La riflessione

Innovare davvero è una rivoluzione sociale

Non è sufficiente digitalizzare la PA. Piuttosto, è necessario concepire che ogni persona abbia un indirizzo preciso sul web, con l’IPv6. E che nascano cluster di imprese extra geografici, l’evoluzione dei distretti. Perché la vera innovazione è distruttiva, più che trasformativa

Pubblicato il 13 Mar 2013

Michele Vianello

consulente e digital evangelist

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Per uscire dalla crisi bisogna innovare, affermano tutti. La politica, l’imprenditoria, tutti vogliono innovare.

Poi, quando scaviamo più a fondo, ci accorgiamo che spesso, riferendoci all’innovazione, parliamo linguaggi diversi e intendiamo cose diverse. Peggio, tutti vogliono innovare, ma non intendono sentir parlare dei costi sociali che a volte bisogna affrontare di fronte all’innovazione.

In questo scritto mi riferirò ai processi innovativi e alle conseguenze economiche e sociali che può generare l’innovazione I.T., soprattutto se non viene governata.

Quando parlo di governo dell’innovazione non intendo riferirmi alle impossibili volontà pianificatorie. Mi riferisco piuttosto alla capacità, alla consapevolezza, alla cultura necessari per trarre il meglio dai processi in corso -inevitabili- e limitare l’impatto sociale che può anche avere risvolti negativi.

Guy Kawasaky (l’evangelista di Steve Jobs) nel suo “The art of innovation” afferma che di fronte ai processi innovativi bisogna avere il coraggio di fare “un salto di corsia”.

Più modestamente io affermo che l’innovazione non è la “digitalizzazione dell’esistente. Faccio un esempio per farmi capire e poi, vengo alle nostre “cose italiane”.

La fine della Kodak è un caso di studio. La Kodak, contrariamente a quanto si vuol pensare, non è morta a causa dell’avvento della fotografia digitale. Certamente anche questo fattore ha influito pesantemente.

La Kodak, come industria di massa, è finita nel giorno in cui attraverso un device mobile abbiamo scattato una foto ed immediatamente la abbiamo condivisa attraverso Internet.

Il principio ispiratore per il quale le persone fotografano è quello di condividere emozioni con cerchie ampie di persone. Internet ha consentito di fotografare e condividere immediatamente una fotografia. Il luogo dove la fotografia viene esposta è la rete. Kodak non si è adeguata a questo principio, la sua sorte è nota a tutti.

D’altronde i device mobili hanno consentito di mettere assieme funzioni e attività fino ad allora godute in modo disgiunto. Fotografia, musica, mail, social ecc. tutto assieme su uno strumento; Internet è la base di uniche piattaforme e sistemi operativi.

Quanti prodotti di successo sono stati messi da parte di fronte a questa ondata di innovazione; ed erano prodotti di massa che avevano solo qualche anno di vita.

Pensate solo alla rapida diffusione e all’immediato declino del walkman. Quanta vita ha ancora la mail di fronte alla diffusione della chat e del cloud computing?

L’innovazione I.T., per essere tale, deve essere allora anche “disruptive” e permeare l’intera società, mutandone costumi, abitudini e cultura.

La variabile tempo poi condiziona il successo di un prodotto. Il tempo dell’innovazione I.T. è infinitamente più veloce di quello dell’epoca della meccanica. Quando parliamo di “digitalizzazione” del nostro Paese, immediatamente associamo la nostra arretratezza I.T. alla scarsa diffusione della banda larga e alle procedure della Pubblica Amministrazione.

Il Decreto “Sviluppo 2012” viene anche denominato “Agenda Digitale per l’Italia.

Se si legge bene il testo ci si accorgerà che la “digitalizzazione” prevista dal Decreto si riferisce esclusivamente alla Pubblica Amministrazione e alle modalità di incentivazione delle startup.

Sicuramente è un passo in avanti, pur in presenza di limiti che evidenzierò più avanti, ma ingenera una falsa convinzione tra le persone.

Si viene a consolidare l’idea che nel nostro Paese la Pubblica Amministrazione sia arretrata e scarsamente innovativa, di fronte ad un tessuto imprenditoriale avanzato e competitivo.

Niente di più falso. La scarsa competitività della industria italiana, ma anche di settori come il turismo sono riconducibili alla scarsa “empatia” con il mondo dell’I.T..

Prendiamo ad esempio il turismo. Quello del turismo è il settore dell’economia dove la “domanda” (i turisti) è più avanzata dell’offerta (gli albergatori e i ristoratori).

La prenotazione di un viaggio avviene prevalentemente su web. Le impressioni di un viaggio vengono diffuse tra community sempre più ampie di viaggiatori usando la rete. Il giudizio su un albergo o su un ristorante vengono condivise attraverso la rete. Lo storytelling di una città viene fatta ormai dai viaggiatori.

I nostri albergatori e i nostri ristoratori sono arretrati e subiscono (spesso con fastidio) l’attivismo dei viaggiatori.

Il nostro turismo perde quote di mercato ogni anno, vive molto di rendita, immagina futuristici ed improbabili turisti che proverranno dall’Oriente, dalla Russia, dall’Africa.

Non basta richiamarsi al cibo e all’arte. In molte altre parti del mondo si mangia bene e si possono visitare straordinarie gallerie d’arte.

Il web può aiutare a rendere maggiormente competitiva l’economia del turismo, ma oggi siamo alla preistoria. L’I.T. consente di gestire piattaforme di social networking, consente forme di organizzazione dell’offerta impensabili nel mondo “materiale”. Le piattaforme di cloud computing consentono di abbattere costi, consentono di profilare i potenziali clienti.

Per molto tempo il distretto industriale è stato la forza della piccola e della media impresa italiana. La base territoriale comunitaria e identitaria, la dimensione familiare dell’impresa, condizioni di cambio favorevoli hanno consentito di raggiungere performance rilevanti.

Ma questa forma di organizzazione della produzione ha anche accentuato le caratteristiche individualistiche dell’imprenditore italiano.

La crisi economica come è noto sta spazzando via una parte rilevante della nostra imprenditoria minore. Il 98% della nostra impresa è piccolissima (fino a 10 dipendenti).

Si può diventare grandi anche restando piccoli. Anche in questi casi l’Information Technology è un fattore straordinario di competitività.

Piattaforme di crowdsourcing possono consentire di condividere ricerca e design. Il cloud computing consente di abbattere i costi e, nel lungo periodo, di valorizzare l’uso del dato. Le piattaforme di ecommerce consentono di vendere merci in mercati geograficamente distanti.

Tutto semplice? No. Le piattaforme e gli applicativi dei quali ho parlato più sopra necessitano che si affermino logiche di condivisione e di collaborazione.

Per affermare tutte le loro potenzialità le tecnologie I.T. obbligano all’attuazione del “salto di corsia”.

Per fare un esempio, è necessario che il nostro imprenditore smetta di considerare che il suo competitor è il vicino di casa. È necessario pensare che il cluster di imprese non è più dislocato in ambiti geografici ben delimitati.

Internet consente di concepire il ciclo produttivo in modo decontestualizzato, fuori da angusti ambiti territoriali culturalmente arretrati.

Ma, serve il “salto di corsia”. L’innovazione riguarda allora l’intero Paese.

L’esempio di “salto di corsia” che vorrei fare per quanto attiene la Pubblica Amministrazione riguarda l’introduzione della “famigerata” carta d’identità elettronica. Per carità non è male se vengono riunificate in un unico supporto plastico/elettronico la tessera sanitaria e la carta d’identità. Se ne parla oramai da venti anni.

Ma questa è davvero innovazione?

È noto ai più che oramai in Internet abbiamo a disposizione miliardi di indirizzi IP. È l’avvento dell’era dell’IPV6. Nel 2015 (domani mattina) 200 miliardi di oggetti (Internet of Things) in possesso di una identità ben precisa dialogheranno tra di loro e con noi.

Ma, quale sarà l’identità delle persone su web? Quale sarà l’identità che consentirà una migliore organizzazione dei servizi pubblici e privati, quella che consentirà di legare una cartella clinica ad un individuo, quella che consentirà ad un oggetto di dialogare “proprio con noi”.

Di fronte a queste innovazioni, è sufficiente trasformare la carta in plastica o piuttosto non è necessario concepire che ogni persona abbia un indirizzo preciso sul web? Il nick name è altra cosa; il futuro è l’identità, la tua identità su Internet.

Questo è il “salto di corsia”. Tuttavia l’innovazione è disruptive. Di fronte al social networking, e a Google le Agenzie di Viaggio sono destinate a morire. Non spediamo più cartoline, le nostro foto di viaggio le postiamo con un commento (la cartolina virtuale) sul web.

A cosa serve ancora il postino? A cosa servono i molti travet degli uffici anagrafe dei comuni? L’innovazione non si afferma a somma zero.

Qui entra la capacità di gestire l’innovazione. Dove è necessario formazione e aggiornamento, anche degli imprenditori. Il digital divide culturale non è proprio solo dei singoli cittadini. Oggi siamo in presenza di un evidente digital divide imprenditoriale.

Dove non sarà possibile agire attraverso strumenti formativi sarà necessario porsi il problema della gestione del mutamento del mercato del lavoro.

È inevitabile, stanno morendo molte “professionalità”, stanno venendo meno molte funzioni, ma stanno nascendo nuove professioni. Si manifesterà sempre di più il bisogno di nuove professionalità nelle imprese come nella Pubblica Amministrazione.

Ecco forse questa potrebbe essere la vera riforma del mercato del lavoro necessaria in Italia.

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