La riflessione

Procurement, come cambieranno gli acquisti pubblici per affrontare il dopo coronavirus

Una riflessione sull’evoluzioni del procurement pubblico: prove di collaborazione tra settori pubblico e privato e l’utilizzo dei dati come input nel procedimento amministrativo

Pubblicato il 03 Giu 2020

Federico Morando

CEO and co-founder at Synapta, independent researcher

procurement concept with money and graph chart analysis

Tra le narrative tipiche delle congiunture più difficili c’è quella della crisi che genera opportunità. Naturalmente, la crisi Covid-19 non fa eccezione e mi è capitato spesso negli ultimi mesi di ascoltare riflessioni relative alle opportunità che il dramma in corso potrebbe aprire per l’innovazione nella PA in generale, e nel mondo del public procurement in particolare. Questo commento raccoglie gli spunti che più mi hanno convinto, per delineare lo scenario futuro del settore acquisti pubblici.

L’impatto del cambiamento di abitudini e bisogni

Per quanto vi sia forse qualche elemento auto-consolatorio nel descrivere fenomeni catastrofici come potenziali fonti di progresso, vi è sicuramente un elemento fondato: è raro che le cose cambino radicalmente quando tutti continuano a comportarsi come prima e le crisi costringono molti soggetti a cambiare contemporaneamente le loro abitudini. Quando si sperimentano così tante nuove soluzioni ai bisogni delle persone, è ragionevole aspettarsi che alcune di queste soluzioni possano diventare equilibri stabili, o almeno stabilmente parte dell’orizzonte delle opportunità che non si possono più ignorare. Ad esempio, trovarsi di fronte ad un livello di necessità ed urgenza, che fortunatamente la maggior parte dei funzionari pubblici non aveva mai sperimentato prima, ha permesso di sperimentare alcuni degli elementi di flessibilità che già erano inclusi nel Codice appalti, e si può sperare che parte di tali sperimentazioni lascino un segno positivo nelle prassi amministrative.

Più in generale, un numero enorme di persone si è trovato nella condizione di dover sperimentare nuovi modi di gestire i bisogni dei cittadini, e penso che questa esperienza -pur drammatica e stressante in molti casi- abbia anche fatto assaporare a tanti il fatto che “si può fare!”, e la soddisfazione di aver contribuito, con risorse spesso assai modeste, a farlo per davvero. Da genitore, per esempio, ho potuto vedere maestre delle elementari alle prese con il passaggio ad una didattica 100% da remoto, sia maestre native digitali che maestre molto meno avvezze alla tecnologia. E sia le maestre che gli studenti hanno senz’altro imparato molto da questa crisi (pur avendo contemporaneamente perso o rimandato altre opportunità di apprendimento). Certo, penso nessuna maestra ritenga auspicabile la stabilizzazione delle soluzioni adottate in emergenza nella quotidianità del loro rapporto con gli alunni, ma la prossima volta che un ragazzo dovrà stare diverse settimane lontano da scuola per qualunque ragione, ci sarà un bagaglio di esperienze utili ad aiutarlo; e magari si potrà riutilizzare anche in futuro, per specifici passaggi didattici, qualche sussidio multimediale o metodologia scoperti in questi mesi.

Senza dilungarmi troppo sull’esempio della didattica a distanza, alcuni elementi interessanti e che varrebbe la pena generalizzare a partire da questo esempio riguardano l’importanza del capitale umano (rappresentato dalle maestre, e ovviamente anche dai dirigenti scolastici, che hanno a volte supportato, a volte frenato l’iniziativa delle stesse, nonché dalle famiglie), ma anche delle dotazioni infrastrutturali -in particolare connettività e device connessi- a disposizione dei ragazzi, spesso soltanto tramite le loro famiglie. So bene che sarei oggi meno propenso a pensare che questa crisi abbia avuto alcuni effetti positivi in questo campo, se tutti i compagni di classe dei miei figli, oltre alle maestre, non avessero avuto a disposizione un PC o tablet ed almeno una discreta connessione a banda larga… E la scuola aveva già un’app per la comunicazione con le famiglie e tutti i contatti necessari ad utilizzarla. In sintesi, laddove c’era un sufficiente capitale umano ed infrastrutturale, e magari una serie di precedenti piccole sperimentazioni da cui prendere spunto, durante la crisi si sono sicuramente potuti sperimentare nuovi modi di gestire e arrangiare in modi rapidi e creativi le risorse a disposizione, mostrando la resilienza di alcuni sistemi.

Procurement e Sanità post coronavirus

A proposito della già citata importanza di sperimentare nuove soluzioni Luciano Balbo, Fondatore e Presidente di Oltre Venture nel corso di un webinar ha riflettuto sulle modalità innovative di fornire una serie di servizi medici ai cittadini, e sulle modalità con cui la PA potrebbe favorire l’emergere di nuove soluzioni in questo campo. Riassumendo, in questo ambito, negli anni, si sono abbinate due tendenze abbastanza chiare: da un lato, l’obiettivo di perseguire crescenti economie di scala e/o specializzazione tramite poli ospedalieri sempre più grandi ed organizzati; dall’altro il permanere della struttura dei medici di base, che tuttavia sono sempre più percepiti dai cittadini come dispensatori di “ricette” o “certificati” nei casi più ordinari (la classica influenza, l’assenza dal lavoro), ovvero – nei casi un po’ più gravi – smistatori verso esami e visite specialistiche da fare altrove (magari nelle grandi strutture ospedaliere di cui sopra, o in centri privati). Personalmente, penso che l’emergenza Covid-19 abbia mostrato alcuni limiti/rischi – almeno in termini di resilienza – della parte basata sui grandi ospedali (ma anche alcuni vantaggi, che hanno permesso di aumentare rapidamente il numero di posti di terapia intensiva a disposizione del sistema).

Interessante il caso della rete dei medici di base. In questo campo, potrebbero esserci molte soluzioni alternative al singolo medico sostanzialmente sprovvisto di qualsiasi strumento diagnostico avanzato, ad esempio tramite poliambulatori in grado di gestire rapidamente una serie di approfondimenti diagnostici e specialistici più comuni. Naturalmente, non è facile – e forse neppure possibile – comprendere a tavolino quale sia il giusto mix di aggregazione, capillarità territoriale, intensità di lavoro e capitale per soddisfare al meglio le esigenze dei cittadini. E tuttavia non pare che il nostro sistema sanitario si ponga in una condizione propizia per comprenderlo meglio. Senza fare passi che mettano complessivamente in discussione la rete dei medici di base, lo Stato potrebbe stimolare l’imprenditorialità di diversi soggetti, che possono sperimentare in questo campo definendo alcuni standard di assistenza e qualità, nonché il budget totale disponibile (tendenzialmente uguale o leggermente minore di quello oggi investito, ad esempio, per garantire il servizi in esame ad un certo numero di cittadini), aprendo poi ad un confronto competitivo tra soluzioni, ma anche ad una possibilità di valutazione periodica, o addirittura opt-in o opt-out, per i cittadini stessi. Non si tratta di una critica al sistema dei medici di base, ma una critica alla creazione di un sistema che non avesse al suo interno spazi di sperimentazione e sistematico sostegno all’imprenditorialità.

In questo contesto, non credo che sarà l’assenza di gare o una iper-semplificazione del procurement a restare dopo il Covid-19, anche se in questo periodo alcune semplificazioni sono state sicuramente implementate. Infatti, se da un lato sappiamo che la burocrazia italiana nel mondo degli acquisti pubblici è ipertrofica, è probabile che ad un certo punto emerga la notizia che oltre ai risultati straordinari qualcuno si sia approfittato del periodo di minore burocrazia anche per fare anche cose poco limpide. E questo porterà a nuove oscillazioni del pendolo della semplificazione/controllo nel mondo degli appalti pubblici. Quindi, non credo che le semplificazioni straordinarie delle procedure diverranno ordinarie, e d’altro canto pensi sia probabile che alcune forme di collaborazione tra pubblico e privato -sperimentate con efficacia durante la crisi- possano essere uno degli elementi da preservare nel medio/lungo periodo.

L’importanza dei dati

Un’altra tendenza su cui mi pare stia emergendo un quasi unanime accordo è poi il ruolo crescente che i dati giocano e dovranno giocare rispetto all’evoluzione degli acquisti pubblici. Si rimanda a Public procurement 4.0 per lo sviluppo del territorio: il caso della Lombardia, per un approfondimento. Il caso lombardo è in effetti particolarmente interessante, perché in questa regione in-house informatica e centrale d’acquisti regionale sono stati concentrati nella stessa organizzazione, e questo potrebbe favore un public procurement maggiormente data driven. Nel contesto di un webinar, Marco Piepoli (dirigente del MEF, intervenuto a titolo personale) ha  sottolineato che, nella prassi amministrativa, i dati sono perlopiù considerati ancora come un semplice output, e non come un input dei processi.

Parlando di public procurement, da quando le risorse sono stanziate a quando queste arrivano effettivamente là dove servono, hanno luogo una serie di processi che generano dati e documenti. E’ dunque pacifico che il processo amministrativo generi numerosi dati, anche ufficiali. Ma paradossalmente il dato stesso è quasi sempre considerato un output del procedimento, magari salvato in una banca dati per fini statistici ed anche di supporto alle prese di decisione. E, tuttavia, di rado un dato diventa un input che possa essere automaticamente tenuto in considerazione nel procedimento amministrativo stesso. Infatti, nella pratica, si continuano a chiedere dati già esistenti (in banche dati pubbliche), tramite modalità – come l’invio via PEC di PDF firmati digitalmente – che sostanzialmente riprendono processi cartacei, pur portandoli su supporti e modalità di trasmissione digitali. E questo tipo di processi sono sabbia negli ingranaggi del dovrebbero garantire la trasmissione delle politiche pubbliche nell’economia e nella società.

Naturalmente, alcune eccezioni cominciano ad avvenire, come la cosiddetta seconda tranche della “norma Fraccaro” (o “modello spagnolo”), volta a permettere investimenti veloci e semplificati per i comuni italiani. Norma pensata pre-Covid, ma che sicuramente può essere coerente con la necessità che, di fronte alla crisi in corso, nel prossimo futuro la PA contribuisca al sostegno della domanda. Certamente, il successo della norma dipendeva da “una procedura semplificata in affidamento diretto, il tipo di opere a progettazione facile, i termini perentori entro i quali bisogna spendere le somme a disposizioni per non perderle”.

L’innovazione nel procedimento amministrativo

Altro elemento innovativo della norma, è il fatto che i Comuni siano stati esentati in questa occasione dalla necessità di produrre una specifica richiesta per ottenere l’assegnazione del contributo. Infatti, l’assegnazione avveniva semplicemente previa verifica dell’avvenuto inizio dell’esecuzione dei lavori, effettuato appunto tramite il sistema di “Monitoraggio delle opere pubbliche – MOP” della “Banca dati delle pubbliche amministrazioni – BDAP”. Sistemi che ogni ente deve comunque alimentare quanto avvia un’opera pubblica. In questo modo, anche grazie all’esistenza di codici univoci come l’identificativo di gara (CIG) ed il codice unico di progetto (CUP), le varie banche dati pubbliche possono essere collegate. Ed il Ministero dell’Interno ha potuto assegnare i finanziamenti sulla base della risultanza di un semplice report della BDAP, senza ulteriori oneri procedimentali per gli enti.

In questo caso, dunque, l’attività amministrativa è stata impostata in modo tale che le tracce lasciate dal procedimento amministrativo nelle banche dati pubbliche potessero diventare fonte di un atto endo-procedimentale. Ora, qualcuno potrà dire che nel caso specifico si è solo eliminata una richiesta tra enti pubblici e che da qui a poter utilizzare dati -magari evidenze statistiche anziché informazioni completamente deterministiche- all’interno dei procedimenti amministrativi il passo è ancora lungo. Penso che questo sia vero. Però è anche interessante osservare come una serie di accorgimenti che includevano questi automatismi abbiano permesso alla norma Fraccaro di polverizzare i precedenti record di velocità e pieno utilizzo di un programma di investimenti pubblici.

Inoltre in questo caso, il pubblico aveva a disposizione sia banche dati ben rodate che norme ben tarate per utilizzarle. Insomma, è vero ed auspicabilmente ormai acquisito dai più che le leggi, da sole, non cambiano il mondo – o almeno non lo fanno se prima non sono avvenuti profondi cambiamenti di mentalità e cultura che permettano alle leggi di modificare i processi e le prassi. Ma probabilmente è anche vero che i dati, da soli, non cambiano le organizzazioni complesse come la pubblica amministrazione. E alcuni accorgimenti normativi che permettano ai dati di essere senz’altro utilizzati all’interno dei procedimenti amministrativi possono fare la differenza.

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