l'analisi

Il sindaco di Lodi intercettato col trojan e poi assolto: che c’è da imparare dalla vicenda

Il caso di Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, è emblematico. E ci insegna che non dovrebbe essere consentita la condanna di un imputato solo sulla base di elementi di questo tipo, intercettazioni col trojan o captatore informatico, e in assenza di una materialità della prova

Pubblicato il 27 Mag 2021

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

sindaco lodi trojan

Ieri l’assoluzione in grado d’appello, dopo la condanna in primo grado e la custodia cautelare in carcere. Quella del sindaco di Lodi Simone Uggetti fu una delle prime inchieste per reati contro la pubblica amministrazione in cui fu utilizzato il captatore informatico o trojan di Stato che dir si voglia.

 

La vicenda del sindaco di Lodi

Da ieri la storia dell’ex sindaco di Lodi è tornata ad essere nota all’opinione pubblica, dopo 5 anni di inchieste, processi e gogna mediatica.

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La particolarità della vicenda è che le intercettazioni – di fatto la “prova regina” dell’accusa – furono effettuate con il captatore informatico.

Il caso fu strumentalizzato in modo evidente da media e avversari politici – locali e nazionali – dell’ex sindaco che, ieri, è stato assolto.

I punti chiave delle intercettazioni erano, fondamentalmente, due: un colloquio con una dipendente del Comune, addetta a redigere i bandi, ed una conversazione in cui ipotizzava di formattare i suoi devices (“forse dovrei resettare” era la frase esatta).

Quest’ultima affermazione gli costò la custodia cautelare in carcere, perché ritenuta indicativa di una volontà di inquinamento probatorio, nell’ambito di un processo conclusosi con l’assoluzione con la formula più ampia, ossia “perché il fatto non sussiste”.

Le intercettazioni non sono la panacea, ma un placebo

Per quanto si possa pensare che ascoltando tutto e tutti, alla fine, si possa raggiungere la verità, così non è e la vicenda di cui scriviamo oggi né è solo una triste conferma.

Molte conversazioni non vengono ritenute rilevanti e molto spesso gli inquirenti attribuiscono un determinato valore alle conversazioni ascoltate, spesso non comprendendo appieno l’esatto significato ed il contesto di quanto intercettato.

La vicenda processuale dell’ex sindaco di Lodi è emblematica del fatto che l’organo inquirente ha ritenuto fondata l’accusa sulla base delle intercettazioni effettuate, così come il Gip che ha emesso l’ordinanza cautelare ed il Tribunale in primo grado.

La Corte d’appello, invece, in un contesto diverso, più lontano dai fatti per collocazione geografica e momento della valutazione, ha dato una lettura del tutto diversa dello stesso materiale investigativo e probatorio.

In altri termini, in quel contesto, con quel clima politico – non si può dimenticare l’urlo beluino di alcune forze politiche scagliatesi nelle piazze contro l’allora indagato – con quella pressione mediatica, la lettura delle intercettazioni difficilmente poteva essere scevra da pregiudizi.

Il trojan horse: ascesa e caduta dell’illusione giustizialista

Chi opera nel settore giustizia sa perfettamente che ci sono decine e decine di processi che si reggono unicamente su teoremi costruiti a partire da alcune conversazioni intercettate ed estrapolate dal contesto di riferimento.

In gergo si definisce processo per “droga parlata” quello in cui vi sono imputazioni per cessione di sostanze stupefacenti (articoli 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica numero 309/1990) in cui non c’è alcun sequestro e le cessioni sono solo “ricostruite” sulla base delle conversazioni intercettate.

Il caso dell’ex sindaco di Lodi appare chiaramente – almeno da quanto emerge dalle notizie date dai media – come un processo fondato unicamente sull’interpretazione di alcune conversazioni intercettate.

Da avvocato, credo che non dovrebbe essere consentita la condanna di un imputato solo sulla base di elementi di questo tipo ed in assenza di una materialità della prova.

Con il passaggio da intercettazioni “convenzionali” al trojan horse, poi, si è assistito ad un ulteriore ampliamento del ricorso ad uno strumento di indagine che da eccezionale è passato ad ordinario.

Conclusioni

In Italia si è creato un cortocircuito – amplificato dai media e cavalcato da alcune forze politiche – per cui l’equivalenza indagato/condannato è cosa consolidata; per cui se ci sono intercettazioni allora c’è certamente una prognosi di colpevolezza.

E pubblicare le conversazioni intercettate “fa notizia”, ragion per la quale queste spesso vengono inviate ai giornali anche prima che – per legge – possano essere rese visibili agli interessati ed ai difensori.

Negli ultimi mesi queste connessioni sono diventate palesi e si è assistito ad alcuni movimenti di rottura di questi meccanismi, a partire dall’approvazione del recepimento sulla direttiva europea in tema di presunzione di innocenza – l’Italia, culla del diritto, si è fatta insegnare le garanzie individuali dai “burocrati di Bruxelles”.

Il “caso Palamara” ha spalancato le finestre sugli angusti ambienti di contatto tra magistratura e politica, facendo anche emergere l’inquietante realtà sulla gestione dei dati intercettati.

Il business dei captatori informatici è al tal punto sviluppato che si è aperto uno scontro politico ferocissimo su un decreto interministeriale che doveva calmierare i costi delle intercettazioni effettuate da società esterne alle Procure della Repubblica, salvo poi scoprire che alcune queste ultime mandavano i dati intercettati all’estero, per esempio in Ucraina.

Non ci si deve stupire, poi, quando si “scopre” che si può essere intercettati, incarcerati e poi assolti perché il fatto non sussiste.

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