dati e processi educativi

Migliorare la Scuola grazie ai big data (evitando gli effetti collaterali): come fare

Le limitazioni dei big data in educazione sono note agli addetti ai lavori. Tuttavia, finiscono per essere ignorate, nel timore che la critica possa inceppare il business. Eppure i big data possono servire a comprendere meglio i processi educativi, per renderli trasparenti e migliorarli. Serve però un’alleanza su nuove basi

Pubblicato il 28 Feb 2019

Emiliano Grimaldi

L@B-ED: Research L@Boratory on Education and Digitalization, Dipartimento di Scienze Sociali Università degli Studi di Napoli Federico II – IRPPS-CNR

Paolo Landri

L@B-ED: Research L@Boratory on Education and Digitalization, Dipartimento di Scienze Sociali Università degli Studi di Napoli Federico II – IRPPS-CNR

Danilo Taglietti

Social Researcher @ Università di Napoli Federico II Co-Founder @ tonicadigital.it

big data and education

Nel contesto educativo, se i big data e il digitale fossero farmaci bisognerebbe leggere attentamente le avvertenze, per valutarne oltre alla posologia e alle modalità di somministrazione – anche gli effetti collaterali.

Senza volerli demonizzare o frenarne l’uso per partito preso, occorre sottolineare che un’enfasi eccessiva sui big data rischia di farci perdere di vista la comprensione dei ‘little data’ e di tutti quegli aspetti che, perché non misurabili, vengono considerati poco importanti. Ma la misurabilità, la comparabilità, in un contesto come quello educativo, non è tutto e rischia di avere effetti paradossali. Il rischio è alto.

Che cosa sono i ‘big data’?

A quale liceo conviene iscrivere mio figlio? Quanto è buona l’università a cui vuole vuole andare? Sta tra le top del mondo o, almeno, d’Italia? Basta una classifica, per saperlo. Una tra le tante che continuamente escono sui giornali, che si trovano sui siti internet. Rankings, numeri, indici, metriche: parlare di educazione, oggi, vuol dire non riuscire più a farne a meno. Un vero e proprio diluvio di dati, di misure, di indicatori che permettono ardite comparazioni tra organizzazioni e sistemi educativi, nazionali ed internazionali.

Non si tratta, naturalmente, di una vera e propria novità. L’uso dei dati, nelle politiche sociali ed educative, va di pari passo con la statistica che, lo dice il nome stesso, nasce e cresce come una ‘scienza dello Stato’, il cui compito è contribuire al governo della popolazione. Oggi, però, assistiamo ad un incredibile ‘effetto di scala’: è possibile comparare in modo sistematico praticamente qualsiasi realtà, grazie all’ingresso a pieno titolo dei ‘big data’ nel mondo dell’educazione e, in particolar modo, negli strumenti che lo governano.

Ma che cosa sono i ‘big data’? E in che misura stanno trasformando il modo di fare educazione? La più classica delle definizioni ci dice che i ‘big data’ nascono quando volumi, varietà e velocità nella produzione e nella circolazione dei dati sono crescenti. Sempre più dati, relativi a un numero sempre crescente di processi, vengono generati e conservati, trattati e usati per decisioni sempre più veloci. La stessa esistenza dei ‘big data’, tuttavia, non potrebbe essere possibile se non fosse sostenuta dal convincimento della bontà tout-court dei dati. Si dà per scontato che più dati vogliano dire un miglioramento delle conoscenze e, per questa strada, una rinnovata capacità dell’educazione di raggiungere gli obiettivi che le sono propri.

Si pensa che più dati rendano i processi educativi più visibili e trasparenti. Ma è proprio così? E possiamo dare per scontata una correlazione inevitabile tra visibilità, trasparenza e miglioramento dei processi educativi? Non ci sono controindicazioni, o effetti collaterali all’uso così massiccio di dati?

‘Big data’ and Education

L’espansione dell’uso dei ‘big data’ in education è dovuta, secondo Ben Williamson (Williamson, 2017), essenzialmente a due processi tra loro in relazione: la datificazione e la digitalizzazione.

Per datificazione, spiega Williamson, si intende la trasformazione dell’educazione in dati digitali. Risultati dei test, report qualitativi, streaming di dati da corsi online, etc.: tutto viene digitalizzato e reso in forme numeriche, in modo tale da poter essere ulteriormente analizzato ed elaborato in strutture conoscitive, visualizzabili attraverso tabelle, grafici e immagini.

La digitalizzazione, invece, riguarda la codifica delle pratiche e delle politiche educative in codici e prodotti software, in algoritmi e applicazioni. I due aspetti sono fortemente correlati, cosicché l’uno sostiene l’altro. La digitalizzazione, infatti, avviene in modo che i software educativi siano capaci di generare dati digitali, a loro volta misurabili ed elaborabili. Poi, i dati che scaturiscono da test o da altre forme di valutazione possono essere a loro volta facilmente collezionati in database digitali, che saranno elaborati da altri appositi software e così via.

Datificazione e digitalizzazione

Il nodo veramente cruciale, tuttavia, sta nel collegamento che si istituisce tra datificazione e digitalizzazione: l’operatore della sintesi tra questi due processi, infatti, sta nella standardizzazione delle pratiche educative che segue i principi dell’agenda neo-liberale (Landri, 2018).

Da un lato, la diffusione delle grandi indagini di valutazione internazionale (come il PISA dell’OCSE) ha permesso una crescita esponenziale della disponibilità di dati sull’educazione. Dall’altro, la diffusione del mantra del New Public Management ha orientato la governance dei sistemi educativi verso l’adozione di tecniche e principi che mirano alla ricerca di ‘evidenze’ numeriche in grado di rendicontare ogni attività; in un contesto nel quale la conoscenza è considerata un fattore chiave per la competitività regionale ed internazionale. La Strategia di Lisbona e le sue successive revisioni, infatti, non hanno mai smesso di sottolineare quanto l’armonizzazione ed il coordinamento europeo nel campo educativo fossero necessari per fare dell’Europa il continente più competitivo di tutto il globo, grazie al raggiungimento di obiettivi formativi e di competenze, sempre tradotti in standards e benchmarks.

Scuole, big data e competizione globale

La produzione di ‘big data’, innestata in questa cornice, va modificando in modo significativo le condizioni di possibilità dello spazio educativo, orientandolo in una certa direzione e rafforzandone la dimensione strumentale, il suo essere un mezzo per un fine predeterminato: la competizione economica globale.

Le scuole si stanno trasformando, di conseguenza, in centri per la raccolta di dati che vengono il più delle volte elaborati altrove, su complesse piattaforme informatiche (pubbliche e private). Ci si aspetta che i dirigenti scolastici e gli insegnanti orientino le loro scelte educative sulla base dei dati relativi alle performance degli allievi in relazione agli standard attesi e che adottino, nelle loro pratiche lavorative quotidiane, complessi sistemi di ‘learning management’. Gli studenti, infine, divengono sempre più oggetti e soggetti di rilevazione e di codifica, tracciati nei loro movimenti digitali e nelle loro attività sulle piattaforme online. Quel che tutti si attendono, d’altro canto, è che i policy-makers, i genitori e le aziende usino i big data, gli algoritmi, i software e le applicazioni più diffusi allo scopo di meglio orientare le scelte in materia educativa. Siamo partiti da una cornice di innovazione e sperimentazione creativa per ritrovarci in un paesaggio in cui il controllo è divenuto pervasivo.

Verso un’analisi critica dei ‘big data’ in education

L’analisi di queste trasformazioni, oggi, richiederebbe lo sviluppo di un approccio critico ai ‘big data’ e, più in generale, all’analisi del digitale. Per usare la metafora medica, tanto cara ai fautori dell’evidence-based research: se i ‘big data’ e il digitale fossero ‘farmaci’ per l’educazione, bisognerebbe pur dettagliarne gli ‘effetti collaterali’ (Zhao, 2018)!

Senza negarne l’efficacia, sarebbe opportuno chiarirne la posologia e le condizioni di applicazione. Non tanto – o non solo – per frenarne l’uso, quanto per comprendere in che misura e fino a che punto i ‘big data’ possano effettivamente aiutare ad ottenere una rappresentazione più complessa della pratica educativa.

La sensazione, infatti, è che la cornice attuale stia producendo un effetto opposto: piuttosto che aiutare a restituire ed a gestire un mondo profondamente complesso, sembra che siano vincenti gli effetti di riduzione. Il quadro dominante finisce per porre un’enfasi enorme sulla misurabilità. La misurabilità, pertanto, diventa un valore in sé, cosicché solo quegli aspetti educativi che è possibile misurare vengono presi in considerazione.

Naturalmente, si tratta di una posizione pedagogica peculiare che, peraltro, ignora la dimensione della pratica, nella quale si danno dimensioni dell’esperienza non misurabili, ma non meno importanti dal punto di vista educativo (Biesta, 2015). La pratica dell’educazione, infatti, è fatta non solo di ‘big data’, di confronti con scuole simili e con standard globali, ma anche e soprattutto di ‘little data’: processi dissolti e non quantificabili, di tipo micro, che gli insegnanti imparano ad apprezzare nel corso della loro esperienza professionale.

La corrente concentrazione sui ‘big data’, insomma, sta conducendo a svalutare la capacità e la sensibilità di comprendere i ‘little data’, con effetti paradossali di de-professionalizzazione dell’insegnamento (Meyer, 2017).

‘Big data’ ed educazione: conseguenze anche sul cambiamento climatico

Ci sembra, in fin dei conti, che la cornice dei ‘big data’ disegni confini piuttosto angusti della pratica educativa. Lo hanno fatto notare, di recente, Iveta Silova e Jeremy Rappleye in un post pubblicato sul sito del network internazionale sulle politiche educative NORRAG, in occasione della pubblicazione del report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC).

Il report sollecitava interventi urgenti per scongiurare gli effetti devastanti del riscaldamento globale. L’intervento di Silova e Rappleye richiama l’attenzione sul fatto che se, da un lato, ben scarsa attenzione viene dedicata al ruolo dell’educazione, dall’altro, il modello che comunque vi si privilegia è quello della scuola di massa di tipo occidentale.

Come se questo modello fosse in grado di garantire automaticamente maggiore consapevolezza ambientale! Seguendo la logica delle agenzie internazionali, dalla Banca Mondiale all’OCSE, denunciano i ricercatori, questo approccio abbraccia una versione piuttosto ‘hard’ della teoria del capitale umano e un modello di sviluppo economico illimitato che sembra cieco rispetto alla questione della sua crescente insostenibilità ambientale.

Il mondo dei ‘big data’ è complice di questa cecità, poiché la riproduce! Ad esempio, concentrandosi esclusivamente sulle competenze di literacy e numeracy ed ignorando il ruolo che altre dimensioni possono giocare nel favorire il cambiamento culturale necessario ad affrontare le sfide dell’Antropocene, come i diritti umani, la non violenza ed il riconoscimento delle differenze. Tutto ciò viene dimenticato e sacrificato sull’altare di una apparente comparabilità: nuova divinità madre, che altro non è che l’effetto determinato dai dispositivi di raccolta delle medesime basi-dati (Komatsu & Rappleye, 2017a, 2017b).

Una nuova alleanza tra educazione e ‘big data’

Le limitazioni dei ‘big data’ in educazione sono ben note agli addetti ai lavori. Tuttavia, finiscono per essere ignorate, nel timore che la critica possa inceppare il business as usual. Vi è, difatti, la tendenza a silenziarle, a togliere loro credibilità, al solo scopo di riprodurre la validità della cornice esistente, senza metterla in discussione. I rischi a cui si va così incontro sono, però, piuttosto alti. Nei fatti, si sta perseguendo il disallineamento dei sistemi educativi riguardo ai problemi più rilevanti della nostra contemporaneità. Quel che l’accettazione sic et simpliciter dei ‘big data’ non permette di vedere è che il loro utilizzo illimitato sta producendo una riduzione dello sguardo educativo.

Indirizzarlo solo in una certa direzione induce fortemente a limitarne il perimetro. Ecco perché riteniamo urgente, oggi, affinare gli strumenti della critica, per renderla più adatta all’impatto dei cambiamenti della contemporaneità. Quel che riteniamo sia il momento di fare è lavorare within and against i ‘big data’, contestandone l’applicazione non problematizzata e interrogandoli in modo da comprendere in che misura possano aiutarci a costruire mondi più vivibili dell’educazione.

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BIBLIOGRAFIA

Biesta, G. (2015). On the two cultures of educational research, and how we might move ahead: Reconsidering the ontology, axiology and praxeology of education. European Educational Research Journal, 14(1), 11–22. https://doi.org/10.1177/1474904114565162

Komatsu, H., & Rappleye, J. (2017a). A new global policy regime founded on invalid statistics? Hanushek, Woessmann, PISA, and economic growth. Comparative Education, 0068(April), 1–26. https://doi.org/10.1080/03050068.2017.1300008

Komatsu, H., & Rappleye, J. (2017b). Did the shift to computer-based testing in PISA 2015 affect reading scores? A View from East Asia. Compare, 47, 1–10.

Landri, P. (2018). Digital Governance of Education.. London: Bloomsbury.

Meyer, H. (2017). The limits of measurement: misplaced precision, phronesis, and other Aristotelian cautions for the makers of PISA, APPR, etc. Comparative Education, 53(1), 17–34. https://doi.org/10.1080/03050068.2017.1254981

Williamson, B. (2017). Big Data in Education: The Digital Future of Learning, Policy and Practice. London: Sage.

Zhao, Y. (2018). What Works Can Hurt: Side Effects in Education. New York: Teacher College Press.

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