L'ANALISI

Redistribuire il recupero di produttività permesso dalla tecnologia: quali politiche Paese

La svolta impressa dalla digital transformation rischia di provocare fratture nel tessuto socio-economico causando instabilità nei Paesi. Servono strategie politiche e industriali di lungo periodo in grado di gestire la disruption e restituire valore all’intera società

Pubblicato il 07 Mar 2019

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione

macchine intelligenti

Industria 4.0, Intelligenza Artificiale, Digital Transformation, startup: il sistema imprenditoriale chiede sostegno ai Governi. Ma è necessario che il recupero di produttività generato dalle nuove tecnologie venga redistribuito sull’intera catena del valore coinvolgendo tutta la società. Lo insegna la storia, in particolare le conflittuali vicende legate alla prima rivoluzione industriale. Servono strategie politiche e industriali per gestire l’innovazione: così da scongiurare il rischio che i nuovi scenari socio-economici possano determinare instabilità e disordine. Ecco un’analisi degli snodi che andranno gestiti.

Un recente ricerca della McKinsey[1] indica in una forbice di incremento dal 9% al 22% (0,8-2.0 trilioni di dollari, ovvero migliaia di miliardi nel sistema anglosassone[2]) dei dividendi, una forbice di incremento del 3-10% (0,3-0,9 trilioni di $) degli introiti e un incremento del 4%-9% dei margini (0,3-0,7 trilioni di $) che saranno prodotti dall’innovazione tecnologica utilizzata con un approccio olistico nell’intero settore industriale nei prossimi anni.

In un altro rapporto di settembre 2018, sempre McKinsey[3], viene stimato che l’AI possa creare un’attività economica globale netta addizionale di 13 trillioni di dollari nel 2030, circa il 16% di crescita del PIL(GDP) globale in appena 11 anni. I 13 trilioni tengono conto anche di esternalità negative senza le quali la crescita lorda è stimata nel 26% del PIL(GDP) globale.

Una cifra impressionante se pensiamo che l’intero debito pubblico italiano nel 2018 è arrivato a 2.317 miliardi di euro (circa 2 trilioni) e siamo il 4° paese più indebitato al mondo. Stiamo parlando di una ricchezza aggiuntiva del 565% rispetto al nostro debito pubblico accumulato in decenni realizzata in appena 11 anni. Se paragoniamo poi alla spesa annuale intera dello Stato Italiano prevista, ad esempio, nel 2019[4](0,6 trilioni di euro[5]) annualizzando i 13 trilioni in 11 anni (1,18 trilioni per anno), abbiamo che ogni anno si finanziano due paesi come l’Italia completamente[6], interessi per il debito compresi.

Questi numeri bastano per aprire una riflessione su come e dove redistribuire il dividendo che l’innovazione tecnologica sta producendo e produrrà in futuro.

La lezione della prima rivoluzione industriale

Con la prima rivoluzione industriale nel corso del Settecento in Inghilterra, lo sviluppo dell’innovazione tecnologica nel campo della produzione si trasforma e si concentra sempre di più verso l’incremento della produttività. Prima del 1790 gli storici individuano la diffusione di macchine (principalmente tessili) rivolta principalmente al miglioramento della qualità e varietà dei prodotti, successivamente si concentra verso la produttività anche a scapito della stessa qualità.

Molti lavoratori si trovano “spiazzati” dalle nuove macchine perdendo il lavoro o trovandosi a fare delle “appendici” di quest’ultime, le condizioni salariali e di vita lavorativa peggiorano. Lo sfruttamento intensivo del lavoro unito alla perdita di professionalità indotta dalle nuove macchine determina proteste che non di rado si tramutano in vere e proprie rivolte.

Le proteste e i tumulti si concentrano verso le macchine che “rubano il lavoro” e lo rendono sempre più duro. In questo panorama nasce la figura, forse leggenda, del “Generale Ludd”, di cui non c’è certezza sulla sua reale esistenza e che in realtà sarebbe un giovane di nome Ned Ludd che nel 1779 avrebbe distrutto il primo telaio. In ogni caso tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800 le proteste operaie non di rado colpiscono le macchine, in forma più o meno spontaneista.

I movimenti di protesta e i tumulti godevano di un largo consenso non solo tra la popolazione, ma anche tra l’aristocrazia o la piccola borghesia che vedeva minacciati i principi della “vecchia” società o si vedeva mettere ai margini dalle grandi imprese industriali che cominciavano a prendere piede.

In quel periodo il radicalismo inglese si “incontra” con le idee del giacobinismo e della Rivoluzione Francese dando vita ad una miscela in grado di mobilitare larghe masse di persone, una forte capacità organizzativa tra la popolazione mutuata dalla chiesa metodista, meeting capaci di concentrare un gran numero di persone attraverso una organizzazione capillare. Un’organizzazione che sarà la base del modello delle Trade Unions e dei movimenti socialisti in seguito.

La rivolta del luddisti

Le autorità provano a rispondere attraverso la repressione e leggi che impediscono l’organizzazione operaia. In questo contesto si innesta anche il conflitto con la Francia di quegli anni, tuttavia tra il 1811 e il 1812 i Luddisti (che si rifacevano alla figura immaginaria di Ned Ludd) scatenano forme di protesta che prevedono assalti anche armati contro le fabbriche che avevano una automazione più spinta. Nella notte dell’11 marzo 1811 vengono distrutti circa 60 telai nella contea di Nottingham e l’organizzazione luddista invia un messaggio al ministero degli interni inglese firmata “Ufficio di Ned Ludd nella Foresta di Sherwood” nella quale rivendicano gli attacchi con l’intenzione di continuare contro le macchine che producevano articoli scadenti o che appartenevano ad imprenditori non rispettosi dei lavoratori e dei loro diritti. Nei giorni seguenti il numero di telai distrutti salì a duecento con grave danno per le aziende coinvolte e per il sistema economico della contea: le distruzioni coinvolsero numerose contee dilagando tra quelle più industrializzate.

La repressione fu feroce fino a mettere in campo circa 12.000 militari (più di quelli schierati contro Napoleone). I Luddisti, lungi dall’essere un movimento disorganizzato, dimostrano di poter fronteggiare l’esercito per la capacità di tenere il segreto, organizzarsi tra la popolazione, l’uso delle armi.

Il luddismo sarà fermato in un primo tempo nel 1812, anche se nel 1816 capeggia nuovi tumulti, vengono approvate leggi liberticide e i suoi capi vengono in diversi casi trovati grazie al pagamento di spie e impiccati. Nel 1824 molti luddisti entrano nelle Trade Unions e nel 1836 nel movimento “Charta”, le proteste cominciano a ridursi con il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, l’ottenimento di alcuni diritti, la nascita del movimento socialista che lungi dal promuovere la distruzione delle macchine ne immagina un uso di promozione sociale generalizzato.

I cento anni dell’800 sono percorsi in gran parte dal conflitto per la redistribuzione della ricchezza e un più umano uso delle macchine. Malgrado molti libri scolastici releghino il luddismo come movimento esclusivamente contrario alla meccanizzazione, gli storici che hanno approfondito l’argomento ne individuano la portata di redistribuzione della ricchezza prodotta dalle macchine in termini economici e di vita.

Negli ultimi tempi il tema del luddismo è più volte emerso intorno al dibattito in corso sulla “rivoluzione” dell’Intelligenza Artificiale come rischio del rifiuto delle “macchine intelligenti” da parte dei lavoratori, che indagini e ricerche profetizzano perdere l’occupazione. Su quanto siano valide le previsioni possiamo avere dubbi. Ma non possiamo non tener conto che quasi tutti i più autorevoli istituti di indagine e società di consulenza stimano un notevole aumento della produttività.

La svolta dell’Intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale, a differenza della meccanizzazione della prima rivoluzione industriale, può “istruirsi” imparando dalle persone che lavorano, attraverso i dati che essi producono sui loro movimenti, le loro decisioni, i loro schemi di ragionamento e poi riprodurli con una velocità incredibilmente maggiore e senza il bisogno, in molti casi, della loro supervisione.

Già negli ultimi 40 anni abbiamo assistito ad un enorme recupero di produttività dovuto alle tecnologie digitali che si è trasformato in valore ripartito da una parte sui clienti e dall’altra sulle imprese. I dati statistici sulla redistribuzione dei profitti e sull’aumento della diseguaglianza ci dicono che mentre la parte della redistribuzione del reddito si è ridotta su chi produce (sia esso lavoratore dipendente o piccolo imprenditore) essa è aumentata nei confronti della grande impresa che la utilizza e sui clienti (che hanno potuto comprare prodotti a prezzi sempre minori). Anche se è da notare che i consumatori spesso sono gli stessi lavoratori, è altresì vero che possedere meno reddito o reddito precario non sempre consente di acquistare beni anche quando essi costano di meno.

Un ulteriore studio del FMI[7] confronta la serie storica 1980-2016 evidenziando come la quota parte di ricarico (markup) da parte delle aziende sia cresciuta, è cresciuta anche la concentrazione delle aziende mentre sono diminuiti gli investimenti in innovazione. Si è generato un considerevole aumento delle diseguaglianze.

I recenti scioperi dei lavoratori Amazon in Germania e in molti paesi per ottenere condizioni migliori e la decisione di Amazon di alzare la paga oraria negli USA per far fronte alle proteste e invogliare un maggior numero di persone a lavorare nei propri magazzini ci fanno tornare in mente gli episodi storici della prima rivoluzione industriale. Fortunatamente a nessuno viene in mente di distruggere le macchine ma certo il problema del rapporto tra uomo e macchina e tra aumento della redditività del lavoro e redistribuzione sarà sempre più all’ordine del giorno.

Gli scenari dell’Intelligenza Artificiale che disegnano molti centri studi sono ancora più cupi con lavoratori che tendono sempre più a dividersi tra pochi in grado di aumentare il loro reddito e la maggioranza messa fuori dal sistema produttivo.

I robot tassati di Bill Gates

Bill Gates qualche tempo fa ha proposto[8], in modo molto illuminato, di creare una sorta di tassazione sui robot che consentisse allo Stato di recuperare reddito dalla redistribuzione tra chi viene espulso dal mercato così da garantire condizioni di vita dignitose in modo generalizzato. Altri come Posner e Weyl nel loro libro “Radical Markets”[9] propongono attraverso una impostazione liberale, ad esempio, una sorta di “nazionalizzazione” dei dati e la creazione di un fondo sovrano sul modello norvegese attraverso i guadagni derivanti dall’uso di questi dati offerto alle aziende che ne hanno bisogno per l’intelligenza artificiale. Due ipotesi, non certo assimilabili ad organizzazioni socialiste o di sinistra, che mettono al centro il ruolo dello Stato e della società quale attore principale per il governo di questo cambiamento epocale.

Sempre Posner e Weyl affermano che una progressiva perdita di potere nei luoghi di lavoro, l’emarginazione di parti importanti di manodopera, la neutralizzazione della forza sindacale, determina lo spostamento del potere contrattuale sulla sfera politica, attraverso l’utilizzo del voto politico come strumento di recupero del potere e di opposizione all’emarginazione progressiva dalla ricchezza e dal benessere che le generazioni precedenti hanno avuto modo di conoscere. Un po’ quello che sta già accadendo in Europa con la crescita di pulsioni che in modo semplicistico sono catalogate come populiste. Il conflitto capitale-lavoro si sposterebbe così sulla sfera politica lasciando progressivamente quella del luogo di lavoro.

Assistiamo già oggi a “tumulti”: il voto popolare in molti paesi occidentali è spesso percorso da movimenti populisti o reazionari, “leadership” personali che vengono assunti come liberatori con pericolosi risvolti nella tenuta democratica (i politologi hanno coniato il termine “democratura” per indicare situazioni al limite tra democrazia e dittatura), voti di protesta in direzioni contrarie per principio all’“establishment” quando non in forme di proteste e disordini spontaneisti di piazza come nel caso dei “gilet gialli” (ma è solo il caso più eclatante). Queste proteste, ancorché disorganizzate, non sono che il segnale che la “febbre è alta” e un largo strato della popolazione è arrivato ad un livello di guardia. La “rivoluzione” dell’Intelligenza Artificiale non potrà che acuire le contraddizioni se non si interviene.

Appare evidente che la celebre massima di Margareth Tatcher: “La società non esiste: esistono individui, uomini, donne e famiglie” scricchiola di fronte alla statistica attuale della redistribuzione e di fronte agli scenari futuri. E’ necessario porsi in modo diverso raccogliendo tutta la lezione che la storia ci può dare per affrontare i nuovi problemi a cui andiamo incontro, è necessaria una visione di insieme.

Una strategia che fa leva sul fattore tempo

Il sistema imprenditoriale chiede e ottiene dai governi (e dalle tasse dei cittadini) finanziamenti e incentivi su Industria 4.0, Intelligenza Artificiale, Digital Transformation, startup: questi recuperi di produttività non possono rimanere concentrati solo nelle imprese ma devono tornare a tutta la società.

Se non vogliamo trovarci con forme di protesta più o meno eclatanti, al di là della loro efficacia, e vogliamo governare il cambiamento è necessario poter guardare il fenomeno dell’Intelligenza Artificiale come una ulteriore opportunità di redistribuire all’interno dell’intera catena del valore la produttività generata.

Le tradizionali forze politiche si dimostrano non in grado di dare una chiave di interpretazione e una governance alla rabbia come fece, a suo modo, il movimento socialista e un avveduto sistema imprenditoriale che fu in grado di costruire welfare e politiche redistributive, miglioramento delle condizioni di lavoro. Si apre il rischio che nuovi scenari politici possano determinare instabilità e disordine che non sarà la repressione poliziesca in grado di fermare o peggio aprire scenari di confronto tra lavoratori di nazioni diverse (o etnie diverse) come già la storia buia del Novecento ha dimostrato possibile.

Una ipotesi potrebbe essere quella di una maggiore redistribuzione all’interno della “catena del valore” in termini di reddito e tempo di vita, ad esempio con leggi che comincino a ridurre il tempo di lavoro e creino dei vincoli al suo uso, un po’ come le 8 ore di lavoro nel ‘900 hanno creato un nuovo clima di rapporti tra impresa e lavoratori favorendo peraltro la crescita economica e i consumi.

Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, una riduzione a scalare a seconda dell’età a parità di reddito, permettendo ad una parte dei lavoratori di trovare un impiego e a quelli più “anziani” di poter lavorare con un orario ridotto fino ad età avanzata. Si può ipotizzare, ad esempio, che fino ai 40 anni si possa lavorare fino ad 8 ore per poi vedersi ridurre negli anni l’orario fino a 5 ore dai 60 anni in su.

L’innovazione tecnologica presuppone la necessità di una formazione continua durante tutto l’arco della vita e questo consentirebbe di promuovere programmi di formazione permanente insieme al recupero del “tempo di vita”.

Tecnologie e produttività

I 2 trilioni di dollari di valore in più, ancorché una previsione che possiamo considerare ottimistica, ci danno una dimensione della disponibilità economica da utilizzare a questo obiettivo.

L’Industria 4.0 sta già permettendo di portare produzioni nei paesi occidentali, gli USA ne sono un esempio che molti altri stanno per seguire o stanno seguendo. Non conviene più produrre in modo massiccio in Cina, sia per i maggiori costi di trasporto che per il calo di quelli di produzione determinato dall’aumento di produttività.

Le statistiche della produttività italiana, molto basse, stanno a dimostrare che ormai essa non è più legata alle ore lavorate. Nella classifica internazionale OCSE[10] l’Italia si trova al di sopra del Giappone, sopra alla Francia e alla Gran Bretagna e molto distante dalla Germania ultima in classifica con 26 ore settimanali. Eppure, in termini di produttività quest’ultima è ben al di sopra del nostro paese[11].

L’Intelligenza Artificiale ci spingerà a rivedere i processi di lavoro e la loro automazione sia nella produzione che nella erogazione dei servizi. Le imprese che prima e meglio la stanno utilizzando (Google, Amazon, Facebook, Apple di cui l’acronimo GAFA) stanno dimostrando che le previsioni di McKinsey potrebbero andare nella giusta direzione. È necessario che i governi e la politica prima di tutto ma tutti gli attori della società, si assumano la responsabilità di anticipare i problemi e programmare il futuro verso un progresso sociale ed economico generalizzato, affinché tutti si sentano partecipi dei risultati fino a pochi anni fa incredibili che oggi cominciamo ad intravedere. Chi si occupa di innovazione non può esimersi da questa responsabilità.

____________________________________________________________

  1. McKinsey – “The trillion-dollar opportunity for the industrial sector: How to extract full value from technology”
  2. Nel nostro Sistema equivale ad un miliardo di miliardi in quello anglosassone in mille miliardi
  3. McKinsey – Notes from the ai frontier modeling the impact of ai on the world economy
  4. MefBilancio semplificato dello Stato – Anno 2018 – Quadro generale
  5. Utilizzo il sistema anglosassone di calcolo dei trilioni, vedi nota 2
  6. Ai nostri fini consideriamo 1€/1$ anche se il cambio potrebbe influire di 10-20%
  7. “Global Market Power and its Macroeconomic Implications”, Federico J. Díez, Daniel Leigh and Suchanan Tambunlertchai, July, 2018 , FMI
  8. La Repubblica: Bill Gates: “Robot che rubano posti lavoro paghino tasse”
  9. http://radicalmarkets.com
  10. TPI.it: Quante ore si lavora nei vari paesi del mondo: la classifica
  11. IlSole24Ore: Produttività italiana, l’impietosa classifica dell’Ocse

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