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Da “essere” a “sembrare”: così l’identità online sostituisce la vita vera



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I social media influenzano profondamente l’identità reale, trasformando la vita in una performance continua dove felicità e bellezza diventano norme da esibire per ottenere riconoscimento sociale

Pubblicato il 11 lug 2025

Eleonora Fornaro

Consiglio Nazionale delle Ricerche Sapienza Università di Roma



social e identità digitale

“A cosa stai pensando?” È l’invito all’apertura della piattaforma blu.
Non era il secolo scorso quando si scriveva ancora di sé su pagine chiuse da un lucchetto.

Dal diario privato alla vetrina pubblica: l’evoluzione dell’identità

Il diario era custode di pensieri, desideri, immagini e parole scritte per non per essere viste.
Oggi, quelle stesse riflessioni si trasformano in status, storie, post: offerte visibili e giudicabili.

Il passaggio dal diario al feed ha cambiato non solo il luogo dove si racconta la propria vita, ma anche il modo in cui la si percepisce. L’identità, un tempo frutto di un’elaborazione intima, è oggi sempre più spesso costruita in dialogo – o in competizione – con uno spettatore permanente.

La ricerca di approvazione: quando l’autenticità diventa un paradosso

La narrazione di sé sui social media nasce come esercizio di espressione personale, ma finisce spesso per piegarsi a logiche di visibilità e approvazione. I social media si propongono di soddisfare bisogni psicologici fondamentali come autonomia, competenza e appartenenza. Tuttavia, quando l’espressione del sé viene mediata dal bisogno di piacere, mostrarsi autentici diventa un paradosso e nella ricerca del consenso altrui ci si allontana dalla propria natura.[1]

Nate per l’intrattenimento, il ruolo principale di queste app è proprio distrarre l’utente, offrendogli una vasta scelta di stimoli sereni per orientare la sua attenzione verso pensieri positivi. Interconnettendo gli utenti, queste reti sociali si basano sulla condivisione di contenuti da parte di creatori che mostrano i lati migliori della loro realtà, ricevendo in cambio un gesto di approvazione pubblica – il like. Questo fattore chiave si instaura come vox populi di ciò che è giusto e bello, insinuando nello spettatore desideri e aspettative su di sé. Alla fine dello scroll, dopo l’inevitabile immedesimazione, arriva il paragone. Lo scontro con se stessi è immediato e distinguere i desideri autentici da quelli acquisiti diventa praticamente impossibile.[2]

L’illusione della felicità: come i social creano aspettative irrealistiche

Ciò che si interiorizza è che bisogna essere in quell’esatto modo – felici e belli. La felicità e la bellezza diventano norme implicite, aspettative collettive da esibire e misurare, che si autoalimentano: “è bello perché è felice, è felice perché è bello”.

Il risultato di questo confronto continuo è che la maggior parte degli utenti percepisce la propria cerchia più felice, più attiva e più appagata. Invece di avvicinarci agli altri, ci ritroviamo isolati in una competizione silenziosa. Questo effetto ottico, alimentato dalla selettività con cui le persone condividono solo momenti ambiti, lascia lo spettatore con un senso di inadeguatezza per la mancata partecipazione alla gioia, schiacciato da un invisibile pollice verso.[3]

L’identità performativa: quando la vita diventa una rappresentazione

Il bisogno di mostrarsi felici diventa quindi una pressione costante, che svuota di spontaneità le esperienze e trasforma la gioia in una prestazione. Il risultato è un’identità digitale coerente, levigata, esteticamente convincente, ma spesso disallineata rispetto alla propria esperienza emotiva reale.

Il desiderio mediato dalla visibilità

La saturazione di format e trend che orientano comportamenti e aspirazioni mette in discussione l’autenticità dei nostri desideri. Ogni gesto – esperienze, proprietà, stile di vita – può trasformarsi in una continua ricerca di appartenenza, modellata su ciò che è stato già visto e approvato.

Il materialismo digitale si basa su questa dinamica: il confronto con l’ostentazione altrui alimenta il desiderio di possesso, nella convinzione che mostrare equivalga ad essere. L’insoddisfazione personale, la fatica, il senso di incompletezza vengono così compensati con atti mimetici – comprare, postare, imitare – in un ciclo in cui il desiderio è sempre già formato, mai veramente scelto.[4]

A rendere tutto più sottile è il ruolo delle piattaforme, che profilano gusti e tracciano pattern comportamentali per suggerire contenuti sempre più aderenti a ciò che “ci piace”. Ma quanto ci piace davvero, e quanto ci è stato fatto piacere? [5]

La paura dell’invisibilità: pubblicare per esistere

La certezza è che non si pubblica più solo per esprimersi, ma per non scomparire. Ogni interazione – un like, una storia, una risposta – diventa un segnale della propria presenza, della propria rilevanza. Quando questa presenza manca, si insinua il timore dell’esclusione. Il silenzio digitale, oggi, può persino risultare sospetto.

Gli effetti sulla salute mentale: ansia, dipendenza e insoddisfazione

Tutti questi fattori contribuiscono a rafforzare il legame tra uso intensivo dei social, calo dell’autostima e riduzione della soddisfazione di vita. Più ci si confronta con contenuti idealizzati, più cresce la percezione della propria inadeguatezza. Il bisogno di validazione, reiterato nel tempo, può trasformarsi in una dipendenza comportamentale difficile da riconoscere ma profondamente pervasiva.[6], [7]

Questi effetti non si limitano all’umore: si estendono alla salute mentale e alla produttività quotidiana, generando uno stato diffuso di affaticamento emotivo. Pubblicare diventa un lavoro invisibile, scandito dalla tensione costante tra il dover esserci e il non sentirsi mai abbastanza.[8]

Un esempio è che il risultato dell’ esposizione anche breve a contenuti contenenti corpi idealizzati ha portato a un incremento significativo dell’appearance anxiety e della body shame, a prescindere dal tipo di prodotto promosso. L’effetto si è rivelato particolarmente marcato in chi tende a valutare se stesso attraverso lo sguardo altrui – un fenomeno noto come self-objectification, specialmente vero per gli adolescenti.

Nomofobia e dipendenza digitale: quando lo smartphone diventa indispensabile

A completare il quadro dell’ansia da prestazione digitale, si aggiunge un fenomeno sempre più diffuso: la nomofobia, ovvero l’ansia di rimanere senza accesso al proprio smartphone.

Questo tipo di dipendenza non è solo tecnologica, ma psicologica e relazionale: il timore di non poter controllare la propria immagine online, di non essere aggiornati o di perdere messaggi, riflette il bisogno costante di conferma e connessione. La dipendenza dal dispositivo diventa, così, un’estensione della performance in cui il silenzio o l’assenza digitale generano un senso di vuoto e perdita di controllo.[9]

Dalla rappresentazione alla conformazione: quando l’identità digitale invade la realtà

Il bisogno di validazione, reiterato nel tempo, può trasformarsi in una dipendenza comportamentale difficile da riconoscere ma profondamente pervasiva che può sfociare in atteggiamenti disfunzionali, come diete estreme, ossessione per l’immagine o ritiro sociale.

A forza di essere curata, selezionata, ottimizzata, l’identità digitale finisce per invadere quella reale. Non si tratta più soltanto di rappresentarsi, ma di conformarsi alla propria immagine online: vivere come si posta, essere come si appare. I social non riflettono ciò che siamo, ma ciò che impariamo a diventare per essere riconosciuti.

Il fenomeno è particolarmente visibile nella cosiddetta selfie culture, che non riguarda solo l’autoscatto, ma la costruzione strategica di un sé coerente e attraente. L’abitudine a postare se stessi influenza la percezione di identità, portando a identificarsi con l’immagine curata e approvata dai follower. L’immagine, da rappresentazione, diventa standard. Questo porta le persone a modificare non solo il modo di raccontarsi, ma anche il modo di vivere, scegliere, relazionarsi, trasformando la loro vita in una continua ricerca del di più.[10]

Verso l’autenticità: recuperare l’invisibile come atto di libertà

Nel tempo, il confine tra narrazione e comportamento si assottiglia. Il feed diventa specchio, poi guida, fino a limitare – spesso senza accorgersene – la libertà di deviare.

Restare fuori da questa dinamica è difficile. I social media non impongono, ma suggeriscono con insistenza, fino a rendere normale ciò che è eccezionale. Il confronto è continuo, e il silenzio – o l’assenza – si trasformano in anomalie da giustificare. In questo sistema, la felicità si misura in esposizione, e la visibilità diventa una forma di esistenza.

Ma non tutto ciò che conta si può postare. E non tutto ciò che appare bello è davvero desiderabile. Apprezzare le proprie imperfezioni, accettare i momenti opachi vuol dire riconoscere il valore della spontaneità e della vulnerabilità; si traduce , soprattutto, nel vivere la vita secondo i propri canoni,[11] a scegliere e accettare i propri ritmi senza che debbano essere costantemente validati dall’esterno. È lì, nel non detto, che si nasconde spesso la parte più autentica di noi.

Riscattare l’invisibile è un atto di libertà, un elogio alla vita che, nella sua effimerità, ha il diritto di essere vissuta autenticamente.

Note

[1] Orie Berezan, Anjala S. Krishen, Shaurya Agarwal, and Pushkin Kachroo, “The pursuit of virtual happiness: Exploring the social media experience across generations,” J. Buisiness Res., vol. 89, pp. 455–461, 2018, doi: 10.1016.

[2] Nazir S. Hawi and Maya Samaha, “The Relations Among Social Media Addiction, Self-Esteem, and Life Satisfaction in University Students,” Soc. Sci. Comput. Rev., 2016, doi: DOI: 10.1177/0894439316660340.

[3] Johan Bollen et al, “The happiness paradox: your friends are happier than you,” EPJ Data Sci., 2017, doi: https://doi.org/10.1140/epjds/s13688-017-0100-1.

[4] Phillip Ozimek et al., “Materialism in social media–More social media addiction and stress symptoms, less satisfaction with life,” Telemat. Inform. Rep., vol. 13, 2024, doi: 10.1016.

[5] Gregory Park et al, “Automatic Personality Assessment Through Social Media Language,” J. Pers. Soc. Psychol., 2014, doi: http://dx.doi.org/10.1037/pspp0000020.supp.

[6] Stoney Brooks, “Does personal social media usage affect efficiency and well-being?,” Comput. Hum. Behav., vol. 46, pp. 26–37, 2015, doi: https://doi.org/10.1016/j.chb.2014.12.053.

[7] Yvonne Kelly et al, “Social Media Use and Adolescent Mental Health: Findings From the UK Millennium Cohort Study,” EClinicalMedicine, vol. 6, pp. 59–68, 2018, doi: 10.1016.

[8] Erik Peper and Richard Harvey, “Digital Addiction: Increased Loneliness, Anxiety, and Depression,” Int. Soc. Neurofeedback Res., vol. 5, pp. 3–8, doi: 10.15540/nr.5.1.3.

[9] Dijle Aya et al, “The Effect of Problematic Internet Use, Social Appearance Anxiety, and Social Media Use on Nursing Students’ Nomophobia Levels,” Contin. Educ., 2018, doi: 10.1097.

[10] Trudy Hui Hui Chua et al, “Follow me and like my beautiful selfies: Singapore teenage girls’ engagement in self-presentation and peer comparison on social media,” Comput. Hum. Behav., vol. 55-A, pp. 190–197, 2016, doi: https://doi.org/10.1016/j.chb.2015.09.011.

[11] MONTROSE M. WOLF, “Social validity: the case for subjective measurement,” J. Appl. Behav. Anal., vol. 11, pp. 203–2014, 1978.

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