Lo scenario

PNRR, tempus fugit: ecco tutti i dettagli sulle schede tecniche del Governo Draghi

La governance in capo al MEF, il rilievo dato a ricerca e innovazione e il ruolo prioritario del piano Transizione 4.0 per lo sviluppo dell’industria: a meno di un mese dalla consegna del Recovery Plan italiano a Bruxelles, vediamo gli highlights delle schede tecniche firmate dal Governo Draghi

Pubblicato il 09 Apr 2021

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

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Manca ormai meno di mese alla scadenza dei termini per la presentazione a Bruxelles del PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza da parte dei diversi Stati membri UE. Il Governo Draghi ha depositato presso il Parlamento le schede tecniche relative al Piano italiano. Cinquecento pagine in lingua inglese che, una volta approvate dalle Camere, rappresenteranno la base del documento su cui la Commissione Europea dovrà pronunciarsi in ultima istanza per la decisione finale.

Non si tratta di un Recovery Plan inedito, dato che nella sostanza – per missioni, componenti funzionali e linee di intervento – non è diverso da quello presentato dall’esecutivo precedente prima della crisi di governo, anche se il livello di dettaglio (fino a questo momento mai raggiunto) presente in queste nuove schede permette di avere un quadro più sistematico e chiaro di obiettivi, tempi e costi dei diversi programmi di investimento. E quindi offrono lo spunto per approfondire le riflessioni su priorità e risorse. Unico fatto nuovo la lingua inglese, forse il prodotto della necessità di stringere i tempi in vista della presentazione del Piano a Bruxelles, anche se questo potrebbe essere a sua volta un segno di cambiamento.

PNRR, la proposta di una nuova Governance

Una prima considerazione che viene alla mente dopo averne letto i contenuti, riguarda la proposta di un nuovo modello di governance. Il Governo Conte bis, nella Legge di Bilancio 2021, aveva previsto di affidare la gestione del Piano a una “cabina di regia” di 300 esperti, una scelta che aveva destato non poche perplessità e molte polemiche. Il Governo Draghi, invece, ha individuato il vertice direttivo delle attività collegate al Piano al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che verrà affiancato da un gruppo ristretto di consiglieri, interni ed esterni agli apparati amministrativi dello Stato. E questo è già un primo segno positivo, anzitutto perché l’implementazione di una piattaforma di interventi così ampia e articolata non poteva essere “delegata” (con quale assunzione di responsabilità, poi?) a uno staff da un lato troppo numeroso e dall’altro totalmente estraneo al funzionamento della macchina pubblica, dalla quale molto concretamente dipenderà alla fine l’implementazione delle diverse policy.

Recovery Fund, a che punto è l’Italia: i progetti e fronti critici

E forse varrebbe la pena riflettere anche sulla necessità di cambiare linguaggio, utilizzando un registro comunicativo che non sia comprensibile solo a pochi ma a tutti, come da sempre avviene nella tradizione dei documenti amministrativi e di governo dei paesi anglosassoni. Se è vero che nel Recovery Plan tutti noi riponiamo grandi speranze e aspettative, e che nella ripresa del Paese agevolata da questi fondi dovremmo ritrovarci tutti con idee e proposte per quanto possibile condivise, sarebbe opportuno fare di questa occasione un’opportunità per inaugurare un nuovo approccio al funzionamento della macchina pubblica, motore indispensabile del cambiamento che potrà contrassegnare in maniera decisiva la nostra ripartenza.

Le responsabilità

Certamente, una governance imperniata sul MEF colloca le responsabilità al massimo livello della gerarchia politica, amministrativa e di governo dello Stato, e ciò almeno permette di indicare chiaramente a chi dovremo rivolgerci se qualcosa non andrà per il verso giusto. Anche se al centro di programmi di azione così articolati e complessi deve sempre esserci una responsabilità diffusa, ovvero in grado di coinvolgere anche i livelli esecutivi delle policies in una logica di stretta interdipendenza fra i diversi soggetti coinvolti, ciascuno rispetto ai ruoli e ai compiti che gli competono. Solo in questo modo, si possono creare le condizioni necessarie a un’efficace implementazione del Piano. Perché non tutti i problemi si risolvono semplicemente scrivendo un piano strategico. Serve un modello di governance e un piano esecutivo, in grado di indicare chiaramente impegni e azioni per ogni livello di amministrazione.

Sappiamo quanto ancora limitata sia la capacità della macchina amministrativa del nostro paese di spendere in maniera efficace ed efficiente risorse pubbliche anche quando queste ci sono: solo per fare un esempio, dei Fondi strutturali arrivati in Italia dall’Unione Europea fra il 2014 e il 2020 ne sono stati spesi poco meno della metà (46%), mentre circa un terzo (30%) non sono stai mai nemmeno impegnati. Come purtroppo l’esperienza ci insegna, dobbiamo quindi evitare il rischio che una macchina burocratica troppo lenta e pesante possa rendere assai complicato e difficile mettere a frutto le ingenti risorse che si saranno assegnate. Quella contro il Covid-19 è una guerra e poiché il Recovery Plan è la nostra occasione unica e straordinaria per una ricostruzione paragonabile a quella post-bellica non possiamo e non dobbiamo sbagliare. Non possiamo tollerare errori e sconti, su questo fronte, non possiamo più consentirli.

Il ruolo dei Comitati interministeriali

Il MEF sarà affiancato da due Comitati interministeriali, con lo scopo di raccordare le azioni con i due obiettivi trasversali della strategia di Piano, la transizione ecologica e la transizione digitale, e poter gestire al meglio le sinergie fra le diverse missioni. E questo modello dovrebbe permettere sia un più efficace coordinamento delle azioni sia l’insorgere di quegli intoppi burocratici, frequentemente addotti ad alibi, che troppo spesso abbiamo visto avere la meglio sulla realizzazione dei progetti di riforma.

Il ruolo di ricerca, innovazione e infrastrutture digitali

Un altro importante aspetto preliminare riguarda l’inquadramento delle Schede tecniche in una cornice coerentemente in linea con alcune recenti raccomandazioni della Commissione europea, rispetto a come promuovere la crescita, gli investimenti e il lavoro in maniera compatibile con l’equilibrio economico e finanziario complessivo del sistema paese. Un passo avanti non da poco, se si considera che le versioni del Piano licenziate dal precedente governo inquadravano la situazione critica in cui si trova il nostro paese riconducendone le cause alla linea di rigore adottata nell’ultimo decennio dall’Unione Europea, secondo una visione accomodante, oltre che pericolosamente irrealistica, delle difficoltà e dei ritardi che caratterizzano la nostra situazione attuale, non a caso unica realtà europea che prima della pandemia non era ancora riuscita a superare le pesanti conseguenze della crisi economico-finanziaria del 2008.

Raccogliere l’invito della Commissione europea, come fanno le Schede del governo Draghi, a concentrare gli sforzi e gli investimenti su ricerca e innovazione, infrastrutture digitali per garantire la fornitura di servizi essenziali a cittadini e imprese, e riforma della Pubblica amministrazione – per citare solo alcuni degli obiettivi contenuti nelle raccomandazioni di Bruxelles – significa mettere chiaramente a fuoco i punti deboli che il paese deve rimuovere per riconquistare concretamente un orizzonte di crescita e sviluppo.

“Innovazione” è una parola chiave del Piano, ma è anche un concetto semanticamente molto ampio, che talvolta viene inteso più in termini strumentali che culturali. Innovare è anzitutto cambiare la prospettiva, per creare nuovo valore, non semplicemente avvicendare uno strumento tecnologicamente ormai obsoleto con uno nuovo. Può corrispondere a cambiare una linea produttiva per migliorare un prodotto o un servizio e di conseguenza la performance di un’impresa, ma può voler dire anche eliminare del tutto una linea produttiva per far posto a un’altra che si ritiene possa rispondere meglio ai bisogni e alla domanda di una società che cambia. E non bisogna mai dimenticare che l’impatto dell’innovazione ricadrà comunque e sempre sulla persona. Per fare un esempio, “delocalizzare” può corrispondere a un’innovazione per qualcuno, ma ciò non sempre equivale a creare nuovo valore. Visto che siamo in gioco per costruire un nuovo futuro, dobbiamo farlo a partire da solide basi.

La priorità: servono regole precise

Dobbiamo indicare regole precise, stabilire quali saranno i destinatari che, direttamente o indirettamente, fruiranno al meglio di questo straordinario piano di investimenti. Fondamentale ai fini dell’innovazione, a maggior ragione rispetto al suo reale impatto dal punto di vista culturale, sarà aggiornare le competenze. E su questo terreno la spinta verso la transizione digitale, che nel nostro paese in questo ultimo anno di pandemia ha sperimentato un’utile anche se forzata accelerazione, rappresenta certamente una grande opportunità da cogliere. Anche se tale opportunità può rappresentare un momento di avanzamento e crescita per il nostro paese soltanto qualora non si lasci indietro nessuno, qualora le potenzialità di portali e algoritmi vengano dispiegate al servizio di tutti, a partire da coloro che ancora oggi sono costretti a scontare ritardi in termini di digital divide.

La strategia per innovare la PA

Riguardo alle politiche di innovazione nel campo della Pubblica amministrazione e a favore delle attività produttive, la Prima missione del Piano (M1), relativa a “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, si riscontrano alcune sensibili variazioni rispetto all’ammontare delle risorse destinate. In generale, all’intera Prima missione sono assegnati 46,3 miliardi di euro, poco meno di tre miliardi in più della versione del Recovery predisposta dal governo Conte bis. In particolare, rispetto al dettaglio relativo alle tre componenti funzionali, alla digitalizzazione e innovazione della Pubblica amministrazione vengono assegnati 11,75 miliardi, rispetto agli 11,45 miliardi riconosciuti dal precedente esecutivo, mentre alla digitalizzazione, ricerca, sviluppo e innovazione del sistema produttivo ne vengono assegnate relativamente meno, ossia 26,55 miliardi a fronte dei precedenti 26,73 miliardi.

Le cinque componenti della prima Missione

Sono confermate le cinque componenti della missione:

  • la digitalizzazione della Pubblica amministrazione,
  • l’innovazione della burocrazia pubblica e la semplificazione dei procedimenti amministrativi,
  • l’accelerazione dei tempi del sistema giudiziario,
  • il sostegno all’innovazione digitale del sistema delle attività produttive,
  • la realizzazione di banda larga e 5G (oltre al rilancio del turismo e della cultura).

La centralità di Transizione 4.0

In particolare, per quel che concerne il sostegno all’innovazione digitale ai fini di una maggiore competitività del sistema produttivo (M1C2), centrale resta il programma Transizione 4.0, con i relativi obiettivi già previsti da questo piano di azione già sperimentato in passato, ossia aumentare gli investimenti delle imprese in nuovi beni capitali tecnologicamente avanzati, incentivare la spesa privata in ricerca e sviluppo, così come vengono confermate le previsioni dell’ultima Legge di bilancio, rispetto all’aumento delle aliquote e dei massimali di agevolazione fiscale. Sempre in linea con quanto già previsto nella bozza precedente del PNRR, oltre che con le previsioni della Legge di bilancio, anche le disposizioni relative al credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, impresa 4.0 e design.

In buona sostanza, l’importanza che assume Transizione 4.0 nel Piano sembra sia intesa confermare l’indirizzo scelto dagli ultimi governi, indipendentemente dal loro colore politico, nel sostenere gli investimenti in progetti di innovazione digitale attraverso l’accesso ai fondi di investimento e l’incentivazione fiscale. In una prospettiva che trova ulteriori conferme nella linea di intervento relativa al Fondo di Garanzia e alla digitalizzazione delle Piccole e medie imprese, dove peraltro ci si propone anche un obiettivo ambizioso, quale il superamento di quella frammentazione del sistema imprenditoriale italiano che da molto tempo costituisce un evidente freno alla crescita. Ma poiché tale frammentazione è di fatto un dato strutturale del nostro sistema produttivo, per superarla occorre anche eliminare le distorsioni del sistema amministrativo che, per esempio, consolidando procedure di autorizzazione simili attraverso prassi profondamente diverse (spesso da comune a comune), finiscono col produrre sull’economia effetti che interagiscono negativamente con la frammentazione del sistema produttivo, rendendolo ancor meno efficiente.

Gli obiettivi degli interventi già previsti da Transizione 4.0, ossia aumentare gli investimenti delle imprese in nuovi beni capitali tecnologicamente avanzati (materiali 4.0 e immateriali) e incentivare la spesa privata in Ricerca, Sviluppo e Innovazione, restano invariati, e vengono anche confermate le previsioni dell’ultima Legge di Bilancio, per quel che concerne l’aumento delle aliquote e dei massimali di agevolazione fiscale. In linea con quanto previsto nella bozza precedente, oltre che con le previsioni della Legge di Bilancio, anche la parte relativa al credito d’imposta per gli investimenti in Ricerca, Sviluppo e Innovazione, impresa 4.0 e design.

Transizione 4.0, tutti gli incentivi previsti dalla manovra 2020

Inoltre, a parte le linee di intervento inerenti i microprocessori e l’internazionalizzazione, vi è – come in precedenza – l’investimento cruciale sul fronte del 5G e della Banda ultra larga, con l’obiettivo di completare la rete nazionale per ridurre il digital divide. Sul fronte decisivo della ricerca e sviluppo, sarebbe necessario rendere più chiaro e determinato il concettto di software, che troppo spesso rinvia a interpretazioni non sufficientemente estensive. In un’epoca in cui l’ICT è sempre più diffusa, il software non è solo uno strumento, ma diventa anche servizio. E solo riconoscendone la natura anche come servizio sarà possibile incentivarne l’uso e controllarne seriamente gli esiti rispetto alla destinazione di risorse, superando così quegli ostacoli che ancora oggi permangono, a causa di un’utilizzazione che in troppi casi resta appannaggio esclusivo di grandi organizzazioni strutturate, a scapito di un libero e semplice accesso e, di conseguenza, della produzione di maggiore valore e crescita.

L’obiettivo: affrontare le sfide post pandemia

Lo stanziamento complessivo previsto per la Seconda componente della Prima missione (M1C2) è stato sensibilmente ridotto: passa, infatti, dai 26,73 miliardi della bozza precedente ai 26,55 miliardi attuali. La riduzione riguarda la voce di Transizione 4.0, oltre che i fondi per i progetti nuovi (da 15,88 milioni di Conte ai 15.70 milioni di oggi), mentre l’investimento sui progetti già avviati (3,10 mld) resta invariato.

In generale, la Seconda componente della Prima missione (M1C2) si inquadra chiaramente in una prospettiva di rigenerazione della catena di valore del nostro sistema delle imprese nella fase post Covid-19. La ripresa dipenderà in larga misura dalla capacità di essere veloci, flessibili e resilienti di fronte al nuovo scenario economiche che avremo davanti e il fattore tempo risulterà decisivo per la sopravvivenza delle imprese. E per quanto riguarda il nostro paese sarà ancora più in salita.

Non dobbiamo infatti dimenticare come in questo momento la nostra economia si trovi in una sorta di “bolla”, sospesa fra un passato che non l’aveva ancora vista uscire dalle conseguenze negative della crisi economico-finanziaria del 2008 e un futuro ricco di asperità e incognite (molte imprese che in questi mesi sono state costrette a rallentare o sospendere le loro attività saranno, con il ritorno alla normalità, al di sotto del loro break-even point). Di fronte alle sfide della ripresa post pandemia il fattore tempo potrà anche essere decisivo.

Per rigenerare la catena del valore sarà perciò necessario sfruttare in maniera sinergica l’insieme delle misure che, dai voucher per gli Innovation Manager a Transizione 4.0, sono state messe in campo nel corso degli ultimi tre anni. Ma soprattutto, se la catena del valore dovrà essere riprogettata in una prospettiva ICT, sarà necessario farlo senza aspettare che nel frattempo le competenze digitali di base e avanzate possano diffondersi a sufficienza, ma supportando concretamente la loro progressiva crescita e diffusione nel tempo. Stando infatti ai dati dell’ultimo Rapporto DESI (Digital Economy and Society Index), l’Italia occupa complessivamente il terzultimo posto fra i 28 stati dell’Unione Europea, evidenziando un distacco molto ampio soprattutto rispetto al cosiddetto capitale umano, relativo alla diffusione di competenze informatiche. Occorrerà sfruttare tutte le opportunità disponibili, mettendo a sistema le conoscenze digitali di cui il sistema produttivo dispone già oggi, a partire dal mondo professionale, che in questo momento può vantare capacità digitali più avanzate e diffuse rispetto al complesso del mondo delle imprese. Soltanto una stretta alleanza fra sistema produttivo e mondo delle professioni, tradizionali e non, potrà permetterci di imprimere un’accelerazione al lungo percorso che ancora ci resta da compiere sulla strada della transizione digitale.

Verso una PA semplice e connessa

Come abbiamo in più occasioni sottolineato, il completamento con successo della transizione digitale del sistema produttivo implica una altrettanto efficace transizione digitale della Pubblica amministrazione. E anche sotto questo profilo, il PRNN di Draghi ricalca sostanzialmente quello dell’esecutivo precedente. Tutte le linee di intervento della componente della Prima missione relativa alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione (M1C1), rivestono un’importanza fondamentale. Ma è soprattutto quella relativa all’innovazione della Pubblica amministrazione, e in particolare la linea di intervento finalizzata alla realizzazione di una “PA semplice e connessa” che risulterà strategica nel favorire la rigenerazione della catena del valore del sistema produttivo. Semplificazione delle procedure amministrative, soprattutto di quelle che prevedono adempimenti autorizzativi, digitalizzazione nei processi di interfaccia con cittadini e imprese, velocizzazione delle pratiche più complesse, il tutto ricondotto a un sistema di monitoraggio in grado di misurarne concretamente l’impatto sui destinatari, oltre che gli effetti a medio e lungo termine sulla produttività del sistema delle imprese e sulla competitività complessiva del sistema paese, restano gli ineliminabili punti di forza dell’intervento sulla macchina amministrativa dello Stato.

È chiaro che, come del resto viene riconosciuto dallo stesso PRNN con la linea di intervento relativa all’innovazione della PA, la costruzione di un’amministrazione “semplice e connessa” richiede non soltanto l’introduzione di piattaforme e servizi digitali, oltre a un efficace livello di interoperatività e scambio dei dati, ma anche un radicale cambiamento rispetto ai profili di competenza presenti nel personale amministrativo, che ancora oggi sconta un evidente ritardo rispetto alla diffusa presenza di conoscenze digitali anche di base. Peraltro, è solo in anni recenti che alcune amministrazioni pubbliche particolarmente lungimiranti hanno iniziato a tenere concorsi per la selezione del proprio personale indirizzandosi verso la ricerca selettiva di competenze tecniche o specialistiche, rispetto alle quali le conoscenze amministrative e generaliste dell’attuale capitale umano della funzione pubblica risultano del tutto inadeguate.

Non sarà perciò una cosa facile da fare, soprattutto se si considera che l’apparato amministrativo dello Stato italiano, al di là dei Ministeri e degli enti centrali, conta più di ottomila Comuni e 110 Province, distribuite in 20 regioni. Se guardiamo le scadenze indicate nelle Schede tecniche del PNRR per la realizzazione delle linee di azione per la transizione digitale della PA (e – detto per inciso – dobbiamo rallegrarci che finalmente il PNRR preveda la declinazione dei suoi obiettivi secondo chiare tempistiche), i tempi sono complessivamente abbastanza stretti: per fare un esempio, la creazione dei cosiddetti “presidi digitali” nelle aree del paese dotate di minore connettività è prevista per il primo quadrimestre del 2024, cioè fra circa tre anni. È chiaro che si tratta di realizzare un cambio di passo rispetto al quale non è detto che siamo preparati. Ma allora, anche in questo caso sarà necessario mettere a sistema tutte le competenze digitali di cui il nostro paese dispone già oggi.

Le competenze per spingere la digitalizzazione

Su questo fronte, i professionisti delle pratiche amministrative possono da subito risultare particolarmente utili, nel processo di autorizzazione, svolgendo una funzione importante: quella di veri e propri “acceleratori” della transizione digitale, così come avvenuto negli ultimi oramai due decenni. I presupposti per sfruttare le competenze di questo mondo professionale sono ormai da tempo presenti, anche se molti faticano ancora ad accorgersene. L’esistenza di strumenti quali SPID, la Carta di Identità Elettronica e il Domicilio digitale a disposizione delle imprese, permetterebbe già oggi il trasferimento completo su piattaforma di gran parte delle pratiche amministrative di cittadini e imprese, che nell’avvio della transizione digitale potrebbero essere messi efficacemente a frutto anche attraverso la delega a professionisti.

A tale proposito, la nostra proposta resta quella del Procuratore Telematico. Una soluzione che ha già in diverse occasioni ricevuto l’attenzione del Parlamento, ma che non è ancora riuscita a concretizzarsi definitivamente. Il ricorso a competenze digitali e amministrative qualificate, già oggi attestate dal riconoscimento professionale conferito in virtù della Legge n.4/2013 a determinati servizi in grado di fungere da ausilio a cittadini e imprese nel loro rapporto quotidiano con le Pubbliche amministrazioni, potrebbe rappresentare un contributo concreto ed efficace ad assicurare maggiore celerità e certezza al cambiamento.

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