Una decisione del Tribunale di Roma su un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata raccontata come uno dei primi casi italiani di “lavoratore sostituito dall’intelligenza artificiale”. Ma la lettura del testo mostra un’altra storia: meno tecnologica, più organizzativa, e per questo più istruttiva.
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Perché il licenziamento e l’intelligenza artificiale non coincidono
Negli ultimi giorni una sentenza del Tribunale di Roma è circolata con titoli e commenti che parlano di “licenziamento legittimo perché sostituito dall’intelligenza artificiale”. Il caso riguarda una graphic designer, inquadrata al IV livello del CCNL Commercio, licenziata nel 2023 da un’azienda attiva nel settore della cybersecurity.
Nel racconto più diffuso, il giudice avrebbe certificato che, se parte del lavoro viene svolto dall’AI, il licenziamento può essere considerato legittimo. Una lettura efficace dal punto di vista narrativo, ma imprecisa dal punto di vista giuridico: soprattutto, non è quella che emerge dal testo.
Crisi e riorganizzazione: cosa valuta il giudice nel licenziamento (non l’intelligenza artificiale)
Una lettura attenta del provvedimento chiarisce un punto centrale: non siamo di fronte a una sentenza “sull’intelligenza artificiale”, ma a una decisione pienamente inscritta nella giurisprudenza ordinaria sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, in cui l’AI compare come elemento di contesto organizzativo, non come causa giuridica del recesso.
La questione, nel provvedimento, non è stabilire se l’AI “possa” sostituire una persona e rendere legittimo il recesso. Il giudice si concentra su ciò che conta nel giustificato motivo oggettivo: la tenuta delle ragioni organizzative addotte dall’azienda e la loro verificabilità. In questa cornice, l’intelligenza artificiale diventa un dettaglio utile per comprendere il contesto, ma non il perno della decisione.
La narrazione pubblica tende invece a condensare in un simbolo unico trasformazioni più complesse. Dire “ti licenziano perché c’è l’AI” è immediato e comunicabile. Ma rischia di invertire l’ordine dei fattori, spostando l’attenzione dalla governance delle scelte e dal disegno organizzativo che le precede.
Crisi e riorganizzazione tra le cause del licenziamento
Il Tribunale di Roma respinge il ricorso della lavoratrice ritenendo legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La decisione poggia su tre presupposti consolidati: prova di una crisi economico-finanziaria, effettività di una riorganizzazione aziendale non pretestuosa e impossibilità di ricollocare la dipendente in altre posizioni disponibili.
I fatti economici e il ridimensionamento delle attività
La sentenza ricostruisce un contesto di difficoltà dell’azienda nel periodo 2022–2023, documentato da riduzione dell’organico, dimissioni e ridimensionamento di attività non ritenute essenziali. In parallelo, emerge una scelta strategica: concentrare risorse e investimenti su due progetti centrali per il core business, entrambi a forte contenuto tecnico.
Coerenza interna delle scelte e nesso con il licenziamento
In questo quadro, la funzione di graphic design viene progressivamente ridotta fino a perdere la propria autonomia organizzativa. Il giudice si muove entro un perimetro ben definito: non valuta l’opportunità delle scelte imprenditoriali, ma la loro coerenza interna, la loro effettività e il nesso causale con il licenziamento.
Repêchage e ricollocazione: il punto decisivo sul piano giuridico
La legittimità del recesso si fonda anche sull’impossibilità di ricollocare la dipendente in altre posizioni disponibili. È un passaggio centrale nella logica del giustificato motivo oggettivo: non basta la riorganizzazione, serve anche dimostrare che non vi siano soluzioni ragionevoli di reimpiego compatibili con l’organizzazione e le mansioni.
Il ruolo dell’AI nella riorganizzazione: presente, ma non decisivo
Nel testo della sentenza l’intelligenza artificiale è citata, ma in modo circoscritto. Viene richiamata come strumento utilizzato dal management per svolgere alcune attività grafiche residue, in un’ottica di contenimento dei costi e accelerazione dei tempi.
Non viene mai qualificata come sostituto diretto della lavoratrice, né come fondamento autonomo del licenziamento. L’AI entra quindi a valle di una decisione organizzativa già presa: la dismissione di una funzione considerata non più strategica. In altre parole, è un elemento di efficientamento, non la causa del recesso. La ratio decidendi resta ancorata a crisi, riorganizzazione e impossibilità di repêchage.
Dalla sentenza al racconto pubblico: come nasce il frame “AI”
Questo punto è cruciale perché segna una distanza netta tra ciò che il giudice afferma e ciò che viene spesso attribuito alla sentenza nel dibattito pubblico. Dalla decisione giuridica alla narrazione pubblica, lo scarto diventa evidente: la sentenza è interessante non tanto per il diritto dell’AI, quanto per il modo in cui parliamo di intelligenza artificiale.
Nei portali giuridici specializzati, il caso viene letto come una conferma dei criteri di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con l’AI citata come uno degli strumenti impiegati nella riorganizzazione. Nei siti divulgativi e nei commenti social, invece, il frame cambia: il licenziamento diventa “perché l’AI fa il tuo lavoro”, e la decisione sembra trasformarsi in un primo via libera giudiziario alla sostituzione dei lavoratori con algoritmi.
Cosa insegna la sentenza sul lavoro che cambia
Letta in chiave prospettica, la sentenza del Tribunale di Roma non dice molto sull’intelligenza artificiale, ma dice qualcosa di rilevante su come il lavoro viene oggi ridefinito nelle organizzazioni. Non è l’AI a determinare il licenziamento, ma la scelta dell’impresa di ridefinire il proprio perimetro, distinguendo tra funzioni considerate centrali e funzioni ritenute accessorie.
In questo processo l’AI agisce soprattutto come acceleratore. Rende più semplice, più rapida e più difendibile una decisione già presa sul piano organizzativo: smantellare una funzione autonoma e gestire ciò che resta in modo più leggero. Attribuire alla tecnologia un ruolo causale significa rovesciare l’ordine dei fattori e spostare l’attenzione dal luogo in cui le decisioni vengono realmente prese.
La vera linea di frattura non passa tra lavoro umano e lavoro automatizzato, né tra creatività e tecnica, ma tra competenze integrate nel core dell’organizzazione e competenze scomponibili, facilmente esternalizzabili o comprimibili. È una distinzione organizzativa prima che tecnologica: riguarda il modo in cui il valore viene costruito e difeso all’interno delle imprese.
Per questo l’AI diventa spesso il bersaglio simbolico di trasformazioni più profonde. Parlare di “lavoratori sostituiti dall’AI” semplifica il racconto, ma rischia di occultare il vero nodo: la governance del cambiamento. Chi decide cosa è centrale e cosa no, con quali criteri e con quali responsabilità, è una questione che precede la tecnologia e che continuerà a riproporsi anche oltre l’AI. In questo senso, la sentenza non anticipa un futuro in cui gli algoritmi licenziano le persone, ma un presente in cui il lavoro viene giudicato sempre più in base alla sua posizione nelle architetture organizzative. Su questo terreno, più che su quello tecnologico, si giocherà il futuro del lavoro.















