cose dette più sopra. Ma doveroso è provarci – prima di dover entrare anche nel Metaverso a prescindere da una nostra decisione, da una nostra volontà consapevole, al solo scopo di accrescere ancora di più i profitti di Mark Zuckerberg.

Note

  1. http://www.nytimes.com/2021/12/22/technology/big-tech.html
  2. M. Gaddi (2021), “Sfruttamento 4.0. Nuove tecnologie e lavoro”, Edizioni Punto Rosso, Milano
  3. Ippolita (2014), “La rete è libera e democratica. Falso!”, Laterza, Roma-Bari
  4. L. Gallino (2007), “Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici”, Einaudi, Torino
  5. S. Zuboff (2019), “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss, Roma
  6. L. Gallino (2011), “Democrazia e grande impresa”, in MicroMega nr. 4/2011,
  7. S. Zuboff (2021), “Soltanto la democrazia può salvare sé stessa dalle Big Tech” -https://www.linkiesta.it/2021/12/linkiesta-magazine-democrazia-salvare-big-tech/

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