Credo ci sia un rumore che non sentiamo più: il silenzio. Ma non perché non ci sia davvero, ma perché non ci stiamo dentro mai abbastanza. Viviamo in una specie di apnea digitale, incollati a notifiche che ci chiamano per nome e ogni giorno partiamo con uno sblocco schermo e finiamo con un refresh.
Scrolliamo la nostra vita, e quella degli altri, come se potesse cambiare qualcosa o come se ci importasse davvero, ma restiamo bloccati in un presente continuamente interrotto, sempre connessi, ovvio, ma esattamente a cosa?
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Il tempo rubato dalla disconnessione digitale
Non è solo questione di tempo online, è questione di tempo rubato a tutto il resto. Secondo il report Digital 2024: Italy, pubblicato da We Are Social e Meltwater su Datareportal, in media trascorriamo più di 6 ore al giorno su internet, mentre il 71% della popolazione italiana (fonte: GWI, tramite Datareportal) è attiva quotidianamente sui social. Occhio perché non sono semplici numeri, ma ore in cui non leggiamo, non camminiamo, non ascoltiamo e, forse, nemmeno mangiamo più con gusto. Sono ore in cui semplicemente non ci siamo. E quindi siamo un paradosso vivente: più siamo raggiungibili, meno siamo presenti.
Interruzioni costanti e calo della concentrazione
Ma il problema non è nuovo ed è arrivato con la diffusione massiccia del digitale, come già nel 2007 diceva una ricerca di Microsoft Research, che rilevava in circa 24 minuti il tempo per ritrovare la concentrazione dopo un’interruzione causata da un’email. E se pensiamo che, secondo le proiezioni dell’Email Statistics Report del Radicati Group, verranno inviati e ricevuti oltre 350 miliardi di email ogni giorno a livello globale, con una media di oltre 100 email ricevute quotidianamente da ogni persona, la frittata si allarga. Ovviamente ci siamo abituati a questo rumore, ma anche se pensiamo di gestirlo meglio e metterci meno di 24 minuti a tornare sul pezzo, il punto resta: non stacchiamo mai davvero. Meno tempo per ritrovare concentrazione, ma più distrazioni. La questione non cambia, e forse peggiora.
La reperibilità continua come fonte di stress
Quindi secondo me la disconnessione non deve più essere solo un lusso per pochi, ma una necessità collettiva. Un cambio di marcia, ma all’indietro. È complicato e faticoso, perché disconnettersi non significa solo mettere in pausa un dispositivo. Significa rifiutare un meccanismo che ci ha convinti che la nostra presenza digitale sia il metro del nostro valore, il pensiero che se non pubblichiamo, non esistiamo; se non rispondiamo, sbagliamo; se non siamo disponibili, deludiamo. Viviamo in vetrina, ci piace, ci soddisfa, ma il cartellino “aperto” non si spegne mai. Quindi ci stressa.
Il paradosso delle app per il digital detox
Purtroppo non ce ne accorgiamo, e come dicevo ci sentiamo soddisfatti di quanto facciamo online, di quanto siamo bravi a essere sempre superattivi e iperconnessi. Una specie di nuova “Milano da bere” dove più si corre e più veniamo riconosciuti come persone di successo. Ma credo sia solo una scusa che ci ripetiamo per non sentirci sopraffatti. Non è un caso, quindi, che nel frattempo siano in crescita le app per il digital detox, un controsenso in piena regola. Paghiamo un servizio per aiutarci a spegnere ciò che non riusciamo a staccare volontariamente, come se ci servisse un intermediario per recuperare il controllo o per fare tap sul pulsante “non disturbare”, o ancora meglio “uso in aereo”. E ci crediamo a questi assistenti per il digital detox, e ne siamo convinti: secondo alcune stime pubblicate da Fundamental Business Insights, il mercato globale di queste app ha superato i 460 milioni di dollari nel 2024 e potrebbe arrivare a 2,5 miliardi entro il 2034, con un tasso di crescita annuo del 18,4%. La domanda non è se abbiamo bisogno di disconnetterci. È se siamo ancora in grado di farlo, da soli.
Strategie personali di disconnessione consapevole
Io ci sto provando. Tengo il telefono in modalità “non disturbare” per molte ore al giorno, ho disabilitato le telefonate in ingresso di qualsiasi numero che non è presente in rubrica, prima di rispondere ai messaggi ci ragiono e valuto l’urgenza. La verità è che, se c’è una comunicazione impellente o qualcuno deve dirci una cosa davvero urgente, troverà il modo di farlo. Anche se siamo in modalità “Concentrazione” sul nostro iPhone.
Sonnambuli digitali: le nuove generazioni iperconnesse
E poi ci sono le nuove generazioni, che stiamo portando nella nostra stessa condizione, ancora prima che sappiano guidare un’auto. E ci raccontiamo che i più giovani siano “nativi digitali”, come se nascere in un mondo connesso garantisse automaticamente la capacità di abitarlo in modo sano, ma nascerci non abilita. Non sono nativi digitali, per me sono “Sonnambuli Digitali”. Usano lo smartphone prima ancora di saper scrivere, scorrono contenuti senza filtri, si formano tra video accelerati, messaggi vocali, app che parlano al posto loro. Non conoscono un prima e non riescono a immaginare un dopo. Perché la mia generazione forse sarà l’ultima ad avere visto i “due mondi”: il walkman, i telefoni di casa con la rotella bloccata col lucchetto, il muretto in cui ci si incontrava senza avvisarci… e no, non è una predica da boomer.
Io non voglio tornare negli anni ’80 fra walkman e partite di pallone in strada. Non ho mai giocato a pallone in strada. Io amo il digitale, ma voglio governarlo, non farmi governare da lui. I ragazzi (e forse anche i bambini) hanno accesso a tutto, ma non capiscono cosa hanno tra le mani, per colpa nostra, ovviamente. Non li abbiamo educati al digitale come spazio da vivere. I più piccoli, poi, ci copiano, ci prendono come esempio e quindi se noi siamo iperconnessi, stiamo normalizzando un comportamento per me insano, che loro emuleranno – con buona pace della loro tranquillità – e lo faranno per sempre. E quindi sì, anche questo è disconnessione: una distanza reale tra la tecnologia che usano e la consapevolezza che non hanno.
Osservazione del disagio nell’era iperconnessa
Ovviamente non sono un medico, né uno psicologo, e non ho titoli accademici per fare diagnosi. Ma avendo la fortuna di vivere da trent’anni dentro il digitale, parlando ogni giorno con persone che non riescono più a staccare, e osservando con occhi aperti e sincerità ciò che accade intorno a me, mi pare che il momento non sia fra i più felici per l’umanità (passatemi l’iperbole). Quello che scrivo nasce da qui: dalla “fortuna” di incontrare tante persone, dall’esperienza sul campo, dai segnali non per forza fisici, dalle problematiche che vedo nella vita quotidiana di chi lavora, comunica, cresce e si forma in un mondo sempre più connesso. Forse dovremo tornare ai modem 56k e a internet con pagamento orario, se vogliamo fare una battuta nostalgica.
Quando lo smartphone diventa protesi emotiva
Ci sono momenti in cui mi accorgo che spegnere lo schermo (sì, lo schermo, perché ormai gli smartphone hanno nascosto pure il comando off) è diventato il più difficile. Non è più solo un dispositivo, è una protesi. Ogni notifica è una piccola dose di presenza che ci fa sentire vivi per un attimo, ogni like un surrogato di relazione che ci illude di contare qualcosa. Ma è un equilibrio che potrei definire tossico, e lo sappiamo benissimo: perdiamo tempo, non è svago. Finiamo per vivere online come dentro una “bit-caverna” segreta.
Il paradosso dell’intelligenza artificiale relazionale
Diciamocelo: invece di spegnerle, cerchiamo connessioni aggiuntive con chatbot, assistenti e intelligenze artificiali. Se pensiamo che, secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, già nel 2024 il 99% degli italiani aveva sentito parlare di AI, il 59% ne aveva un’opinione positiva, ma solo il 17% ne valutava positivamente l’adozione nel proprio lavoro, capiamo subito un altro paradosso. Non ci fidiamo di lei, ma la usiamo. E la lasciamo insinuarsi nei momenti più delicati: consulenze psicologiche, supporti emotivi, ricerca di empatia. In pratica andiamo al contrario. Ci stiamo disconnettendo dagli esseri umani per connetterci con brutte copie digitali.
Non si tratta di demonizzare l’AI, ma di capire perché preferiamo una voce sintetica a una persona vera. Perché non chiede niente? Non giudica? Non delude? Ma forse anche perché non siamo più abituati a confrontarci con la fatica del dialogo reale, con la responsabilità. Così vivere disconnected si complica. Credo sia necessario smettere di cercare relazioni vive da algoritmi per non avere fraintendimenti. Se non accettiamo più nemmeno quelli, cosa resta della comunicazione interpersonale?
Disconnessione come forma di resistenza necessaria
Disconnettersi, in fondo, è avere il coraggio di essere assenti. Non per ignoranza, ma per scelta. Non rispondere, non scrollare, non fotografare l’aperitivo, non pubblicare il bebè nel bagnetto, non rispondere a messaggi di lavoro dopo l’orario concordato potrebbe diventare una forma di resistenza necessaria. E forse non è un caso che le esperienze più autentiche siano anche quelle che non fotografiamo. Un abbraccio ci rende felici anche quando ci pensiamo a distanza di mesi. Un like ci fa godere per dieci secondi – forse tre – ma ce lo dimentichiamo e ne vogliamo subito ancora. Misteri dei padroni del vapore (alias le big tech dei social).
Diritto alla disconnessione: Francia e Italia a confronto
Molti si stanno già muovendo a livello istituzionale. Forse si inizia a capire che stare offline è importante, come in Francia, dove dal 2017 è in vigore il diritto alla disconnessione. In Italia, il dibattito è ancora aperto: il disegno di legge Sensi, annunciato nel 2023 e presentato ufficialmente alla Camera nel 2024, punta a garantire almeno dodici ore consecutive di disconnessione dopo l’orario di lavoro. Una norma che sembra banale, ma da noi è rivoluzionaria. Pazzesco che lo sia, a pensarci bene.
Umanizzare il digitale: dalla teoria all’azione
Alla fine, il vero problema non è la connessione. È cosa ci stiamo lasciando dietro mentre restiamo sempre connessi. La nostra attenzione, certo. Il nostro tempo, ovvio. Ma anche il nostro modo di guardarci, parlarci, toccarci. Abbiamo digitalizzato le relazioni, automatizzato i gesti, appaltato l’empatia a sistemi predittivi. E tutto questo è accaduto senza un vero dibattito, senza freni, senza una pausa di consapevolezza. Come scrivo anche in Digitalogia, il punto non è rendere sempre più digitale l’umanità, ma riuscire finalmente a umanizzare il digitale. Per rimettere l’essere umano al centro. E sì, lo so che ultimamente sembra l’argomento preferito di tutti, la frase fatta buona per ogni occasione, conferenza o webinar.
Chi mi conosce lo sa: per me è sempre stato un approccio fondamentale, e non posso che essere felice che ora stia diventando un mantra. Ma da mantra deve trasformarsi in azione concreta. Oggi. Adesso. Subito.











