L'ANALISI

Il prezzo dei dati personali: cosa c’è dietro il “paradosso della privacy”

Bias dell’ottimismo, overconfidence, sconto iperbolico: dinamiche che possono spingere gli utenti a compiere scelte in conflitto con le proprie affermazioni. E a cedere informazioni. Ecco perché l’economia comportamentale può dare un contributo strategico nella costruzione di policy mirate

Pubblicato il 07 Ott 2019

Francesca Michetti

PHD in Business and Behavioral Science - 'G.D'Annunzio' University; Master Degree in Law - LUISS Guido Carli University

Concept image of cables and connections for data transfer in the digital world.3d rendering.

Il dato è tratto. Dagli smartphone agli smart objects, sempre più dispositivi di uso quotidiano, collegati a Internet, raccolgono, elaborano e condividono una quantità di informazioni personali senza precedenti.

Non sorprende, quindi, che la protezione dei dati personali sia diventata una delle principali preoccupazioni per gli utenti online. Ma anche se recenti sondaggi rivelano che la maggior parte degli individui dichiari di tenere alla propria privacy, raramente si sforzano di proteggere attivamente i propri dati. Anzi, sono spesso disposti a cederli volontariamente. Perché? Proviamo a fare chiarezza.

Dati personali, il “paradosso della privacy”

In letteratura, la discrepanza tra le preoccupazioni o gli atteggiamenti espressi dagli individui e i loro comportamenti effettivi, in materia di privacy, è nota come il “Paradosso della privacy[1]. Nel tentativo di spiegare le cause del suddetto fenomeno, la ricerca scientifica ha dedicato sforzi considerevoli allo studio del processo decisionale umano nell’ambito della privacy.

Risalgono alla fine degli anni ’90 i primi studi, su larga scala, sulle preferenze individuali in materia di privacy. Tra il 1978 e il 2004, Alan Westin[2] condusse oltre trenta indagini per misurare il livello di preoccupazione per lo stato attuale o futuro della propria privacy da parte degli intervistati, classificandoli in tre categorie: fondamentalisti, pragmatisti e non interessati. I primi, molto sensibili alle questioni di privacy; gli ultimi, senza reali preoccupazioni per la riservatezza dei propri dati; nel mezzo, i pragmatisti, che soppesano i potenziali pro e contro della fornitura di informazioni.

Tuttavia, da studi empirici più recenti risulta che anche i cosiddetti ‘fondamentalisti della privacy’ sono spesso propensi a rivelare una quantità di informazioni personali superiore a quella prevista. Il che porta a chiederci perché anche chi afferma di avere a cuore la propria privacy sia poi disposto a rivelare le proprie informazioni personali, talvolta per ricompense anche relativamente piccole.

Il “Calcolo della Privacy”: come funziona

Una delle spiegazioni più consolidate per il paradosso si basa sulla Teoria del Calcolo della Privacy[3], secondo la quale gli individui eseguono un “calcolo” tra i potenziali costi – in termini di perdita della privacy – e i potenziali benefici – come sconti e servizi personalizzati – della divulgazione dei propri dati personali. Il loro comportamento finale è determinato dall’esito di tale trade-off. Pertanto, si presume che gli individui decidano di divulgare le loro informazioni personali quando i potenziali benefici superano le perdite attese.

Una modello teorico, questo, fondato sull’assunto di un agente economico neoclassicamente razionale – il cosiddetto “Homo Economicus” – con preferenze stabili e sempre in grado di calcolare rischi e benefici, scegliendo l’alternativa che massimizza la propria utilità e che minimizza i costi (si veda, ad esempio, Posner., 1978; Stigler., 1980).

Tuttavia, la ricerca in Economia Comportamentale ha dimostrato che il processo decisionale umano, lungi dal costituire il risultato di un calcolo perfettamente razionale, è in realtà influenzato da diversi fattori[4].

In primo luogo, l’incompletezza delle informazioni e le asimmetrie informative complicano il processo decisionale in materia di privacy, in quanto il soggetto interessato potrebbe non essere a conoscenza dell’entità e della tipologia delle informazioni raccolte, dei rischi e delle conseguenze della loro divulgazione nonché delle modalità di protezione dei propri dati.

In secondo luogo, pur disponendo di tutte le informazioni necessarie, il soggetto in questione potrebbe non essere in grado di elaborare grandi quantità di dati per formulare una decisione informata, a causa della sua innata “razionalità limitata” (Herbert A. Simon, 1982) che limita la capacità cognitiva di acquisire, memorizzare ed elaborare informazioni. Ragion per cui gli individui si affidano alle euristiche di giudizio, scorciatoie mentali che permettono alle persone di risolvere problemi e di esprimere giudizi in modo rapido ed efficiente.

Infine, quand’anche gli individui avessero informazioni complete e la capacità cognitiva illimitata di elaborarle, sarebbero soggetti ad alcune distorsioni psicologiche sistematiche– i cosiddetti bias cognitivi – ben documentate da una vasta letteratura comportamentale. Nell’ambito della privacy, alcuni dei pregiudizi cognitivi che vengono maggiormente in rilievo sono il bias dell’ottimismo, l’overconfidence e lo sconto iperbolico[5].

Privacy, le “trappole” tese dai bias cognitivi

Il primo (Weinstein N.D., 1980) noto come ‘ottimismo irrealistico’ o ‘bias dell’ottimismo’ esprime la tendenza degli individui ad essere irrealisticamente ottimisti nel valutare la probabilità di eventi futuri. Il che può indurli a sottovalutare la loro probabilità, rispetto ad altri, di subire un danno alla privacy.

A seguire, l’overconfidence (Acquisti et al., 2017) ossia la tendenza a riporre eccessiva fiducia nelle proprie scelte e capacità previsionali, ad esempio nella stima dei rischi per la propria privacy.

Da ultimo, evidenze empiriche hanno suggerito che gli individui tendono a valutare i costi e i benefici futuri in modo incoerente – iperbolico, appunto – nel tempo. È il cosiddetto sconto iperbolico (Rabin & O’Donoghue, 2000). Nella fattispecie, essi utilizzano un tasso di sconto relativamente elevato su orizzonti temporali brevi e un tasso di sconto relativamente basso su quelli lunghi, il che li induce a optare per la gratificazione immediata, ignorando il rischio a lungo termine.

Il valore dei nostri dati personali

Qual è il prezzo minimo che accettereste per rivelare i vostri dati personali? Quale, invece, il prezzo che paghereste per proteggerne la divulgazione? Numerose ricerche hanno cercato di stimare empiricamente il valore monetario che gli individui attribuiscono alle proprie informazioni personali e hanno mostrato (si veda, sul punto, lo studio condotto da Carrascal et al., 2013)[6] valutazioni significativamente basse: 7 euro, in media, per la propria cronologia di navigazione; 25 euro circa per le informazioni personali offline, come l’età, l’indirizzo e lo stato economico.

Nell’esperimento condotto da Beresford et al. (2012)[7], ai partecipanti veniva chiesto di acquistare un dvd da uno di due negozi concorrenti, il primo dei quali richiedeva una maggiore divulgazione di dati sensibili (reddito e data di nascita) rispetto al secondo (colore preferito e l’anno di nascita). Ciò nonostante, quasi tutti i partecipanti hanno scelto il primo negozio, quando il prezzo era più basso (un euro in meno); mentre quando il prezzo era identico, i soggetti acquistavano da entrambi i negozi con la stessa frequenza. Ciò, in contrasto con l’importanza, spesso rivendicata, della propria privacy.

La maggior parte di questi studi si è concentrata su quella che, nel linguaggio dell’economia, viene definita “Willingness to Accept” (WTA), ossia la disponibilità degli individui ad accettare pagamenti in cambio della divulgazione di informazioni private.

Valore dei dati: gli studi in campo

Huberman e altri [8] hanno utilizzato un’asta al secondo prezzo per stimare il prezzo al quale gli individui sarebbero stati disposti a rivelare pubblicamente informazioni personali, come il loro peso o la loro altezza. Dallo studio è emerso che gli individui con un peso al di sopra della media erano meno propensi a rivelare tale informazione e, pertanto, attribuivano un valore più elevato alla sua divulgazione.

Similmente, Spiekermann e altri [9] hanno mostrato che anche individui con alti livelli di preoccupazione per la propria privacy erano disposti a “negoziare” il rilascio di informazioni personali, in cambio di ricompense anche relativamente piccole.

Un secondo filone di ricerca si è focalizzato, invece, sulla “Willingness to Pay” (WPA), ossia la disponibilità a pagare per proteggere la divulgazione dei propri dati.

Interessante, in proposito, lo studio condotto da Rose [10], il quale ha rilevato che, sebbene la maggior parte degli intervistati abbia espresso preoccupazione per la propria privacy, solo il 47% di essi ha espresso la volontà di pagare qualsiasi importo per garantire la protezione delle proprie informazioni.

Educare alla privacy: informazione o moral suasion?

I risultati della ricerca comportamentale sulla privacy suggeriscono che gli approcci politici basati esclusivamente sull’informazione dell’individuo non forniscono una protezione adeguata contro i rischi posti dalle recenti tecnologie.

Per essere realmente efficace, la politica della privacy dovrebbe aspirare a proteggere gli individui reali, che, come abbiamo visto, sono ben lontani dal prototipo di agente economico razionale teorizzato dall’economia tradizionale. Una tale, approfondita, comprensione dei pregiudizi cognitivi che influenzano il processo decisionale umano potrebbe essere sfruttata a fini normativi: le intuizioni della ricerca economica comportamentale possono fornire un prezioso contributo non solo per comprendere ma anche per assistere le scelte degli individui in materia di privacy.

In proposito, potrebbero essere utilizzate soluzioni paternalistiche “soft”: sistemi e politiche che non limitano la libertà di scelta individuale, ma che “spingono” gentilmente gli utenti verso certi comportamenti che essi stessi hanno dichiarato di preferire (o che da studi empirici risultano preferibili) nell’ambito della privacy.

Il dato è tratto – dicevamo –, il paradosso è svelato. Quale, allora, la soluzione, il giusto compromesso? È nelle nostre mani, a pochi clic di distanza.

Note e bibliografia

  1. Per un’analisi più approfondita si veda Brown, (2001); Norberg et al., (2007); Williams et al., (2016); Barth et al., (2017). ↑
  2. Westin, A. (2001). Opinion Surveys: What Consumers Have to Say About Information Privacy: Hearing Before the Subcommittee on Commerce, Trade & Consumer Protection of the H. Comm. on Energy & Commerce, 107th Cong. 15.
  3. Jiang et al., 2013; Kokolakis, S. (2015); Dinev, & Hart, (2006); Xu, et al., (2011). ↑
  4. Acquisti A., Grossklags J., What Can Behavioral Economics Teach Us About Privacy? Digital privacy: theory, technologies and practices 18, ↑
  5. Rabin, M., O’Donoghue, T. (2000). The economics of immediate gratification. Journal of Behavioral Decision Making 13(2). ↑
  6. Carrascal, J. P., Riederer, C., Erramilli, V., Cherubini, M., De Oliveira, R. (2013), Your browsing behavior for a big mac: Economics of personal information online. In Proceedings of the 22nd international conference on World Wide Web.
  7. Beresford, A. R., Kübler, D., Preibusch, S. (2012). Unwillingness to pay for privacy: A field experiment. Economics Letters. ↑
  8. Huberman, B. A., Eytan A., Fine, L. (2005). Valuating Privacy. IEEE Security and Privacy.
  9. Spiekermann, S., Grossklags, J., Berendt, B. (2001). E-Privacy in Second Generation E-Commerce: Privacy Preferences versus Actual Behavior. Pp. 38–47 in Proceedings of the Third ACM Conference on Electronic Commerce, edited by Wellman, M. P., Shoham, Y. ↑
  10. Rose, E. A. (2005). Data Users versus Data Subjects: Are Consumers Willing to Pay for Property Rights to Personal Information? in Proceedings of the 38th Annual Hawaii International Conference on System Sciences. ↑

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