impresa e innovazione

Quale ruolo per le startup nella rivoluzione Industry 4.0

Quasi il 60% delle 7mila startup registrate in Italia ha il bilancio in perdita. Non abbiamo unicorni e le startup con un fatturato intorno al milione di euro scorrendo il Registro Speciale delle Camere di Commercio sono solo 114. I giovani hanno ritrovato la voglia di fare impresa, ma la creatività da sola non basta

Pubblicato il 28 Giu 2017

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Quasi 7.000 startup innovative sono iscritte al Registro delle imprese secondo la Relazione annuale 2016 sullo stato di attuazione e sull’impatto delle policy per startup e PMI innovative, redatta dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE).

Ma il secondo rapporto sull’e-commerce 2016 elaborato da BEM Research stima che rispetto al complesso del mercato europeo, che raggiunge una dimensione di poco meno di 600 miliardi di euro, l’e-commerce italiano è pari ad appena il 3,6%, contro una quota dei consumi delle famiglie italiane, effettuati attraverso tutti i canali di acquisto possibili, pari al 12%.

Abbiamo a lungo parlato del ruolo che le startup potrebbero, o meglio dovrebbero svolgere, per portare innovazione in termini di servizi e processi nell’impresa tradizionale. In particolare, in un’ottica di open innovation funzionale anche e soprattutto alla trasformazione delle industrie in 4.0, connesse, più efficienti e più competitive anche grazie al digitale. Eppure nemmeno nell’e-commerce, volano ormai riconosciuto da tutti per l’internazionalizzazione a costi contenuti e step-base della digitalizzazione, riusciamo a avvicinarci agli altri paesi europei. E di eccellenze made in Italy da vendere ne avremmo. Il 43% delle imprese ancora non “sfrutta” i marketplace per raggiungere clienti nel mondo, secondo il report E-commerce in Italia 2017 della Casaleggio Associati, dove si evidenzia che, anche tra chi vende online, il 12% lo fa unicamente con un sito in lingua italiana. Come possiamo pensare che imprese che ancora guardano con diffidenza alla vendita online possano confrontarsi con big data, intelligenza artificiale e macchinari connessi, solo per citare alcuni elementi dell’industria 4.0, necessari a competere nel mondo.

Eppure, grazie al Piano industria 4.0 che il Ministero dello Sviluppo Economico ha avuto il merito di proporre e tenacemente far approvare, sembra che qualcosa stia cambiando. Non solo nello scenario macro, con ripresa del PIL – in rialzo dell’1,3% per il 2017 secondo le stime dell’FMI – ma anche nel settore industriale con i dati su ordini e fatturato del primo trimestre e l’aumento delle richieste di beni strumentali agevolabili con l’iperammortamento. Ricordiamo che il previsto iperammortamento con aliquota al 250% per gli investimenti in beni materiali strumentali nuovi, funzionali alla trasformazione in chiave innovativa e il superammortamento con aliquota al 140%, non sono un impegno da poco per le finanze in affanno del Paese. Ma questi benefici fiscali sono un investimento nel futuro, che non potrà durare all’infinito. Lo stesso Calenda ha detto pochi giorni fa che se da un lato bisogna rafforzare Industria 4.0, non tutti gli incentivi saranno confermati.

Una recente inchiesta del Sole 24 Ore ha rilevato che “sette aziende su 10 ritengono che la tecnologia sarà fondamentale per la loro crescita”, ma solo 3 su 10 stanno facendo investimenti in tal senso. Questo è un divario culturale che ci penalizza notevolmente rispetto all’estero.

Bisogna trovare quindi un modo per raccontare agli imprenditori i benefici della trasformazione, mostrando casi concreti di successo. E ampliando lo scenario anche ai dipendenti – entro il 2020 Confindustria stima che ci saranno 600mila posti di lavoro che non verranno assegnati – bisogna iniziare a creare a scuola e nelle università le competenze che permettano per coprirli. Aggiungo che secondo lo European digital progress in Italia oltre il 20% della forza lavoro non ha competenze digitali, dato che non utilizza internet. Non possiamo certo dirci un paese alfabetizzato digitalmente.

Allora ben venga davvero il Piano nazionale di comunicazione già annunciato mezzo stampa generalista, web e social media, che coinvolga tutti gli stakeholder per sensibilizzare il settore industriale sulle tematiche industria 4.0 e sui temi di innovazione digitale.

Cerchiamo di cogliere l’occasione hic et nunc, qui e ora.

Anche l’Unione Europea nello European digital progress report che misura i progressi digitali degli Stati Europei ha giudicato il Piano “fondamentale per la progressione dell’industria italiana nella catena globale del valore” (un precedente articolo su Agendadigitale.eu evidenzia gli aspetti meno positivi del nostro Paese).

Ma se è giusto non risparmiare le bacchettate all’imprenditoria che non affronta il cambiamento e l’innovazione in modo adeguato, forse è ora di iniziare a guardare anche alle startup con un occhio maggiormente critico e scevro dai facili entusiasmi che hanno coinvolto addetti ai lavori, e talvolta anche media, vedendo i numeri crescere così rapidamente dall’istituzione del registro delle imprese innovative. Proprio guardando ai numeri, le quasi 7 mila imprese innovative registrate in Italia hanno un reddito operativo negativo di circa 70,5 milioni di euro. Quasi il 60% ha il bilancio in perdita. Non abbiamo unicorni e le startup con un fatturato intorno al milione di euro scorrendo il Registro Speciale delle Camere di Commercio sono solo 114. Siamo giunti alla strana contraddizione per cui se da un lato le startup hanno un gran successo dal punto di vista comunicativo, dall’altro gli imprenditori quando se ne trovano davanti una non la considerano un fornitore affidabile. Proprio perché i fondamentali, i numeri in termini di fatturato, dipendenti, e talvolta forse anche affidabilità, ad oggi sono ancora piuttosto deludenti.

Bisogna ammettere che forse per la prima volta dal dopo guerra ci troviamo di fronte ad una generazione che, anche se talvolta con le armi spuntate, ha voglia di fare impresa. Secondo una ricerca eBay/Ipsos che ha analizzato il “desiderio di imprenditorialità” dei giovani italiani, francesi e spagnoli il 67% dei giovani italiani tra i 18 e i 35 anni è propenso a valutare una professione imprenditoriale e il 40% dei millennials italiani sostiene di avere già un’idea concreta di business in mente.

Questa è un’importante novità per il nostro paese.

Forse, oltre a fare cultura tra gli imprenditori per raccontare le opportunità derivanti dall’innovazione legata alla produzione, dovremmo pensare ad una formazione qualificata che permetta al Paese di creare una nuova classe imprenditoriale in grado di coniugare i fondamentali del Paese con la creatività e l’innovazione che tutti ci riconoscono e dare davvero un contributo alla ricostruzione della nostra economia su nuove basi.

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