digitale e decarbonizzazione

Nuove tecnologie e lavoro: le domande che la politica deve porsi adesso

Dall’aratro passando per l’automobile, fino all’automazione dell’industria, le nuove tecnologie hanno sempre creato problemi, occupazionali e non solo. Ora che al digitale si affianca la decarbonizzazione, è chiaro che i paesi devono riuscire a gestire criticità e riflessi sociali e politici dei cambiamenti. Ma come?

Pubblicato il 10 Gen 2022

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

digitale

Due esempi su tutti – il nuovo piano di Unicredit per la digitalizzazione delle attività e quello di Volkswagen improntato alla decarbonizzazione e che potrebbe costare 30 mila posti di lavoro – fanno riemergere le domande e i dubbi legati al binomio digitale-occupazione, al quale si aggiunge, ora, anche l’inevitabile impatto sul mondo del lavoro della transizione energetica: le nuove tecnologie distruggono l’occupazione? O, al di là dei problemi che esse possono generare nel breve periodo, rappresentano una condizione necessaria per lo sviluppo? Impattano su alcune classi sociali piuttosto che su altre, con ricadute anche rilevanti sulla distribuzione del reddito e sulla politica? Impattano in maniera differenziata, nei loro effetti immediati e in quelli di lungo periodo, sui diversi territori e sui diversi Paesi?

Sono domande che spesso si sono poste gli storici, guardando al passato, e che si pongono (o dovrebbero seriamente porsi) il mondo politico e sociale e il sistema delle imprese, per gestirli al meglio, in presenza di fenomeni di rilevanza epocale quali:

  • la trasformazione digitale, che sembra ancora lontana dall’esaurimento della sua spinta vitale,
  • la transizione energetico-ambientale, che seppure di origine diversa (è la politica che ne determina le modalità e i tempi sotto la spinta dell’emergere di nuovi valori nella società), ha un impatto simile se non superiore – per portata e trasversalità – a quello delle più grandi ondate di innovazioni tecnologiche.

Automazione fa sempre rima con disoccupazione? Lo scenario italiano

Digitalizzazione del lavoro, i posti a rischio: esempi e numeri

Rispetto al passato (vedi box in basso), quello che stiamo vivendo oggi è un problema molto pesante: la sempre maggiore specializzazione richiesta nel mondo del lavoro, se non nei mestieri più umili, rende più difficile la ricollocazione delle persone che le nuove tecnologie e i nuovi business model rendono “obsolete”. Non solo: a chi perde il lavoro perché “obsoleto” si aggiunge chi perde il lavoro perché occupato in una impresa divenuta “obsoleta”, a causa ad esempio dei nuovi vincoli in materia ambientale.

Qualche esempio e qualche numero. Un recentissimo studio di tre accademici italiani -“Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia” (Stato e Mercato, dic. 2021) – valuta in una forchetta fra quasi 4 e oltre 7 milioni (a seconda della metodologia utilizzata) il numero di lavoratori a rischio in Italia come riflesso dei processi di digitalizzazione. Nello stesso momento in cui Confindustria denuncia l’enorme difficoltà delle nostre imprese nel reperire persone con competenze digitali.

Il nuovo piano appena presentato da Unicredit, fortemente improntato alla digitalizzazione delle attività (in linea con il progressivo passaggio a fintech del comparto in tutto il mondo), prevede la dismissione di un numero imprecisato ma sicuramente elevato di dipendenti che non hanno più un ruolo da svolgere (ad esempio per la riduzione del numero di filiali e le diverse modalità di erogazioni dei servizi in quelle attive), l’assunzione di 2.100 nuovi dipendenti con competenze digitali (a fronte dei 1.500 con competenze bancarie), nonché l’internalizzazione di una parte delle attività digitali attualmente in outsourcing.

Decarbonizzazione: criticità occupazionali e ruolo della politica

Agli esuberi “figli” della digitalizzazione di Unicredit si possono far corrispondere quelli “figli della decarbonizzazione” di Volkswagen, dovuti al progressivo passaggio all’auto elettrica reso cogente dall’UE: 30mila nella sola Germania secondo l’AD Herbert Diess, cui si aggiungeranno molti di quelli operanti nelle imprese (tante le italiane) produttrici di componenti destinati all’obsolescenza. E nello stesso momento, nel suo piano 2022-2026, essa prevede di investire 30 miliardi di euro nel software, visto come strategico per la differenziazione: con l’obiettivo, analogo a quello di Unicredit, di fare crescere dal 10 al 60% la quota prodotta “in casa”.

In sintesi, non ci sono dubbi sulla risposta da dare alla domanda che retoricamente ho posto all’inizio di questo articolo: i Paesi e le imprese che meglio sanno “cavalcare” le nuove tecnologie e i nuovi business model e più velocemente sanno adattarsi al sistema di vincoli e incentivi in tema di ambiente sono quelli che hanno le maggiori prospettive di crescita.

I Paesi però devono essere capaci di gestire le criticità occupazionali a breve e i riflessi sociali e politici che i cambiamenti comportano.

La strategicità della formazione continua

Essi devono innanzitutto considerare strategica la formazione continua, vista non solo come aggiornamento ma anche come spostamento verso competenze diverse, incentivando le imprese a muoversi nella stessa direzione: con l’obiettivo di contenere il fenomeno della disoccupazione per obsolescenza, riducendo i costi che altrimenti dovrebbero essere sostenuti (prepensionamenti, reddito di cittadinanza, etc.) ed evitando il radicalizzarsi di forme di luddismo a livello sociale e politico.

Imprese, il problema delle dimensioni

Essi devono considerare strategica la nascita di nuove imprese innovative e favorire in ogni modo la loro crescita: sapendo che l’aspettativa di vita delle imprese su scala mondiale è in continuo calo e che le startup hanno spesso una maggiore facilità nel gestire le tecnologie e i business model innovativi. La dimensione poi è un problema molto serio per l’Italia, “orfana” di grandi imprese, per il fondamentale contributo di diffusione delle competenze e capacità manageriali che esse possono dare e per l’influenza che (se presenti su scala mondiale) possono avere sulle decisioni assunte negli organi multilaterali.

Il problema della contrazione della classe media

Essi dovrebbero infine cercare di evitare, anche se è un tema che richiederebbe uno sforzo comune almeno all’area occidentale, la contrazione della classe media. È un tema che è stato ampiamente dibattuto a metà dello scorso decennio nell’ambito del World Economic Forum di Davos e ripreso ad esempio recentemente in uno studio pubblicato dalla MIT Technology Review – “The work of the future: Building better jobs in an age of intelligent machines” – che riguarda il tipo di lavori più a rischio di essere delegati ad algoritmi di intelligenza artificiale o a robot: sono i lavori che richiedono un certo livello di competenza, con remunerazioni perciò da classe media, ma che hanno un grado elevato di ripetitività tale da essere trasferiti a macchine intelligenti.

Il pericolo, per la stessa sopravvivenza della democrazia, è quello della proletarizzazione della maggior parte della popolazione – per lo “scivolamento verso il basso” di una parte della classe media – e della concentrazione della ricchezza nelle mani di una percentuale ristretta della popolazione.

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