Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca introduce una politica USA “America First” unilaterale, basata su dazi sulle merci e sulla difesa delle proprie Big Tech. Gli Stati Uniti contestano le Digital Services Taxes di vari Paesi tra cui l’Italia (oltre a Francia, Spagna, Regno Unito, Canada e altri), giudicandole misure discriminatorie ed estorsioni fiscali contro le multinazionali digitali americane (Meta, Google, Amazon, Apple).
Le Digital Services Taxes mirano a tassare i ricavi dove il valore è generato (mercati di consumo). Washington minaccia ritorsioni commerciali, aumentando il rischio di una “guerra dei dazi” o “guerra fiscale” a colpi di byte. L’UE valuta risposte ai dazi Usa come una strategia basata su tassazioni comuni o contro-dazi in un contesto di una crisi crescente del multilateralismo (OCSE/G20) sulla tassazione digitale, evidenziando la frammentazione tra i vari “schieramenti storici” e le tensioni globali che sono esplose dall’inizio della guerra della Russia in Ucraina.
Indice degli argomenti
Tassazione big tech, perché la proposta di una digital services tax comune
Il panorama geopolitico e fiscale internazionale è stato profondamente influenzato dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, e questa nuova presidenza ha immediatamente segnato l’abbandono degli impegni precedentemente assunti, e di fatto già congelati dall’amministrazione Biden, relativi all’adozione delle regole per la tassa globale minima sulle multinazionali (Global Minimum Tax), negoziata in ambito OECD-G20. L’approccio di Trump, caratterizzato dalla strategia “America contro tutti”, non si limita ai soli dazi sulle importazioni di merci, ma apre un nuovo fronte significativo sulla tassazione delle multinazionali, con particolare attenzione a quelle del settore digitale.
Un Memorandum presidenziale emesso il 20 gennaio ha formalmente revocato gli impegni sulla Global Minimum Tax e poi ha introdotto la minaccia di misure fiscali di ritorsione nel caso in cui altri paesi fossero stati trovati ad aver adottato imposte considerate “extraterritoriali” o discriminatorie a danno delle imprese americane.
Questo Memorandum prende di mira principalmente due componenti del progetto Global Minimum Tax:
- la qualified domestic minimum tax (QDMT) e
- l’under-taxed payment rule (UTPR).
Queste sono etichettate come imposte “extraterritoriali” perché implementate da governi stranieri con l’obiettivo di spostare gettito fiscale, destinato al raggiungimento del prelievo minimo effettivo del 15%, dagli USA (principale paese di residenza delle case madri) verso i Paesi fonte dei profitti o altri paesi in cui operano sussidiarie. Indipendentemente dalla validità di queste affermazioni, l’iniziativa di Trump pone di fatto fine alle prospettive immediate della tassa globale minima, che finora era stata adottata solo da paesi UE, Giappone e Corea del Sud, ma non da Cina e India.
Il memorandum di Trump contro la tassazione delle big tech
L’offensiva statunitense si è intensificata con un secondo Memorandum presidenziale emesso il 21 febbraio 2025, stavolta specificamente mirato alla tassazione delle multinazionali digitali. Queste Big Tech (tra cui Meta, Google, Amazon, Apple) hanno la maggior parte delle loro case madri negli Stati Uniti.
Secondo un rapporto (Mediobanca) nel 2022 11 delle prime 25 multinazionali websoft erano statunitensi, con un fatturato che rappresentava oltre il 69% del totale. Anche in questo caso, i Paesi stranieri sono accusati di aver implementato strumenti fiscali “espropriativi” dei profitti generati da queste imprese, oltre a interventi regolatori discriminatori a danno degli USA. La risposta minacciata si basa sull’argomento che le corporate americane detengono la proprietà dei brevetti alla base del business digitale.
I principali obiettivi di questa mossa sono le Digital Services Taxes, già introdotte da vari paesi europei (Italia, Francia, Austria, Spagna, Regno Unito) ed extraeuropei (Turchia, India) per tassare i ricavi derivanti da servizi digitali come pubblicità online, intermediazione e data management, spesso basati sulla partecipazione degli utenti. Già durante la prima amministrazione Trump, nel 2019, le Digital Services Taxes erano state fortemente contestate, accusate di essere discriminatorie e in contrasto con i principi fiscali internazionali. All’epoca, gli USA minacciarono dazi sui beni importati dai paesi applicanti le Digital Services Taxes, ma il conflitto rientrò nel 2021 con la prospettiva dell’attuazione del Pillar One dell’accordo OCSE, che prevedeva la cancellazione delle imposte unilaterali come le Digital Services Taxes.
Il Memorandum del 21 febbraio 2025 riaccende ora questa disputa sulla tassazione digitale, inserendola in un contesto globale già stravolto dai dazi di Trump.
Cosa prevede l’iniziativa UE per la tassazione delle big tech
L’offensiva statunitense, in particolare sul fronte dei dazi sulle merci, potrebbe fungere da catalizzatore per spingere i paesi dell’Unione Europea a intraprendere un’azione coordinata che potrebbe concretizzarsi in una iniziativa fiscale comune proprio sul fronte dei servizi digitali. Tale mossa avrebbe l’effetto di spostare la tassazione delle multinazionali digitali dal tradizionale dibattito sull’equità e la ripartizione del gettito a una strategia tariffaria nel contesto del commercio internazionale. Un’azione di questo tipo richiederebbe necessariamente un’azione concordata a livello di Unione Europea.
Sebbene i Paesi dell’UE presentino una bilancia commerciale attiva con gli Stati Uniti per quanto riguarda le merci, cosa che li rende vulnerabili ai dazi americani e che possono causare danni ingenti alle economie europee, la situazione cambia sul fronte dei servizi.
L’UE soffre di un saldo negativo nella bilancia dei servizi, escludendo gli introiti turistici, a causa delle importazioni di servizi immateriali e degli acquisti di diritti di proprietà intellettuale forniti dalle Big Tech statunitensi. In questo scenario, un’imposta unica europea sui servizi digitali è ipotizzata come una possibile risposta strategica ai dazi USA, affiancando i contro-dazi sulle importazioni di merci fisiche che la Commissione europea ha già annunciato di voler applicare in fasi successive.
Resta, tuttavia, l’incognita sull’adesione a tale soluzione da parte di Paesi come Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi e, per interessi diversi, Germania e paesi scandinavi, che sono tradizionalmente contrari a misure unilaterali in assenza di un ampio accordo internazionale, ma che sono comunque colpiti dai dazi di Trump.
Possibili forme della tassazione delle big tech
La potenziale nuova imposta europea sui servizi digitali potrebbe assumere diverse configurazioni:
- una possibilità è quella di basarsi sulla struttura generale delle Digital Services Taxes già in vigore in alcuni paesi europei, valorizzando le esperienze esistenti e coordinandole per creare un’imposta unitaria a livello comunitario. Questo approccio sfrutterebbe meccanismi già noti e, in parte, testati.
- Un’alternativa, ipotizzata da varie parti, è che il nuovo prelievo possa prendere la forma inedita di un’imposta indiretta specifica sulle transazioni digitali, una sorta di “accisa digitale“. Questa sarebbe applicata in modo armonizzato a livello europeo. Indipendentemente dalla forma scelta, un elemento distintivo di questa proposta, se concepita come risposta strategica ai dazi USA, sarebbe che il prelievo dovrebbe riguardare specificamente le sole importazioni digitali dagli Stati Uniti, a differenza delle attuali Digital Services Taxesche si applicano indistintamente a servizi offerti da imprese residenti e non residenti.
Sfide e controindicazioni della proposta Europea
L’implementazione di un’imposta europea sui servizi digitali, soprattutto se intesa come strumento di politica commerciale, si confronta con diverse sfide e potenziali controindicazioni. Come accennato, permangono dubbi sulla possibile adesione di alcuni Stati membri, in particolare quelli che hanno tradizionalmente preferito soluzioni multilaterali rispetto a misure unilaterali o regionali senza un accordo internazionale ampio. Sebbene anche questi paesi siano colpiti dai dazi di Trump, non è scontato che ciò sia sufficiente a superare le loro riserve su un’imposta digitale paneuropea, specialmente se mirata.
Una delle principali controindicazioni nell’utilizzare un’imposta sui servizi digitali come strumento di politica commerciale risiede nella natura della domanda per tali servizi. I servizi digitali presentano verosimilmente una domanda relativamente rigida rispetto alle variazioni di prezzo. Di conseguenza, un prelievo fiscale di questo tipo ha un’elevata probabilità di essere traslato sui prezzi finali, ricadendo sui consumatori dell’Unione Europea anziché colpire direttamente le imprese americane che erogano i servizi. Per avere una reale efficacia come contro-dazio, e quindi esercitare una pressione significativa sulle Big Tech statunitensi, il nuovo prelievo sui servizi digitali dovrebbe probabilmente prevedere un’aliquota più elevata rispetto a quelle attualmente applicate dalle Digital Services Taxes nazionali in vigore nei paesi europei.
Un’ulteriore opzione strategica, non direttamente legata all’imposta digitale ma comunque pertinente nel contesto delle risposte all’offensiva USA, potrebbe essere quella di “giocare di sponda” con nazioni concorrenti degli Stati Uniti. L’UE potrebbe cercare accordi commerciali con paesi come la Cina, il Canada e il Mercosur, reindirizzando verso questi mercati gli scambi di prodotti particolarmente penalizzati dai dazi di Trump. Sebbene le multinazionali statunitensi siano prevalenti, l’offerta di servizi digitali è in forte crescita anche altrove, in particolare in Cina, dove dieci delle prime venticinque multinazionali websoft sono residenti, con una quota di mercato in aumento. Tuttavia, una maggiore dipendenza dalla fornitura di servizi digitali da parte di multinazionali cinesi solleva rilevanti interrogativi, ancora inesplorati, in materia di tutela e riservatezza nel trattamento dei dati.
La reazione americana e il conflitto normativo
Gli Stati Uniti, essendo la sede della maggior parte delle principali multinazionali digitali (Google, Amazon, Meta, Apple), hanno storicamente interpretato le Digital Services Taxes come un attacco diretto alla competitività delle proprie imprese, come riaffermato nel Memorandum presidenziale del 21 febbraio 2025, che adotta un approccio esplicitamente difensivo, in linea con la tradizione dell'”America First”, sebbene reinterpretata in chiave digitale e post-pandemica.
Il Memorandum del 2025 conferisce all’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (USTR) un mandato operativo ampio. Tra le sue priorità rientrano il riesame delle Digital Services Taxes adottate da vari partner europei e l’apertura di nuove indagini sulle misure implementate da paesi come il Canada. Il testo contempla anche la possibilità di attivare controversie formali nell’ambito dell’accordo USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) qualora le iniziative fiscali canadesi siano ritenute discriminatorie verso le imprese statunitensi. Parallelamente, l’USTR è incaricato di valutare l’impatto di normative europee non strettamente fiscali come il Digital Services Act e il Digital Markets Act, sia sul quadro competitivo delle aziende statunitensi sia sui valori fondamentali promossi da Washington, inclusa la tutela della libertà di espressione.
Recentemente, l’applicazione del Digital Markets Act da parte della Commissione Europea ha portato a sanzioni significative (es. 500 milioni di euro per Apple, 200 milioni per Meta), confermando la volontà di Bruxelles di condizionare attivamente il comportamento delle Big Tech e aumentando, agli occhi di Washington, la percezione di un approccio regolatorio punitivo verso le imprese statunitensi. In risposta a queste misure, il Memorandum contempla l’adozione di misure commerciali ritorsive, considerate appropriate, che potrebbero includere dazi mirati o restrizioni agli scambi. Già in precedenza, Trump aveva minacciato, in termini generali, di raddoppiare le aliquote fiscali per cittadini e aziende straniere operanti negli USA come forma di ritorsione.
Gli aspetti geo-economici
Questa escalation di tensione è letta in chiave geo-economica come un’accelerazione del decoupling normativo tra Stati Uniti e Unione Europea. L’intento americano di difendere la supremazia delle proprie piattaforme digitali si scontra con l’obiettivo europeo di rafforzare la propria sovranità digitale e fiscale. Il Memorandum rappresenta un elemento di frizione sistemica tra due visioni opposte dell’economia globale: da un lato, gli Stati Uniti rivendicano un quadro normativo uniforme per le proprie imprese globali, interpretando le DST come un tentativo arbitrario di colpire aziende transnazionali.
Dall’altro, l’Europa insiste sulla necessità di riequilibrare la fiscalità digitale per tassare le attività economiche laddove il valore è effettivamente generato, cioè nei mercati di consumo. Questo scontro va oltre le divergenze economiche, riflettendo anche differenze ideologiche su concetti come sovranità economica, governance dei dati e regolazione delle piattaforme. Il ritorno di Trump segnala un potenziale indebolimento definitivo del processo multilaterale e la prontezza degli USA a usare la leva commerciale in modo unilaterale. La reazione dei governi europei, come dichiarato dalla Presidente della Commissione europea, è quella di essere pronti a introdurre misure ritorsive, inclusa una tassa sui ricavi pubblicitari digitali che colpirebbe colossi statunitensi, potenzialmente usando lo Strumento anti-coercizione dell’UE. L’UE ha inoltre ribadito che non intende modificare normative come il DSA e il DMA per compiacere le richieste statunitensi.
Gli impatti della tassazione delle big tech sul negoziato multilaterale
L’offensiva di Trump sulle DST avviene in un momento critico per il negoziato multilaterale in sede OCSE/G20. Sebbene nel 2021 fosse stato raggiunto un accordo di principio per un’imposta minima globale e regole comuni sulla tassazione digitale (Pillar One e Pillar Two), la sua attuazione è rimasta parziale e frammentaria. Nonostante gli sforzi dell’OCSE per sviluppare un quadro multilaterale attraverso il progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), i progressi sono stati lenti.
La mancanza di un accordo internazionale vincolante sulla tassazione dell’economia digitale ha inevitabilmente portato a un aumento delle misure unilaterali, come le Digital Services Taxes. Questo scenario ha creato un ambiente fiscale globale frammentato e ha contribuito ad aumentare le tensioni commerciali tra paesi. Si prevede una proliferazione delle Digital Services Taxes, con potenziali costi significativi per le imprese statunitensi e un generale aumento delle tensioni commerciali a livello globale.
Il rischio concreto è l’innescarsi di una spirale di misure e contromisure tra i diversi blocchi economici. Questo meccanismo competitivo e reattivo non fa altro che accentuare la frammentazione del cyberspazio economico, un fenomeno spesso descritto come “splinternet”. In questo contesto, le Digital Services Taxes, nate come strumento per riequilibrare la tassazione digitale, si trasformano in un vero e proprio campo di battaglia simbolico della competizione sistemica tra diversi modelli di governance, segnando una crisi del sistema multilaterale basato su regole condivise a favore di una logica più bilaterale o transazionale.
Alternative e prospettive future
Di fronte all’impasse multilaterale e al rischio di escalation unilaterale, le fonti suggeriscono di considerare approcci alternativi. Un’idea è quella di basarsi sul concetto di “diritto con verità“, un approccio che mira a superare l’unilateralismo e la conflittualità. Nell’ambito della tassazione digitale, questo potrebbe portare a soluzioni innovative che non si basano su imposte unilaterali mirate.
Una proposta concreta in questa direzione è la tassazione sul “reddito liquido“. A differenza dell’attuale reddito economico, il reddito diventerebbe imponibile nel momento in cui diventa “liquido”. Tutti i flussi liquidi in entrata sarebbero soggetti a una ritenuta d’acconto. Il web, con i suoi pagamenti digitali, sarebbe l’ambiente ideale per applicare una “sostituzione liquida“. Questo strumento sarebbe applicabile a “tutti” in modo generale, garantendo parità di trattamento. Le multinazionali digitali non verrebbero trattate in modo unilaterale o discriminatorio, come accadrebbe con una “Web tax unica” dedicata a specifici soggetti, ma allo stesso modo di qualsiasi altro soggetto. Una multinazionale che ricevesse un flusso di liquidità da un conto qualificato in Italia, ad esempio, sarebbe soggetta a una ritenuta d’acconto personalizzata se avesse una stabile organizzazione o un conto qualificato tramite un rappresentante fiscale, o a una ritenuta alla fonte definitiva se, da non residente, scegliesse di non nominare un rappresentante fiscale e dichiarare un conto qualificato.
Il nodo del data mining
Un aspetto critico è il data mining cioè l’estrazione di dati. Un approccio basato sul “diritto con verità” tratterebbe questo fenomeno secondo un senso etico comune, riconoscendo il valore creato da chi estrae e valorizza dati che altrimenti non ne avrebbero. I dati (etici o scientifici) potrebbero essere qualificati come risorse minerarie indisponibili, costitutive dell’identità nazionale o regionale. Invece di essere trattato unilateralmente con un’imposta specifica, il bene comune dei dati dovrebbe diventare oggetto di accordi tra Stato e/o regioni e le multinazionali del web. Questi accordi, basati su modelli internazionalmente condivisi, prevedrebbero il pagamento di una “Big Data Royalty” connessa all’estrazione dei dati, mirando a una convenienza reciproca, economica e fiscale. Tale logica, semplice e comune a tutti, non oscura né unilaterale, potrebbe contribuire a creare o garantire condizioni di pace.
Tassazione big tech in UE, i tre scenari
Alla luce di questi sviluppi e delle tensioni in atto, si delineano tre possibili traiettorie future per la governance globale del digitale:
- Regionalizzazione normativa: l’assenza di un quadro multilaterale efficace potrebbe spingere i blocchi regionali (UE, USA, Asia-Pacifico) a sviluppare proprie normative e sistemi fiscali digitali autonomi, aumentando il rischio di frammentazione regolatoria e “guerre digitali” a colpi di dazi e restrizioni.
- Nuova architettura multilaterale: la pressione crescente da parte delle imprese e della società civile potrebbe portare a un rilancio delle iniziative in sedi come l’OCSE o l’ONU, con l’obiettivo di sviluppare un accordo vincolante sulla fiscalità digitale che superi l’attuale impasse e garantisca maggiore equità e prevedibilità.
- Crescente influenza delle Big Tech: in assenza di regole comuni e con l’erosione della capacità regolatoria degli Stati, le grandi piattaforme potrebbero rafforzare il proprio ruolo quasi-sovrano, definendo di fatto regole fiscali, sociali e commerciali attraverso l’arbitraggio giurisdizionale.
In questo contesto, il 2025 è considerato un potenziale anno di svolta per la governance globale del digitale:
- o verso una ricomposizione multilaterale degli interessi, per quanto difficile,
- o verso una frammentazione irreversibile del cyberspazio economico.
La trasformazione delle Digital Services Taxes da strumento di riequilibrio tributario a leva di politica industriale e confronto geopolitico evidenzia la profondità della frattura nel sistema economico globale, che riguarda sovranità digitale, concorrenza strategica e logiche protezionistiche.