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Calderini: “Smart city, un Governo senza visione. I buoni esempi per ripartire”

I Ministeri continuano a generare iniziative proprietarie piuttosto scorrelate: almeno sette in sei Ministeri diversi. Ci sono dubbi che l’istituzione dell’ennesima “Task Force” presso il MISE possa essere considerata un’idea rivoluzionaria in grado di ridare forza al processo. Tuttavia, alcune condizioni favorevoli permangono e credo che da queste si debba ripartire

Pubblicato il 02 Nov 2015

Mario Calderini

Politecnico di Torino

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Quando qualche anno fa la buzzword “Smart Cities” ha cominciato ad affacciarsi nelle conversazioni degli esperti, ho ingenuamente creduto che avessimo trovato un potentissimo principio ordinatore attorno al quale organizzare finalmente una nuova agenda politica di sviluppo locale.

Lo pensavo in ragione del potenziale narrativo e retorico della buzzword stessa, che richiama molto direttamente vantaggi e benefici per i cittadini ed anche del fatto che la natura duale della politica – con lo stesso euro creare opportunità per le imprese e migliorare la vita delle persone nelle città – rendesse la questione straordinariamente appetibile per i politici.

E’ evidente che avevo torto. O meglio, non si può negare che di Smart Cities si sia parlato moltissimo in questi anni, ma certamente non si può dire che ciò si sia tradotto in una politica industriale e men che meno che si sia lavorato per far sì che le moltissime piccole applicazioni che sono nate qua e là grazie all’intraprendenza degli amministratori locali crescessero ad un livello tale da avere un impatto reale sulle condizioni di vita nelle città e men che meno da generare prodotti o servizi di scala industriale.

E’ evidente che qualcosa non ha funzionato. Il disegno formulato dal Governo Monti conteneva moltissimi punti deboli, ma aveva il pregio di esprimere una visione e un’idea. Un’idea di governance, accentrata in Agid, un’idea di piattaforma finalizzata a garantire interoperabilità, scalabilità e replicabilità ad un processo di innovazione spontaneo e bottom-up, un ‘idea di misurazione, un’idea di strumentazione finanziaria e soprattutto l’idea che l’infrastruttura fondamentale dovesse essere un sistema di regole di ingaggio pubblico-privato atto a garantire che le Smart City non diventassero il parco giochi degli IT vendors.

Ciascuna di queste idee può essere criticata – e lo è stata legittimamente da molti fin da subito – ma si trattava comunque di un tentativo di esprimere una visione. Una visione cui mancavano alcuni ingredienti importanti. Certamente, col senno di poi, oggi io penso che avremmo dovuto dare molto più peso e centralità alla creazione di ecosistemi digitali e al middleware per favorire l’integrazione dal basso dei diversi servizi, solo per fare un esempio.

Tuttavia, ciò che è venuto dopo ha cancellato anche quello che di buono quel disegno conteneva. Le vicissitudini dell’Agid, in cui si sono avvicendati tre direttori, il desiderio di protagonismo di ANCI, le terribili lentezze amministrative con cui si è dato corso ai progetti MIUR, lo scarso interesse della Conferenza Stato-Regioni e soprattutto il non riconoscimento del ruolo di Agid da parte dei Ministeri ha fatto si che ciò che era previsto da una norma di legge – la redazione di un Piano Nazionale Smart City – diventasse sostanzialmente irrealizzabile.

Poco male si dirà, è fallito un piano verticistico e adesso possiamo fare sul serio, dando spazio alla visione di coloro che pensavano che Smart City dovesse essere un processo totalmente spontaneo e destrutturato, mille fiori che creano un magnifico giardino.

Anche io mi auguro che sia così, ma dobbiamo domandarci se esistono ancora le condizioni perché ciò avvenga. La buzzword ha perso molta della sua potenza evocativa ed è oggi assai polverosa. I Ministeri continuano a generare iniziative proprietarie piuttosto scorrelate: ne ho contate almeno sette in sei Ministeri diversi e non mi sembra che l’istituzione dell’ennesima “Task Force” presso il MISE possa essere considerata un’idea rivoluzionaria in grado di ridare forza al processo (sarebbe peraltro decenza istituzionale preoccuparsi di cancellare la norma vigente che dà le prerogative all’Agid se si intende disattenderla completamente). Insomma, siamo di fronte all’ennesimo dilemma se fosse preferibile una visione un po’ scombinata alla totale assenza di visione.

Tuttavia, alcune condizioni favorevoli permangono e credo che da queste si debba ripartire. I bisogni dei cittadini sono sempre lì, se possibile ancora più urgenti. Le amministrazioni di tanti Comuni, in questi anni, hanno lavorato benissimo producendo sperimentazioni e prototipi di grande valore, seppure di piccola scala. Abbiamo la grande occasione del PON Città Metropolitane per organizzare la progettualità di quattordici aree urbane attorno a requisiti minimi di replicabilità, interoperabilità e scalabilità, magari dando spazio a ecosistemi digitali sperimentati per Expo. Alcune città italiane, Milano e Firenze per esempio, hanno dimostrato di saper accedere con successo ai finanziamenti europei sul tema.

Ma, soprattutto, va colta la grande spinta che viene dai processi di innovazione sociale che in molte città italiane, Milano, Torino, Bologna e Lecce solo per fare quattro esempi, stanno diventando la vera impalcatura intangibile delle Smart Cities. Beni comuni, imprenditorialità e innovazione sociale, finanza di impatto sociale co-creazione, processi aperti, sono la nuova pagina delle Smart Communities, che ancora conserva intatte tutte le sue potenzialità di sviluppo locale. Accompagnare con discrezione questo processo è una delle due cose che credo rimanga da fare alla politica per le Smart Communities. L’altra è riconoscere che non vi sarà mai Smart City senza una profonda revisione delle regole di procurement pubblico delle tecnologie.

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