l'analisi

Coronavirus, ora il digital divide minaccia i diritti fondamentali

L’emergenza sanitaria da Covid-19 lascia già emergere importanti riflessioni su diversi aspetti. La rete, preziosa alleata in questa fase, per mantenere in vita una parte dell’attività produttiva del Paese e ridurre le distanze tra la collettività, è al contempo terreno fertile per forti disuguaglianze sociali

Pubblicato il 31 Mar 2020

Lorenzo Giannini

Consulente legale privacy e DPO

semplificazioni identità anpr

Nella difficile situazione che sta attraversando il Paese, in cui le reti di telecomunicazione assumono un’importanza vitale per la sopravvivenza operativa di molte realtà in ambito pubblico e privato, i connotati negativi del digital divide assumono un peso specifico maggiore. Non a caso, col recente decreto “Cura Italia”, il Governo ha inteso porre le basi per misure e iniziative volte al potenziamento delle infrastrutture sull’intero territorio nazionale, così che nessuno, in questa fase già particolarmente difficile, soffra ulteriori disuguaglianze, sociali prima che tecnologiche.

Esaminiamo quindi la questione “digital divide” in tutte le sue sfaccettature.

L’attuale emergenza sanitaria legata alla diffusione del coronavirus ha acceso i riflettori su diversi aspetti accomunati dall’utilizzo della rete internet e, più in generale del digitale: così, se da un lato grazie all’e-learning è possibile garantire la continuità didattica nel campo dell’istruzione e il massiccio ricorso allo smart working è in grado di tamponare l’emorragia produttiva del Paese, ergendosi a baluardo di resilienza operativa per il tessuto produttivo nazionale, dall’altro sono molti i nervi scoperti: dalla gestione del sovraccarico delle reti (messe alle corde dal ricorso allo stesso smart working e ai servizi data hungry) al sovraccarico delle informazioni non verificate (la cosiddetta “infodemia” secondo la definizione dell’OMS), passando per la querelle circa l’utilizzo delle celle telefoniche per controllare gli spostamenti dei cittadini e dei sistemi per tracciare i soggetti positivi al virus, con gli annessi profili legati al tema della riservatezza dei dati personali.

Non solo. Anche i due aspetti positivi sopra considerati della didattica a distanza e del lavoro agile vengono travolti da un’onda negativa: quella del divario digitale. Un’onda che diventa anomala – come del resto la situazione che stiamo attraversando – se consideriamo come l’emergenza riesca ad amplificare ancor di più (non solo in Italia)[1] lo spessore di un problema etico e morale prima ancora che politico e giuridico.

Il divario digitale e cognitivo

Quello del divario digitale (o digital divide) è un fenomeno complesso e sfaccettato che non può essere ricondotto al mero possesso della tecnologia o alla possibilità di accesso alla rete in una dicotomia tra haves ed haves not[2], ma intorno al quale orbitano una molteplicità di fattori di esclusione di varia natura e che possono dipendere o meno da una libera determinazione individuale.

Il gap di accesso alle risorse digitali risente molto, in primo luogo, del fattore territoriale, tanto più se consideriamo come le caratteristiche orografiche della nostra penisola non rendano appetibile – a fronte dei piani governativi finanziati con fondi pubblici che si sono susseguiti negli anni – per gli investitori privati la realizzazione di reti in banda larga e ultralarga, con differenze notevoli tra zone urbane (tanto più se fortemente industrializzate) e aree rurali. A fotografare il cosiddetto “divario infrastrutturale” si collocano gli ultimi dati dell’Agcom dell’ottobre 2019, secondo cui il 5,6% della popolazione non è coperto da rete a banda larga fissa e circa il 30% dispone di una rete con velocità non superiore ai 30 Mbps, probabilmente non idonea ad assicurare l’utilizzo fluido delle applicazioni più evolute della rete.

Anche la questione del deficit culturale o “divario cognitivo” assume un ruolo centrale nell’ambito delle tecnologie digitali. Occorre infatti considerare come mentre l’utilizzo di canali di comunicazione più “tradizionali” quali televisione e radio non richiedono la padronanza di particolari competenze ma il solo possesso materiale del dispositivo, i moderni devices digitali hanno allargato sempre di più la forbice generazionale tra una fetta di popolazione e i cosiddetti “nativi digitali”, con il perdurante confronto dei secondi con la tecnologia che fa da preludio ad un’alfabetizzazione informatica.

Per quanto il fattore economico sembra giocare un ruolo ormai più marginale, alla luce dei costi sempre più sostenibili per l’acquisto di un dispositivo entry level e l’utilizzo di una connessione internet, ancorché in via residuale si collocano fattori di ordine anagrafico e linguistico (con maggiori possibilità di accesso “partecipato” alla rete per i soggetti più giovani e con una conoscenza della lingua inglese), attenuati a loro volta da variabili quali la composizione del nucleo familiare (grazie al quale i soggetti più giovani possono fungere da veicolo di apprendimento per i più anziani) e il fattore tecnologico (che vede al centro lo sviluppo di soluzioni quali comandi vocali, gestuali o software di traduzione, ad esempio).

Il divario digitale come negazione dei diritti fondamentali

Atteso il ruolo di internet come fattore di congiunzione di ognuno di noi ad una nuova dimensione partecipativa, se già a condizioni normali il divario digitale si manifesta dunque come una vera e propria forma di disuguaglianza sociale che, come vedremo, può portare alla negazione di diritti fondamentali, il fenomeno assume ben altra portata – quasi esiziale sotto il profilo dell’equità sociale – durante l’emergenza epidemiologica da Covid-19. Consideriamo infatti l’esempio di una classe di alunni che a seguito del lockdown nazionale, sono costretti a proseguire l’annata scolastica in modalità e-learning o i dipendenti di un’azienda che svolgono l’attività lavorativa in smart working: i fattori negativi da cui trae origine il fenomeno sopra esaminati si acuiscono nella misura in cui uno studente o un dipendente sarà impossibilitato (o quanto meno svantaggiato rispetto ad altri) a poter interagire da remoto, risultando così ancor più tagliato fuori da un contesto sociale ed economico che la diffusione del virus ha già di per sé reso claudicante.

La disuguaglianza che si origina, sotto il profilo segnatamente giuridico, trova riscontro nella negazione dell’effettiva realizzazione di alcuni diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che all’art. 19 sancisce il diritto di «[…] cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere»; all’art. 22, con riguardo alla «[…] realizzazione […] dei diritti economici, sociali e culturali di ogni individuo indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità» e, infine, all’art. 27 secondo il quale «ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici».

Similmente, il “Patto sui diritti economici, sociali e culturali”[3] prevede, all’art. 15, il diritto di ciascuno di prendere parte alla vita culturale, di godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni e di beneficiare della protezione dei lavori scientifici, letterari e artistici.

Il tema tuttavia, può essere inquadrato anche dal punto di vista costituzionale, muovendo da due punti di vista diversi ma ciò non di meno complementari tra loro. Così, se consideriamo la rete come una dimensione in cui incanalare l’intero “patrimonio giuridico” composto dai diritti e i doveri previsti dall’ordinamento[4], questa rappresenta uno strumento per favorire lo svolgimento della personalità dell’individuo e la tutela dei diritti fondamentali, lasciando emergere un legame con l’art. 2 della Carta costituzionale.

Peraltro, tutti i fattori esaminati che sono alla base del fenomeno sono riconducibili a quegli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» ex art. 3, comma 2, della Costituzione.

La ricerca di un ancoraggio costituzionale del tema del digital divide deve condurre alla considerazione per cui le due disposizioni vadano a formare un sistema inscindibile, dove la garanzia di eguaglianza sostanziale deve assurgere a Grundnorm alla stessa stregua dell’art. 2 Cost.[5].

Detta in altri termini, la possibilità per il singolo di esplicare la propria personalità in rete deve trovare riscontro nella volontà politica di rimuovere gli ostacoli ora dal punto di vista di upgrade tecnologico e infrastrutturale, ora con programmi a lungo termine volte ad incentivare l’alfabetizzazione informatica a tutti i livelli della popolazione.

Proprio quest’ultimo aspetto non appare così scontato se consideriamo il carattere di innata mutevolezza del mondo digitale e della rete internet. Infatti, mentre il “comune” alfabetismo può essere verosimilmente raggiunto attraverso progetti in grado di dispiegare i propri effetti a tempo indeterminato dato che il retroterra di tecniche (es. la scrittura) rimane sostanzialmente immutato, lo stesso non può dirsi per un contesto, quello informatico, caratterizzato da un incessante quanto inevitabile dinamismo.

Le misure previste nel Decreto “Cura Italia” e l’intervento dell’Agcom

Come accennato, quindi, in questo particolare momento emergenziale, i connotati negativi del digital divide assumono un peso specifico maggiore.

In questa prospettiva si inserisce l’art. 82 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Cura Italia”) che, rivolgendosi agli operatori telefonici, ha l’obiettivo di porre le condizioni affinché vengano intraprese misure e iniziative per il potenziamento delle infrastrutture sull’intero territorio nazionale[6], in modo da assicurare da un lato la corretta fornitura dei servizi ed evitare il collasso della rete, nonché, dall’altro, una riduzione del divario digitale, al fine di mettere tutti nella condizione di svolgere regolarmente le proprie attività (siano esse didattiche, lavorative o di intrattenimento).

L’articolo, recante “Misure destinate agli operatori che forniscono reti e servizi di comunicazioni elettroniche”, si apre proprio con l’obiettivo di contrastare l’attuale fenomeno della «crescita dei consumi dei servizi e del traffico sulle reti di comunicazioni elettroniche» e prevede – dall’entrata in vigore del decreto e fino al prossimo 30 giugno 2020 – che le imprese che svolgono attività di fornitura di reti e servizi di comunicazioni elettroniche intraprendano misure e svolgano «ogni utile iniziativa atta a potenziare le infrastrutture e a garantire il funzionamento delle reti e l’operatività e continuità dei servizi».

In secondo luogo, adottino «tutte le misure necessarie per potenziare e garantire l’accesso ininterrotto ai servizi di emergenza».

Infine, siano in grado di soddisfare «qualsiasi richiesta ragionevole di miglioramento della capacità di rete della qualità del servizio da parte degli utenti, dando priorità alle richieste provenienti dalle strutture e dai settori ritenuti “prioritari” dall’unità di emergenza della PdC o dalle unità di crisi regionali».

All’appello lanciato dal quinto comma circa la sua possibilità di intervenire con modifiche e integrazioni, ha prontamente risposto l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) che, con la circolare del 20 marzo scorso ha fissato le Prime misure in attuazione dell’art. 82 del Decreto “Cura Italia”, andando a connotare in maniera più concreta le fin troppo generiche modalità indicate nel decreto-legge.

Le misure previste dall’Autorità si rivolgono tanto all’operatore TIM quanto, più in generale, a tutti gli altri attori delle telco.

Tra quelle appartenenti alla prima categoria, si segnala l’approvazione delle proposte avanzate da TIM all’Autorità, concernenti «la riduzione dei costi wholesale unitari della banda Ethernet su rete in rame e fibra», per la quale l’Autorità si riserva di verificare con l’operatore ulteriori spazi di efficientamento conseguibili in relazione all’andamento dei volumi.

Per quanto riguarda invece tutti gli altri operatori, vengono indirizzate misure quali l’individuazione di «soluzioni tecniche per un immediato aumento della banda media per cliente, su rete fissa, di almeno il 30%» e, in caso di assenza di copertura da rete fissa a banda larga e ultralarga la valutazione di «ogni disponibile soluzione di accesso a banda larga o ultralarga radio (anche FWA), da rendere usufruibile tramite PW comune (singolo accesso condiviso)».

Viene poi prevista una raccomandazione da rivolgere ai consumatori finali da parte degli operatori circa la preferenza da assicurare agli accessi da rete fissa (anche in Wi-Fi) per non sovraccaricare ulteriormente le reti mobili, già messe a dura prova dall’ingente traffico di comunicazioni a seguito dell’emergenza. Sul punto, si evidenzia inoltre la possibilità per gli operatori di proporre all’Autorità «misure ragionevoli e temporanee di traffic management, verificabili dall’Autorità, volte ad evitare la congestione e la saturazione delle reti fisse e mobili specie in particolari momenti della giornata», nonché l’adozione di misure di condivisione degli hot-spot wi-fi degli utenti anche nei confronti di utenti terzi.

Ancora, sono previste la possibilità per gli operatori di istituire misure volte alla semplificazione e all’agevolazione delle ricariche delle SIM da remoto attraverso procedure on-line, così come la possibilità di accogliere una soluzione di flessibilità nei pagamenti fino al prossimo 30 giugno 2020, per fronteggiare i possibili ritardi da parte dei propri clienti.

Infine, gli operatori vigilano sul rispetto delle vigenti norme a tutela di clienti da parte di call center e agenzie.

Conclusioni

Oltre all’effetto indiretto di contribuire all’innovazione e alla penetrazione dei servizi di telecomunicazione del Paese, le misure previste dal Decreto “Cura Italia” e dall’Agcom, dimostrano l’effettiva esistenza del problema e sono senz’altro da accogliere con favore come possibile risposta a uno degli effetti collaterali e trasversali dell’emergenza sanitaria ed economica che sta colpendo il Paese, al fine di non allargare ulteriormente la forbice del divario digitale.

Una forma di disuguaglianza sociale, prima ancora che digitale, che rischia di travolgere, ora più che mai, un’ampia percentuale della popolazione sprovvista delle condizioni di accessibilità alle nuove tecnologie del digitale e della rete, preziose alleate nella lotta al COVID-19.

____________________________________________________________________

  1. Cfr. con i rilievi di Nicole Aschoff: https://www.jacobinmag.com/2020/03/coronavirus-digital-classrooms-cambridge-schools-internet-broadband-access
  2. L’espressione information haves ed haves not venne utilizzata dall’allora vicepresidente degli Stati Uniti nell’amministrazione Clinton Al Gore, che durante un discorso a Knoxville, in Tennessee, nel 1996, nell’ambito dei programmi federali di istruzione per sostenere l’uso delle nuove tecnologie nella scuola dell’obbligo, sottolineò la necessità di ridurre le disparità di accesso ai servizi telematici tra la popolazione statunitense.
  3. La “Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” – meglio nota come “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” – è un trattato delle Nazioni Unite adottato nel 1966 ed entrato in vigore il 3 gennaio 1976.
  4. Una sentenza del Giudice di Pace di Trieste (sentenza 30 luglio 2020, n. 587) ha riconosciuto l’esistenza di un vero e proprio danno da digital divide, provocato dalla violazione del diritto di accesso alla rete, che impedisce all’individuo di esercitare regolarmente i propri diritti on line e che è qualificabile come danno alla persona sottoforma di perdita di chance.
  5. Cfr., sul punto, i rilievi di P. Passaglia, Internet nella Costituzione italiana: considerazioni introduttive, in M. Nisticò, P. Passaglia (a cura di), Internet e costituzione, Torino, Giappichelli, 2014, p. 15.
  6. Nella Relazione illustrativa del decreto si legge come «gli interventi e le misure devono rivolgersi a tutto il territorio nazionale e non concentrarsi su segmenti di clientela e aree secondo pure logiche di mercato».

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