AGENDA DIGITALE EUROPEA

Perché serve un’Europa visionaria che guidi la rivoluzione del lavoro

La pervasività del digitale nelle attività sociali e lavorative è sempre più concreta. Cambiano i lavori e le competenze necessarie, ma questi cambiamenti devono essere adeguatamente governati. Un tema da mettere tra le priorità del semestre europeo. Il caso del Regno Unito

Pubblicato il 05 Ago 2014

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L’inizio del semestre europeo di presidenza italiana ha coinciso con la realizzazione di un documento programmatico di grande respiro e anche con una riflessione sulle politiche europee sul digitale, che culmina con la cosiddetta “Venice declaration”. Come si è avvertito da più parti è necessaria una profonda riflessione, a livello europeo oltre che strettamente nazionale, anche per identificare il “futuro del lavoro” nel prossimo decennio, così da indirizzare in modo congruo le politiche sociali ed educative, ma anche per comprendere le condizioni necessarie che sono da realizzare per far sì che la società del 2030 abbia standard di qualità della vita più elevati degli attuali.

Infatti, se è certamente vero che in una società globale come la nostra i contagi e le influenze dai Paesi extraeuropei sono un dato di fatto, così come la concorrenza economica, gli scenari si costruiscono con le scelte politiche nei diversi settori socio-economici. E quindi rimane sempre vero che il nostro futuro è quello che siamo in grado di costruire.

Futuro del lavoro e lavoro del futuro

Ciò che, infatti, sembra emergere in modo evidente è che l’ottimismo tecnologico del Novecento, per cui una maggiore produttività grazie alle tecnologie avrebbe portato maggiore ricchezza e quindi permesso la rimodulazione dei posti di lavoro perduti con l’automazione, non è più realistico. E non lo è perché il costo dei servizi e dei prodotti si riduce e perché la concorrenza globale induce immediatamente la corrispondente riduzione dei prezzi. Maggiore produttività e maggiore automazione si traducono in minore ricchezza percentuale.

Ci vuol poco per far risorgere le condizioni di esistenza del luddismo, come si sta vedendo, a livello internazionale, per le reazioni a diffusioni di app innovative, e dirompenti dal punto di vista organizzativo e normativo, come Uber. Ma, d’altra parte, la penetrazione delle tecnologie in tutti gli ambiti di lavoro richiede un maggiore livello di competenza da parte dei lavoratori nei diversi livelli organizzativi, una competenza che ha le caratteristiche specifiche di richiedere un sempre costante aggiornamento, non tanto per procedere nella specializzazione, ma per rimanere adeguata e utile, accompagnata ad una innovazione profonda dei processi organizzativi e produttivi che rimoduli il lavoro. Lo spettro della rapida obsolescenza delle competenze, sommata alla perdita di lavori a basso contenuto di conoscenza, grazie alle tecnologie digitali e all’automazione, fa sì che lo scenario sempre più probabile sia quello dell’espulsione dal mondo del lavoro di un numero elevato di persone, per lo più di una fascia di età over 50. Ed è questo lo spettro principale che bisogna combattere, ripensando la nuova società pervasa dal digitale. Credo che su questo punto sia emblematico il finale di un film “visionario” del 1971 (NP. Il segreto) in cui gli operai non più “utili” perché il processo produttivo è stato del tutto automatizzato, e nonostante la ricchezza creata da questa automazione, vengono soppressi in massa. Per questa ragione il tema dell’evoluzione delle competenze è precondizione di qualsiasi politica di sviluppo economico.

Su questa linea si erano espressi già nel 2011 Brynjolfsson and McAfee nel loro libro Race Against the Machine “ per affermare come l’accelerazione del progresso tecnologico poteva avere un effetto nullo o devastante a livello sociale se non governato, come rischia oggi di avvenire. E anche per loro l’unica risposta possibile era quella di investire nel sistema educativo, insieme a una forte spinta all’innovazione organizzativa.

Ma per rendere efficace l’approccio alle competenze e indirizzare il sistema educativo (che abbraccia l’intero arco di vita di ciascuna persona), è necessario muoversi su due versanti essenziali:

  • del metodo, nel senso che diventa indispensabile far sì che il sistema educativo acquisti una flessibilità tale da muoversi in continua sintonia con i cambiamenti socio-economici-tecnologici;
  • della visione, che è strettamente legata al disegno del futuro del lavoro e dei lavori del futuro.

Questo è uno dei temi più difficili e però dirimenti e quindi da affrontare rapidamente, prendendo come realistico e utile orizzonte il 2030, come è stata la scelta operata nel Regno Unito per lo studio di una Commissione governativa.

Scenari per il futuro del lavoro nel 2030

La ricerca “The future of work: jobs and skills in 2030” pubblicata qualche mese fa dalla Commissione del governo UK su Impiego e Competenze, anche se si focalizza sulla situazione del Regno Unito in realtà fornisce indicazioni utili per tutte le economie avanzate, inclusa l’Italia.

L’assunto di base della ricerca è che certamente si continuerà ad assistere, nei prossimi anni, ad una evoluzione tecnologica in linea con quella degli ultimi decenni e quindi secondo la legge di Moore, ma che gli effetti sociali di questa dirompente spinta verso la potenziale automazione (parziale o totale) di moltissimi lavori umani (soprattutto quelli individuali), non sono predeterminati e dipendono fortemente dalle politiche che saranno adottate.

Nel contesto UK, la ricerca prende in esame quattro possibili scenari, con potenziali impatti diversi sul lavoro:

  1. Flessibilità forzata. Scenario in sostanziale continuità, con una maggiore flessibilità e innovazione nel business in molti settori, che conducono a una relativa ripresa dell’economia UK, e una rapida evoluzione per il modo in cui la flessibilità del lavoro cambia i doveri quotidiani;
  2. Il Grande Divario. Scenario in cui avviene una robusta crescita, guidata dalle industrie high-tech, particolarmente in scienze della vita e dei materiali, ma in cui si crea una società a due livelli, con un divario tra chi ha e chi non ha, legato ai lavoratori che hanno determinate competenze e quelli che non le hanno;
  3. Attivismo nelle competenze. Scenario in cui l’innovazione nella tecnologia guida l’automazione del lavoro professionale, spingendo verso un programma estensivo sulle competenze guidato dal governo per la formazione e l’aggiornamento dei lavoratori su attività a rischio obsolescenza;
  4. Adattamento all’Innovazione. Scenario in cui, in un’economia sostanzialmente stagnante, la produttività viene migliorata attraverso una sistematica implementazione di soluzioni ICT, ma la crescita rimane sostanzialmente settoriale.

Scenari, pertanto, la cui valutazione sull’intero sistema socio-economico dipende dal tipo di intervento promosso a livello governativo. L’analisi dei lavori e delle competenze per il 2030 viene condotta, nella ricerca, su sette settori chiave dell’economia UK: servizi di business e professionali, manufatturiero, costruzioni, creativo e digitale, salute e previdenza sociale, educazione e formazione, retail e logistica.

Secondo lo studio, l’utilizzo del digitale trasformerà i lavori in tutti questi settori: nel settore sanitario, ad esempio, potremmo vedere lavoratori nel campo dell’assistenza che svolgono la loro attività attraverso l’uso di dispositivi di diagnostica e monitoraggio presenti nelle case degli assistiti, così come team misti di medici, ingegneri e specialisti Ict che realizzano insieme i nuovi trattamenti personalizzati per i pazienti. Nelle costruzioni si svilupperanno tecnologie di edificazione sempre più sofisticate, come la “home automation”, che richiederanno nuove competenze per l’installazione, la manutenzione e la riparazione, mentre architetti e manager dell’edilizia useranno modellazione digitale nei loro progetti, sia per progettare che per costruire strutture fisiche.

Costruire il futuro del lavoro. Il compito dell’Europa

In questi settori sarà sempre più naturale la coesistenza lavorativa di quattro generazioni, il che non è di per sé un fatto negativo, ma come ha rilevato Toby Peyton-Jones, direttore HR di Siemens, “Quali sono le implicazioni di questo fatto? Noi vedremo conflitti culturali e stress intergenerazionali o questo si dimostrerà essere una positiva tensione che è parte di un più ampio trend di valorizzazione delle diversità che guiderà l’innovazione?”. D’altra parte c’è una generale convergenza rispetto al fatto che il lavoro sarà in generale molto più interconnesso e progettato per la rete.

Una delle competenze più importanti sarà quella utile per “lavorare attraverso differenti discipline, collaborare in rete e dimostrare sensibilità culturale”. E sostanzialmente dovrebbe attuarsi quanto già previsto nel 1999 da Domenico De Masi nel suo libro “Il futuro del lavoro”, e cioè che fosse inevitabile il passaggio radicale verso un modello di lavoro “basato sulla creatività e la motivazione, la gestione del tempo e la responsabilizzazione sui risultati”.

Ma adesso non si tratta più discutere di previsioni, bensì di politiche del lavoro da attivare a breve e di necessaria rimodulazione di un sistema educativo globale e adattivo. Si tratta di mettere questa priorità nell’agenda politica europea, sapendo che la sua comprensione più profonda è legata al sostanziale superamento della dimensione e del confine attuale dell’agenda digitale europea. Perché sarà tutto, pervasivamente, digitale.

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