data management

Ontologie della PA, ecco perché il “fattore umano” resta fondamentale

E’ possibile dar forma a una ontologia della Pubblica Amministrazione con un processo quasi del tutto automatizzato? Forse sì, ma è anche vero che se si “risparmia” sulla fatica degli esperti umani, che poi è quella che dà vero valore ai dati, si rischia di restare al punto di partenza

Pubblicato il 29 Nov 2017

Paolo Naggar

docente presso l'Università "La Sapienza"

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Ho letto con interesse l’articolo di Riccardo Grosso nel quale viene illustrato, nelle linee generali, un nuovo metodo per realizzare l’ontologia della Pubblica amministrazione (così come altre ontologie, naturalmente). Il metodo ha il vantaggio di non richiedere onerose interviste ad esperti e altrettanto onerose analisi e concettualizzazioni dei risultati. L’idea, infatti, è “intervistare”, in un processo semi-automatico, direttamente le risorse descrittive del patrimonio informativo delle amministrazioni (gli “schemi entità-relazione”, ad esempio) così come il patrimonio stesso, il quale si auto-rappresenta nella struttura dei suoi dati. Anche la fase di integrazione in strutture via via più ampie dei pezzi di ontologia così ricavati è pensata come un processo semi-automatico.

L’idea qui è basarsi sulla mediazione del linguaggio naturale – usato come una sorta di “esperto dell’integrazione concettuale” – nell’ipotesi che sia il lessico a dare nomi alle cose.  Il metodo infine prevede, ovviamente, un ultimo raffinamento in presenza degli esperti, quegli stessi esperti che sarebbero stati intervistati all’inizio, nel caso di adozione del metodo “tradizionale”, quello che si intenderebbe superare. Loro avrebbero questa volta un compito molto più facile: esprimersi su una struttura già preconfezionata al solo scopo di validarla ed effettuare gli opportuni ritocchi.

Personalmente sono diversi anni che collaboro con il gruppo di ricerca sulle ontologie del Dipartimento di ingegneria informatica e gestionale dell’Università “Sapienza” di Roma. Sono le persone che hanno creato e promosso a livello mondiale la tecnologia dell’Ontology Based Data Management (OBDM). Noi agiamo proprio nel modo che si intende superare: diamo corso a faticose interviste e analisi facendo prender forma pian piano alla sospirata ontologia. Essa emerge come frutto di tanto lavoro di persone e poco lavoro di macchine. Sono quindi personalmente interessato a metodi e tecniche che consentano l’abbattimento dei tempi e dei costi di questo delicato processo. Tuttavia l’articolo di Riccardo Grosso non riesce, purtroppo, a tranquillizzarmi sulla effettiva disponibilità di un metodo alternativo a quello per me ormai abituale ed è questo che mi spinge a scrivere questa breve nota e ad iniziare un dibattito. Uso come punto di partenza un principio senz’altro condiviso da tutti: ciò che si deve perseguire non è solo il contenimento dei costi di sviluppo dell’ontologia ma anche la sua effettiva efficacia rispetto alla funzione che l’ontologia stessa è chiamata a realizzare. Senza tener conto di questo “principio di praticità” si potrebbe accettare, al limite, un risultato poco costoso ma talmente inefficace da peggiorare le cose, rispetto alle “ontologie fatte a mano”, sotto il profilo del rapporto qualità/prezzo.

Abbozzo una prima definizione in tre punti della “funzione d’uso dell’ontologia”, facendo particolare riferimento alla Pubblica amministrazione.

  1. L’ontologia dovrebbe servire da riferimento per il completamento, la riorganizzazione e il controllo di qualità dei dati di una amministrazione. A questo scopo essa fa riferimento ad un perimetro specifico della realtà, quello in cui l’amministrazione, più o meno direttamente, interviene (il dominio di interesse dell’ontologia).
  2. L’ontologia dovrebbe essere strumento per la riappropriazione, da parte della Pubblica amministrazione, del contenuto informativo dei suoi dati. Troppo spesso il progetto dei dati è lasciato libero ai fornitori del sistema informativo i quali stabiliscono, in larga misura, ciò che l’amministrazione rappresenta della realtà nella quale opera. L’ontologia dovrebbe diventare elemento vincolante di input e non di output per gli appalti relativi ai sistemi informativi pubblici.
  3. L’ontologia dovrebbe caratterizzare il significato condiviso dei dati lungo i flussi di cooperazione informativa inter-settoriale. Ad esempio, facendo riferimento al DL 33/2013 che attua la legge 190/2012, una “ontologia della trasparenza” potrebbe ricondurre tutti i dati che rispondono ai fabbisogni della trasparenza ad un unico processo interpretativo condiviso, rendendo estremamente più economico ed efficace, per ogni amministrazione (i cui dati sono organizzati in modo specifico), rispondere in modo costruttivo.

Sia l’adozione delle risorse informative come “esperti di dominio” sia l’adozione del linguaggio naturale come “esperto dell’integrazione concettuale” sollevano degli interrogativi rispetto ai tre punti.

Assegnare il ruolo di “esperti” alle risorse informative sembra garantire solo l’acquisizione di una diversa fotografia – quella espressa nel linguaggio dell’ontologia – di una rappresentazione che già c’è. Può essere difficile, e in alcuni casi impossibile, giudicare la qualità della rappresentazione dei dati per poterla migliorare. Ad esempio, un’ontologia che rispecchi fedelmente i dati come potrebbe indicare eventuali informazioni mancanti? Ogni ontologia aumenta notevolmente la sua utilità quando esprime, nel suo contenuto, i fabbisogni informativi sul dominio di interesse, ovvero quando è rivolta al dominio di interesse e non ai dati che lo rappresenterebbero già! La struttura dei dati può essere eletta solo al ruolo di “esperto delle disponibilità informative” e il risultato che si ottiene “intervistando i dati” mal si presta a comprendere come migliorare il rapporto tra fabbisogni informativi e disponibilità informative.

Passiamo a valutare le interviste agli esperti umani, quelle che si vorrebbero evitare per via del costo eccessivo. Sebbene sia sacrosanto adottare metodi per abbatterne il costo, la mia personale esperienza mi dice che proprio da loro dipende quella che chiamo “riappropriazione del dominio di interesse da parte della amministrazione.” Far scaturire “dal non umano” una ontologia e poi consegnarla agli umani rischierebbe di essere un’operazione priva di mordente, non impegnativa per chi l’ontologia la dovrà usare. Dico come penso stiano le cose: le ontologie non sono rappresentazioni oggettive del loro dominio di interesse, bensì del modo, soggettivo, come una certa comunità osserva quel dominio mentre si impegna ad intervenirvi. Due distinte comunità di persone, se animate da diversi scopi, hanno, in generale, distinti impegni ontologici sullo stesso dominio! Più è ampia la comunità di persone destinata ad usare un’ontologia come impegno concettuale comune, più sarà faticosa l’analisi e, al tempo stesso, prezioso il risultato. L’idea che mi sono fatto è che è proprio nella fatica degli esperti umani che si produce valore usabile. Temo che evitare di spendere questa fatica, facendo economia, significherebbe anche restare, almeno in prima approssimazione, al punto di partenza.

Per finire voglio dedicare qualche parola ancora all’idea più importante di questa nota: il principio di praticità. La funzione d’uso dell’ontologia che ho descritto può essere ampliata o ridiscussa. Il punto è che essa deve sempre essere chiara ed esplicita prima di poter valutare metodi e tecniche non solo sul versante dei costi di realizzazione dell’ontologia ma anche su quello dei vantaggi da cogliere a valle della realizzazione. Faccio notare che in presenza di un tale principio la tecnologia può essere messa in gioco su due fronti e non uno solo. Non solo nel favorire la costruzione dell’ontologia ma anche, e forse soprattutto, nell’altro importantissimo fronte: favorire – come fa ad esempio l’OBDM – la produzione di valore “ontology-based”.

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