cittadinanza digitale

Fake news e pensiero critico: il ruolo della Scuola

Offrire ai ragazzi strumenti e percorsi per sviluppare consapevolezza e competenze tali da non cadere nelle insidie del web, dalle fake news al cyberbullismo, è un imperativo per la scuola. Ecco le attività che possono essere di impatto perché la scuola assuma il ruolo di bussola senza costruire recinti al sapere

Pubblicato il 27 Lug 2018

Maria Cecilia Averame

docente e formatore

scuola

Per fare della scuola una bussola che orienti i ragazzi nel mare magnum della rete, fatto di fake news, bufale, comunicazione in rete e information literacy non serve necessariamente tanta tecnologia. Occorre saper fornire gli strumenti e i percorsi adeguati a sviluppare consapevolezza e competenze, un “orizzonte di senso”, e la capacità di lettura dei cambiamenti. E per farlo bisogna partire dalla valorizzazione delle specificità del singolo docente.

La scuola, sorvegliato speciale

Le discussioni teoriche spesso sono sostenute anche da importanti argomentazioni di carattere etico-sociale, come la possibilità di manipolazione dell’opinione pubblica, le discussioni su temi scientifico-sanitari, o l’uso estremo del digitale per azioni di diffamazione e odio in rete. Di fronte a questi diversi utilizzi, ci si è chiesto, a volte con ingenuo stupore, come sia possibile che le persone abbiano così scarse capacità di discernere il vero dal falso, o che possano essere così facilmente manipolabili.

La scuola è naturalmente un sorvegliato speciale e la formazione impartita uno fra i principali indagati. Se la cittadinanza digitale viene comunemente definita come la capacità di un individuo di partecipare alla vita online, con il carico di diritti e doveri che ogni cittadinanza comporta, come arrivare a rendere un individuo in grado di esercitare attivamente la sua cittadinanza, come aumentare il pensiero critico e la capacità di analisi dei nostri ragazzi?

Non mancano in questo senso i riferimenti cui agganciarsi: penso ad esempio al Digicom frameNetwork promosso dal Parlamento Europeo, dove vengono classificati in 5 gruppi 21 competenze digitali, con descrittori esaustivi e un quadro di valutazione preciso, che può rappresentare un valido punto di riferimento cui “agganciare” il tentativo di portare a scuola l’educazione civica digitale chiarendosi obiettivi comuni.

E non si può nemmeno dire che l’istituzione scolastica italiana negli ultimi anni sia stata a guardare: dall’azione #14 del Piano Nazionale Scuola Digitale 2015, ai PON sulla Cittadinanza digitale, ad iniziative finanziate anche dall’Unione Europea quali generazioni connesse, o il “decalogo Basta Bufale” promosso dall’ex ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli e dall’ ex presidente della Camera Laura Boldrini, sono state messe in campo una serie di attenzioni che mostrano come il tema è caldo e la discussione su di esso è vivace.

Ma nel quotidiano scolastico quali attività possono essere realmente di impatto?

Riconoscere la complessità

Parlando di informazione in rete, si passa appunto da temi altissimi, come la manipolazione dell’opinione pubblica, a strumenti pratici e diretti, quali decaloghi per la comunicazione online, norme anti-bullismo, eccetera. Questo può essere utile in prima battuta, ma si corre il rischio di offrire una visione semplice e diretta, e di non offrire agli studenti gli strumenti e i percorsi adeguati per sviluppare consapevolezza e competenze.

Un esempio pratico: la prima regola di qualsiasi decalogo per la condivisione di notizie e informazioni online è che prima di dare per certa una notizia, è necessario verificarne le fonti, controllarne la provenienza e la veridicità.

Corretto. Ma che percorso bisogna fare per arrivare a questo passaggio? Pensiamo alla scuola di venti, trent’anni fa: alla primaria si aveva a disposizione qualche manuale scolastico, eventualmente si facevano brevi ricerche utilizzando qualche enciclopedia o andando in biblioteca. Alla secondaria inferiore la complessità aumentava ma i presupposti erano gli stessi: le nostre fonti erano libri, il cui sapere era incontrovertibile, che dicevano tendenzialmente la cosa giusta, e non era importante sapere da dove provenissero le informazioni raccolte. La “questione delle fonti” veniva affrontata, talvolta, alle superiori: introducendo cosa fossero le fonti storiche, di che tipologia (dirette, indirette, orali…), da dove venissero.

Chiedere a un ragazzino di fare una ricerca online magari specificando di usare solo ‘fonti affidabili’, senza avere chiarito con lui cosa sia una fonte e senza avergli dato strumenti per valutarne l’affidabilità rischia di creare false sicurezze e sostenere comportamenti scorretti.

Il giovane adulto che esce dalle scuole superiori dovrebbe essere anche in grado di utilizzare parametri differenti ad esempio per la valutazione di una break news, di un articolo su una scoperta scientifica o per la realizzazione di un saggio breve, trasformando quella che abbiamo definito inizialmente come “complessità” al corrispettivo di chi la padroneggia: “ricchezza”.

Non assecondare la paura

Spesso nella scuola le discussioni, gli incontri per professori, alunni o famiglie tendono a utilizzare un approccio che mette in evidenza il “lato buio” del web: cyberbullismo, sicurezza in rete e – appunto – fake news.

Per quanto tutti questi aspetti abbiano un corrispettivo positivo, (possibilità di parlare con più persone, cercare informazioni di nicchia, confrontarsi con interlocutori in Italia o all’estero che non si avrebbe mai avuto la possibilità di incontrare, avere informazioni in tempo reale o da luoghi lontani…), il taglio è spesso ispirato alla paura e al timore, non alla scoperta, alla novità, alla creatività, alla passione.

E’ comprensibile che ci si impegni nello spiegare ai giovani le norme della rete e si cerchi di dare una risposta ad alcuni comportamenti che risultano più immediati (per esempio, spiegare le responsabilità individuali di ciò che si scrive o condivide sui social network quali video dove vengono ripresi compagni o docenti, o affermazioni ai limiti dell’ingiuria che spesso i ragazzi minimizzano come espressioni colloquiali fra amici), ma partire da ciò che non si deve fare rende complesso spiegare ciò che si può fare. La scuola può invece mantenere un ruolo di bussola e di analisi, dando energie ai ragazzi e non costruendo recinti protettivi attorno a loro.

È importante trovare riparo da due meccanismi del web che si propagano e che vanno ostacolati: uno è il volgere al negativo i meccanismi digitali, ed essere quindi incapaci di concentrarsi e attivarsi su ciò che funziona, sulla parte buona della rete che dobbiamo fare in modo che i ragazzi utilizzino.

L’altro è la polarizzazione delle opinioni: o si è tutti contro o si è tutti a favore. Non dobbiamo assecondare un dibattito che si limita a rete sì/rete no ma garantire spazi per la problematizzazione, l’analisi e quindi il confronto.

Le opportunità e i vantaggi delle competenze digitali

Riconoscere che navigare è un piacere, e usarlo come punto di partenza.

Ogni corso sulla comunicazione in rete, ogni discorso sulla cittadinanza digitale dovrebbe tenere presente due assunti: che la cittadinanza digitale offre delle opportunità e dei vantaggi (lavoro, networking, informazione, etc) che senza competenze digitali non potremmo avere e ci verrebbero precluse, e che navigare, confrontarsi su internet, parlare, creare méme buffi con personaggi dello spettacolo o del calcio, o filosofi o artisti, rappresenta una attività divertente. In rete si ricerca soddisfazione, con modalità differenti, ad alcuni bisogni fisiologici dell’essere umano: appartenenza, affermazione, comunicazione, confronto. Creare percorsi di soddisfazione di tali bisogni rappresenta un modo per lavorare sulle tecniche e sviluppare competenze, che comportano impegno e studio.

I diritti del cittadino digitale

All’atto pratico, con il Codice dell’amministrazione digitale abbiamo un profilo di quelli che sono i diritti del cittadino digitale, come il diritto ad avere un’identità digitale, un domicilio digitale, il diritto ad accedere a dati e informazioni dell’Amministrazione Pubblica, a poter effettuare pagamenti digitali, ed altri ancora. Ne esistono poi altri, non sempre formalizzati in leggi, che toccano temi importanti come il diritto di produrre e condividere contenuti, di usufruire di fonti di informazione, di avere una tutela della nostra privacy, di poter gestire i dati che, consapevolmente o meno, generiamo nella nostra navigazione quotidiana su internet.

Questi sono diritti che, perché i ragazzi possano usufruirne, prima di tutto devono essere conosciuti e deve essere conosciuto il potere sociale, politico ma anche economico e commerciale che hanno.

Anche in questo caso possiamo partire in positivo: per capire come i media digitali siano affamati della nostra attenzione (quindi del nostro tempo e quindi – a cascata – del valore degli spazi pubblicitari di una pagina o dei metadati utili alla profilazione commerciale) un’attività utile in classe è quella tesa a debukare il linguaggio retorico del web, teso ad abbassare la complessità, aumentare l’appeal retorico e catturare la nostra permanenza o spingerci a un click su questo o quel link.

Un metodo storico-umanistico è quello di analizzare la costruzione dei discorsi politici e storici, segnare gli artifizi retorici di Kennedy o Martin Luter King, vederne praticamente le anafore, le iperboli, le metafore, in modo che lo studente possa prendere confidenza con l’uso delle parole e sulla loro funzione persuasiva.

Così nelle discussioni in rete, specie sui social, prendere un thread di dibattito su qualche argomento virale e, legando aspetti di filosofia, psicologia e sociologia, giocare con le fallacie della comunicazione, esaminare i bias cognitivi e scoperchiare i meccanismi di conservazione delle proprie idee mascherati da libera conversazione online.

Tecnologia, insegnanti, programmi

Paradossalmente, non è necessaria “tanta tecnologia” per fare educazione civica digitale. Molte proposte relative al ruolo della scuola nell’educazione sono già state fatte e ampiamente sostenute da chi si occupa di scuola e tecnologia: uscire dalla visione dell’aula informatica, magari anche tecnologicamente molto dotata e fornita, per avere una buona (e facilmente utilizzabile) connessione in ogni classe, un pc, una LIM o anche solo un proiettore. Permettere ad ogni docente di farne un uso quotidiano e non occasionale, perché diventi uno strumento della didattica, e non rappresenti un obiettivo didattico.

Raggiunto questo primo passo sarebbe anche più facile ragionare con i docenti rispetto all’uso dello strumento. Per esempio, fare una lezione parlando delle invasioni barbariche o dello sgretolamento dell’Impero romano d’occidente avendo a disposizione, invece che l’immancabile cartina geografica dell’Europa o del Mondo sul muro, lo schermo dove proiettare una serie di mappe con i singoli spostamenti del periodo. O spostandosi con l’equivalente greco romano del contemporaneo Google Maps, zoommando e navigando tra le città e le strade dell’impero romano.

Valorizzare le specificità del singolo docente

E’ importante valorizzare le specificità del singolo docente, forte delle competenze della singola disciplina, rivedendone i programmi e mettendo l’insegnante nelle condizioni di fornire gli obiettivi, le modalità, ovvero un “orizzonte di senso”, e la capacità di lettura dei cambiamenti.

Lavorando con alcuni insegnanti di storia, filosofia, italiano e latino di una secondaria superiore, con una età media piuttosto avanzata anche rispetto all’età media della scuola italiana, ho constatato come fosse elemento di stress e frustrazione impegnarli nell’utilizzo di un singolo strumento, alieno alla propria didattica, non padroneggiato completamente e magari monitorandone tempi di lavoro e di riuscita. Non potranno competere con i propri alunni in velocità di ricerca online, o facilità di comunicazione.

Diversamente, l’insegnante di filosofia sessantaquattrenne comprende e può trasmettere ai suoi allievi cosa sia un’ontologia (fra filosofia e informatica), e far lavorare gli alunni perché siano loro a rappresentarne una con strumenti informatici. Il collega di storia, parlando di Public History, può dare i fondamenti perché gli allievi realizzino un minisito su un argomento storico. O, ancora, in Italiano e latino, porre le basi per un’analisi semantica del testo formalizzata magari in HTML, per proseguire poi con l’analisi delle ricorrenze in Dante o Manzoni e introdurre in un liceo classico le digital humanities.

Se alcune cose presentate possono essere considerate attività una-tantum, la maggior parte di quanto esposto, per riportare la complessità alla semplicità, richiede la necessità di modificare gli ordinamenti per includere la cittadinanza digitale, e un intervento sui programmi di studio delle singole discipline per integrare nuovi argomenti.

Come per esempio la questione delle fonti nella media inferiore, per storia o italiano; l’educazione civica digitale e i diritti digitali, nelle superiori marketing e webmarketing, digital humanities, elementi di retorica e analisi del discorso in storia o diritto.

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