crisi sanitaria

Smart working, evitare il “fai da te”: così diventa buona pratica

Le recenti disposizioni normative sullo smart working e le modalità di monitoraggio previste sono adeguate al momento di emergenza legata al coronavirus. L’auspicio è che non tutto si disperda al termine di questo difficile periodo. Tutto quello che c’è da sapere sugli aspetti normativi e sulle varie forme di lavoro agile

Pubblicato il 16 Mar 2020

Giovanni Manca

consulente, Anorc

Foto di Mudassar Iqbal da Pixabay

L’emergenza sanitaria in corso, causata dal coronavirus, costringe la pubblica amministrazione e il privato a lavorare al di fuori dei consueti spazi dell’ufficio, con lo smart working. Una soluzione adottata forse in maniera frettolosa, destrutturata e con rischi per la sicurezza e la protezione dei dati personali.

Forte l’intervento della ministra alla PA Dadone che nei giorni scorsi ha firmato una direttiva per spingere d’imperio le amministrazioni verso queste soluzioni, in teoria già previste dalla norma ma al solito trascurate, con PA locali (soprattutto) abituate a lavorare tramite ricorso alla stampa su carta.

Un percorso ordinato nel tempo, rigoroso negli obiettivi e non scatenato dall’emergenza sarebbe stato fondamentale. Le disposizioni normative recenti e le modalità di monitoraggio previste sono adeguate al momento e ci si augura che terminata l’emergenza non tutto si dissolva.

Facciamo allora una panoramica sugli aspetti normativi e sulle differenti implicazioni realizzative delle varie tipologie di svolgimento della prestazione lavorativa.

Smart working, gli aspetti normativi

L’aspetto normativo si è sviluppato da qualche anno fino a giungere alla recentissima Direttiva 2/2020 del 12 marzo del Ministro per la Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone che stabilisce “il ricorso al lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”.

Dal punto di vista normativo è utile soffermarsi brevemente su alcuni aspetti terminologici e lo faremo tra breve. Sul piano pratico l’obiettivo è quello di consentire il lavoro fuori dal tradizionale “ufficio” al fine di evitare lo spostamento casa-lavoro e viceversa del lavoratore ma anche dell’utenza di cittadini, professionisti e imprese.

La Legge 22 maggio 2017, n. 81 recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” ha introdotto (art. 18, comma 1) il lavoro agile come: “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.

Nel comma 3 del medesimo articolo, si stabilisce che le regole sono applicabili anche alla pubblica amministrazione.

In questa sede normativa si stabilisce che:

  • Si devono fissare obiettivi per l’attuazione del lavoro agile, con l’obiettivo di raggiungere il 10% del personale coinvolto entro tre anni;
  • Si sperimenta il lavoro agile anche al fine di favorire la conciliazione vita privata-lavoro;
  • Si garantisce che i dipendenti che si avvalgono del lavoro agile non subiscano penalizzazioni economiche e di progressione di carriera;
  • Si valorizza il personale e le risorse strumentali disponibili per migliorare produttività ed efficienza;
  • Si responsabilizza la dirigenza anche rafforzando i sistemi di misurazione e valutazione delle performance.

Per favorire la piena attuazione delle disposizioni di legge è stata emanata la Direttiva 3/2017.

In questo documento si ribadiscono:

  • gli obiettivi numerici da raggiungere (il 10% entro 3 anni);
  • la misurazione delle performance organizzative con valutazione degli organi direzionali;
  • gli aspetti organizzativi, di relazioni sindacali e di monitoraggio;
  • le infrastrutture informatiche abilitanti e la sicurezza dei dati;
  • la sperimentazione di forme di lavoro agili (in affiancamento a telelavoro e delocalizzato);
  • la gestione della sicurezza sul lavoro.

Gli aspetti inerenti all’obbligo assicurativo e della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, sono stati stabiliti con la Circolare INAIL 48/2017.

Lo smart working nella PA: cos’è e com’è (complicato) farlo nella realtà

Le differenti implicazioni realizzative delle varie forme di lavoro agile

Dopo questa breve e sintetica descrizione normativa proviamo ora a descrivere le differenti implicazioni realizzative delle varie tipologie di svolgimento della prestazione lavorativa.

L’insieme delle prestazioni lavorative sia nel privato che nel pubblico possono essere svolte in modalità agile. Questo è maggiormente attuabile per impiegati, quadri e dirigenti ovvero per figure professionali che operano alla scrivania e che devono essere messi in condizione di operare tramite una scrivania virtuale.

Il principio di virtualizzazione è strettamente connesso al digitale. Le attività di archivistica e gestione documentale, progettazione e modellazione industriale, attività di amministrazione, finanza e controllo di gestione, contabilità e gestione clienti, ufficio acquisti e risorse umane possono operare in modalità agile. Questa vale a maggior ragione per il personale ICT che è il timoniere del lavoro agile.

Attivare questa modalità di lavoro richiede tecnologia. È indispensabile disporre di un computer portatile (o fisso) in un luogo diverso da quello lavorativo, uno smartphone è utile anche per la messaggistica istantanea (tipicamente Whatsapp o Signal).

Il lavoro da remoto spesso identificato come telelavoro richiede un collegamento di rete con prestazioni adeguate. Poi bisogna accedere alle risorse remote rispettando i piani di sicurezza e i disciplinari di utilizzo delle risorse informatiche redatti (e aggiornati sul tema del lavoro agile) nell’ambito delle regole europee sulla protezione dei dati personali (Regolamento 679/2016 – GDPR).

L’accesso alle risorse remote pienamente efficace è possibile solo se le attività lavorative sono digitali. In emergenza e in tempi ristretti è complesso ma non impossibile attivare reti protette (VPN – Virtual Private Network) e consentire l’accesso remoto con hot-spot WiFi, ma se il procedimento amministrativo è basato sulla carta è ovvio che bisogna passare in ufficio per prendere i faldoni o i fascicoli e operare su di essi.

Il nodo della scarsa digitalizzazione della PA e del privato

Le ultime disposizioni normative, tempestive e doverose, si scontrano quindi con il solito problema della carenza di digitalizzazione della PA e del privato (il caso di scuola è la necessità di firmare atti commerciali o amministrativi tra le parti).

Nei casi migliori si riesce a operare con un procedimento amministrativo solo parzialmente digitale (nella PA il protocollo è alimentato tramite la ricezione di PEC alla casella dell’Area Organizzativa Omogenea) con bassa interoperabilità tra gli Uffici della stessa organizzazione e a maggior ragione tra organizzazioni differenti. Quindi non è per pignoleria terminologica che si deve distinguere tra telelavoro, lavoro delocalizzato, agile e smart working ma per individuare le differenze tra tali operatività che hanno poi anche valenza giuridica.

Lo smart working è “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati” (Osservatorio del Politecnico di Milano).

Il lavoro agile può essere individuato come un’ulteriore evoluzione dello smart working: è una pratica che ha necessità di utilizzare l’ICT per velocizzare ancor di più i tempi, per scegliere i percorsi d’esecuzione più corretti a seconda del contesto e per concretizzare una reale autonomia progettuale. Ciò è possibile quando esiste un’organizzazione del lavoro in team, supportata da strumenti di collaborazione digitale con competenze e ruoli aggiuntivi con lo scopo di superare la tradizionale divisione gerarchica dell’organizzazione. Una video conferenza, telefonate e messaggeria istantanea sono metodi utili per il raggiungimento dell’obiettivo ma lo sviluppo “fai da te” non consente di avere certezze sull’efficienza dei risultati.

Il privato che vuole ottimizzare a prescindere dall’emergenza, sta sempre di più adeguando il proprio business a servizi di tipo DTM (Digital Transaction Management).

Anche la pubblica amministrazione inizia a provare questa tecnologia per far evolvere i propri sistemi di gestione documentale quando sono disponibili in particolare per le applicazioni di gestione ordini e contabilità.

La digitalizzazione è indispensabile anche per limitare la mobilità degli utenti che possono svolgere pratiche da remoto in linea con previsioni normative oramai ventennali ma solo parzialmente attuate.

Una piena applicazione dello smart working full digital sarebbe già possibile ove si fosse attuata pienamente la normativa sulla protezione dei dati personali. Le attività di trattamento dei dati sono nel registro dei trattamenti e l’emergenza sanitaria può essere vista come un problema di continuità operativa (business continuity) e ripristino in caso di disastro (disaster recovery). Tra l’altro queste procedure sarebbero anche obbligatorie a normativa vigente, a prescindere dalla protezione dei dati personali, al fine di proteggere il patrimonio pubblico dei dati.

Conclusioni

Le conclusioni di questi ragionamenti sullo smart working non possono che essere le solite. Si innova sull’emergenza e, come abbiamo detto, sarebbe stato preferibile un percorso strutturato e disciplinato. Non dimentichiamo, inoltre, che fino a qualche mese fa il pubblico dipendente doveva essere fisicamente in ufficio controllato con dati biometrici.

La nota positiva è che la Direttiva 2/2020 è firmata digitalmente e in forma originale è stata pubblicata sul sito del Ministro per la Pubblica Amministrazione curando anche la parte estetica con la figura della penna accostata ai dati della firma digitale.

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