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Etichette IG, perché puntare all’innovazione per evitare la nicchia



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Le indicazioni geografiche sono state di recente oggetto di una riforma da parte dell’Unione Europea volto a spingere la crescita e l’innovazione tecnologica: ecco perché è una strategia positiva

Pubblicato il 5 apr 2024

Antonio Picasso

Direttore Competere.Eu – Policies for Stustainable Development



droni agricoltura
(Foto: https://pixabay.com/dji-agras)

Denominazione di Origine Protetta e Garantita, Indicazione Geografica Protetta, Specialità Tradizionale Garantita. Queste e altre denominazioni fanno parte della lunga lista di indicazioni geografiche, note di solito con le sigle Ig, Doc, Dop, Dopg e che sono state oggetto di una recente riforma normativa da parte dell’Unione Europea.

Un intervento finalizzato a disciplinare la protezione delle indicazioni geografiche per i prodotti agricoli, vino e altre bevande. Un incentivo, nella sua sostanza, per le imprese a sviluppare nuove soluzioni di crescita, identificare nuovi mercati di vendita e applicare le adeguate soluzioni tecnologiche per essere più competitive.

Le etichette IG: quali sono

Le etichette di Ig sono presenti su molti prodotti alimentari. Soprattutto nel nostro Paese, dove il consumatore è da sempre sensibile a queste etichettature che informano sull’origine territoriale del prodotto e che, per un automatismo mentale, sono garanzia di qualità. Il marchio Dop, per esempio, viene concesso a prodotti agro-alimentari le cui qualità e caratteristiche sono totalmente ascritte all’ambiente geografico in cui viene prodotto.

L’Igp, a sua volta, si riferisce a prodotti agricoli e alimentari che possiedono caratteristiche e qualità in parte determinate dall’origine geografica. L’Stg, infine, indica alimenti ottenuti a partire da materie prime e metodi di produzione tradizionali in uso da almeno trent’anni.

Agrifood in Italia, i dati

Nel suo complesso, il segmento italiano delle Ig rappresenta un volume di affari importante – 20 miliardi di fatturato – che sono un po’ il fiore all’occhiello del nostro agrifood, a sua volta filiera di punta dell’industria italiana. Dal rapporto Federalimentare-Censis, dell’anno passato, emergeva infatti che l’industria alimentare è ormai la prima manifattura del Paese. Sono i marchi con queste etichettature che hanno reso il Made in Italy celebre in tutto il mondo. A onor del vero, forzando la mano, visto che il settore agroalimentare, nel suo complesso, cuba 179 miliardi di euro di fatturato annuo, conta 60mila aziende, con 464mila addetti e oltre 50 miliardi di export.

Però lasciamo da parte i paragoni. Prendiamo soltanto atto del fatto che se il piccolo non è più bello, fa comunque presa in termini di marketing.

Stando al XXI Rapporto Ismea-Qualivita, le Ig italiane dominano in tutta Europa. All’interno dei prodotti certificati, il settore cibo sfiora i 9 miliardi di euro (+9%), mentre quello vitivinicolo supera gli 11 miliardi di euro (+5%). L’intero sistema, in Italia, conta 296 consorzi di tutela autorizzati dal Ministero dell’Agricoltura e oltre 195 mila imprese delle filiere cibo e vino, con un numero di rapporti di lavoro stimati a 580 mila unità nella fase agricola e a 310 mila nella fase di trasformazione.

I rischi

Tuttavia, questo scenario così florido non è sufficiente per sopravvivere. Un mercato globale fatto non solo di pesci grandi, ma anche di risorse investite in innovazione tecnologica, i marchi Ig rischiano di diventare sempre più un prodotto di nicchia, con scarsa visibilità e quindi non competitivi.

Per quanto apprezzata e nota ovunque, la nostra agricoltura è fatta per lo più da aziende individuali o familiari, impegnate su appezzamenti medi da 11 ettari circa. Altrettanto ridotti sono gli allevamenti. Sono 45 i capi di bovini mediamente presenti nelle stalle italiane. Questo da un lato confuta le fake news che circolano sull’agricoltura intensiva che sarebbe praticata anche sul nostro territorio, dall’altro però, pone l’interrogativo su come possa sopravvivere il settore al confronto con il resto del mercato. La polverizzazione imprenditoriale rende precaria la stabilità economica di un intero territorio. Come pure espone al rischio abbandono i terreni coltivabili.

Le iniziative UE

Sarebbe quindi miope osservare il nuovo provvedimento Ue unicamente come un’operazione di protezione. Quella di Bruxelles, al contrario, è la risposta alle necessità di adattamento del settore Dop-Igp alle condizioni di mercato, ambientali e sociali in evoluzione.

Alla luce delle performance appena ricordate, la riforma del regolamento delle Indicazioni geografiche è un punto di partenza essenziale per una nuova fase di revisione della politica delle produzioni territoriali e del necessario tentativo di valorizzarle con incentivi e investimenti necessari all’innovazione tecnologica.

È necessario partire dalle aggregazioni e dallo sviluppo di partenariati stabili tra imprese di varie dimensioni. L’esempio dell’Enjoy European Quality Food (eeqf), il progetto Ue e finalizzato a promuovere sei prodotti Doc italiani (Asti DOCG, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG, Vino Nobile di Montepulciano DOCG, Provolone Valpadana DOP, Olio EVO DOP Terre di Siena, Mozzarella STG), è positivo in quanto tale, ma insufficiente se visto da una prospettiva più ampia. Perché non può limitarsi a un caso isolato, né restare unicamente come un’operazione di marketing.

Agrifood e Transizione 5.0

La promozione in giro per il mondo non è più sufficiente. Anche l’agrifood deve cogliere l’occasione delle risorse svincolate dal piano Transizione 5.0. Il provvedimento prevede infatti la copertura, per tutte le imprese – comprese quelle agricole – degli investimenti per il rinnovo di macchinari, attrezzature e software. È il momento per far diventare l’agricoltura italiana davvero smart.

Altrettanto importante resta un piano di valorizzazione del turismo legato ai prodotti Ig. Da sempre i territori italiani sono attrattivi per il “mangiar bene” quanto per il patrimonio artistico e culturale di cui dispongono.

Conclusione

Dal francese Nutriscore a Nova – il sistema brasiliano che classifica, e quindi giudica, i cibi ultraprocessati (Ultra Processed Food, Ufp) come dannosi e quelli, invece, buoni perchè più semplici e fatti con pochi ingredienti – passando per quello australiano e neozelandese con le stelle. Il mondo del cibo sta attraversando una fase di dittatura delle etichette. Grandi aziende, legislatori poco obiettivi, pseudo-scienza e ideologia: questo poker di soggetti pretendono di imporre al consumatore un’educazione alimentare tutt’altro che salubre o sostenibile. Il loro ricorso alla tecnologia è viziato sia per forma sia per sostanza.

Di fronte a tutto questo, le Ig emergono nella loro semplicità. Attenzione però, per vincere una guerra dalla portata globale, ci vogliono le spalle larghe. Non basta dire “piccolo è buono”.

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