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Oversight board di Facebook alla prima prova: così si disvela il suo ruolo

Cos’è, come funziona e come si sta muovendo l’Oversight Board istituito da Facebook come “Corte Suprema” chiamata a esprimersi su temi delicati e complessi come l’odio online, le fake news e il diritto alla privacy. E perché dall’attivismo delle piattaforme è verosimile ipotizzare il progressivo declino degli Stati

Pubblicato il 01 Feb 2021

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

facebook

Arrivano le prime “sentenze” dell’Oversight Board istituito da Facebook come “Corte Suprema” già operativa per sindacare, in sede di reclamo, la “legittimità” dei provvedimenti di cancellazione disposti dal social network.

In attesa di conoscere quale sarà l’atteso “verdetto”, destinato in ogni caso a far discutere per gli inevitabili risvolti politici, sulla sospensione di Donald Trump dalla piattaforma deciso a seguito dei noti fatti di violenza culminati nell’assalto di Capitol Hill dello scorso 6 gennaio 2021, emergono già ora alcune interessanti considerazioni.

La “Suprema Corte Social” di Facebook

Circostanza decisamente inedita è che la “Suprema Corte Social”, nel deliberare il proprio responso, stia chiedendo agli utenti di esprimere opinioni su tale vicenda, con l’intento di sollecitare entro il prossimo 8 febbraio l’invio di osservazioni anche in generale su come Facebook, alla ricerca di un delicato bilanciamento, potrebbe concretamente reprimere le attività illecite senza comprimere in maniera eccessiva la libertà di espressione e la protezione dei diritti umani.

Siamo di fronte a un peculiare processo co-decisionale fondato su meccanismi multi-partecipativi dal basso che magari, colmando la mancanza di legittimazione istituzionale, mirano ad occupare spazi politici riservati alla sovranità statale?

Di certo, il funzionamento di una struttura operativa, come organo giudicante indipendente preposto ad emettere decisioni definitive e vincolanti, molto simile al tradizionale modello dei “tribunali”, risulta così integrato dal contributo diretto degli utenti chiamati ad esprimersi su temi delicati e complessi come l’odio online, le fake news e il diritto alla privacy.

Sulle ragioni che hanno spinto Facebook a istituire la propria “Suprema Corte” probabilmente avrà inciso in modo preminente, ben oltre o comunque al pari di una possibile strategia di avanzamento politico, la volontà di dimostrare l’impegno concreto di combattere la disinformazione e ogni altro contenuto manipolativo in grado di inquinare il dibattito pubblico ed il confronto politico, affidando, forse in un’ottica di deresponsabilizzazione decisionale, ad un organo formalmente “super partes”, come appunto l’Oversight Board, il compito di giudicare sulla sorte del flusso comunicativo condiviso online.

L’indipendenza dell’Oversight Board

Di certo, il clima di critiche “bipartisan” manifeste ultimamente nei confronti di Facebook sta mettendo a dura prova la credibilità dell’azienda californiana, provocando una progressiva perdita di fiducia.

Appare emblematica la stesura di una carta ove sono formalizzate apposite linee guida sul funzionamento dell’Oversight Board, da cui si evince l’intento di istituzionalizzare la procedimentalizzazione di tale organo come entità separata da Facebook nella gestione dei relativi reclami mediante l’applicazione di regole orientate a rafforzare trasparenza, indipendenza e terzietà del relativo processo decisionale, sebbene il fondo di finanziamento previsto per la copertura delle spese nei prossimi anni sia a carico di Facebook, che pagherà 130 milioni di dollari per assicurare lo svolgimento delle attività dell’Oversight Board.

Fino a che punto ciò garantirà l’indipendenza della “Suprema Corte” e il rispetto spontaneo delle decisioni emesse in caso di disaccordo?

Un ulteriore interessante aspetto va individuato nella composizione della “Suprema Corte”: la compagine dei primi 20 “giudici” evidenzia un mix variegato e diversificato di rilevanti competenze specialistiche, con una preminenza di cultura giuridica e istituzionale rappresentata da ex giudici, avvocati e attivisti politici (come un ex Primo Ministro danese e un vincitore del Premio Nobel per la Pace), a dimostrazione di una spiccata connotazione “paragiurisdizionale” di cui si vorrebbe dotare tale struttura.

I primi casi dell’Oversight Board

Alla prova dei fatti, almeno rispetto ai primi casi sottoposti al sindacato dell’Oversight Board, la “Suprema Corte” sembra applicare, in condizioni di formale autonomia, criteri decisionali divergenti rispetto al modus operandi di Facebook, ribaltandone spesso l’esito in accoglimento dei ricorsi presentati dagli utenti.

In particolare, l’Oversight Board ha ritenuto errati, in quattro dei cinque casi esaminati, i provvedimenti di rimozione dei contenuti assunti dal social network al quale è stata ordinata la reintegrazione della relativa pubblicazione, con un giudizio di valutazione, peraltro, particolarmente complesso avente ad oggetto controverse implicazioni dal rilevante impatto etico, religioso e razziale.

Stando ai fatti, quindi, almeno allo stato attuale, i timori legati ad una possibile interferenza esercitata da Zuckerberg sull’Oversight Board, come artificio organizzativo formalmente indipendente su cui di fatto mantenere il controllo decisionale, sembrano essere infondati. Al pari delle presunte criticità, come grave “vulnus” dell’iniziativa, sulla mancanza di garanzie procedurali che si vorrebbero rivendicare come peculiarità esclusiva dei tradizionali modelli giudiziari a presidio del diritto di difesa dei ricorrenti, dimenticando in realtà di quanto stia progressivamente venendo meno la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema statale della giustizia, come apparato sempre più arretrato, obsoleto, decadente e logorato anche da inchieste interne che ne minano la stabilità.

Il ban di Trump da Facebook

Senza dubbio sarà decisivo monitorare il “contenzioso” che si accumulerà nei prossimi anni, esaminando nel merito le “sentenze” dell’Oversight Board a cominciare dalla decisione sulla sospensione di Trump.

Anche se, già oggi, in attesa del responso finale, come si può interpretare la mossa di Zuckerberg, nello stabilire una scelta storica così drastica e senza precedenti, come quella di rimuovere dalla propria piattaforma la presenza “social” dell’ex Presidente USA?

Rispetto all’iniziativa di altri social network (come Twitter e YouTube) che hanno optato per la più rigida sanzione della sospensione a tempo indeterminato, Facebook ha invece “bannato” Trump senza stabilire termini di durata in funzione della pronuncia dell’Oversight Board al fine di definire la vicenda, anche sulla base della raccolta dei commenti pervenuti dagli utenti oggetto di valutazione nel corso della relativa istruttoria.

Siamo soltanto di fronte ad una mera strategia pragmatica di difesa dagli attacchi che vengono imputati al social network come principale fonte di responsabilità dell’astio politico che ha provocato un crescente incitamento all’odio sino a raggiungere livelli non più sostenibili, o c’è di più?

Forse si tenta così di dimostrare, nel bene e nel male, uno spiccato interventismo decisionale cui dovrebbero ispirarsi i tradizionali apparati istituzionali orientati all’assunzione di responsabilità nella concreta attuazione di qualsivoglia iniziativa in grado di tradurre una precisa visione politica piuttosto che restare in condizioni passive di immobilismo astratto, all’insegna di discussioni infinite, sino a dimostrare l’evanescenza del sistema statale sempre più inadeguato ad affrontare sfide complesse secondo i rapidi ritmi deliberativi della modernità?

Conclusioni

Cosa resterà nell’immediato futuro di questa attuale fase transitoria, quando si stabilizzerà definitivamente un nuovo equilibrio geopolitico, è difficile saperlo con certezza.

Sembra verosimile ipotizzare il progressivo declino degli Stati a causa di “liturgie” procedurali del tutto auto-referenziali permanentemente gestite da “pochi” a presidio di interessi particolari che disattendono le aspettative sostanziali della collettività nel soddisfacimento di obiettivi di rilievo generale. Tutto questo in un eterno clima di contrapposizioni strumentali e inconsistenti secondo un approccio fazioso nel reclutamento della medesima classe dirigente sempre disponibile per ogni “stagione” che, a seconda di dove “tira il vento”, resiste in condizioni di stabile mantenimento del potere, con la pretesa di fornire soluzioni su come affrontare le crisi e i cambiamenti come se non fosse mai stata messa alla prova, senza nessun fisiologico ricambio generazionale di effettiva apertura alla società reale.

Se questa è diventata l’essenza degli apparati statali, forse è davvero auspicabile decretarne la fine?

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