Il character design è uno degli aspetti più importanti del videogioco o di qualunque azione narrativa in cui compaiono personaggi (cinema, romanzo, fumetto, …). In base alla sua caratterizzazione, l’utente potrà identificarsi, odiarlo, essere indifferente, ma non potrà non esistere: si può negare la storia ma non un personaggio.
Le possibilità di proiettarsi, secondi connotati emotivi differenti e intensità diverse, sono solo dovute a meccanismi psicologici. “Solo”, per meglio dire.
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Il ruolo del character designer nel videogioco
Ma chi è il designer, prima di procedere con l’analisi di alcuni casi studio? Il Character Designer, normalmente, è una figura a sé, che si trova ad interagire e guidare modellatori 3D o 2D, a seconda dlel tipo di gioco, illustratori, i quali ricavano una immagine statica, una sorta di copertina, dalle indicazioni del designer, animatori, sceneggiatori, doppiatori. Il character designer può coincidere, come anche no, con il concept artist, colui che tratteggia diverse possibilità di sketch, entro cui, infine è il character design a scegliere, definendo ulteriormente specificità e tratti.
Chiaramente in molti studi, soprattutto indie, il character designer svolge più ruoli. È, pertanto, facile che sia anche colui che abbozza il disegno, l’illustratore, il 2D o 3D artist, così come è possibile sia l’animatore. Tuttavia, è bene riconoscere che, per quanto vi sia un solo nome e cognome a ricoprire più ruoli nell’ambito dell’arte figurativa, si tratta di processi diversi e separati, necessitanti experise alternative.
Il potere dei nomi nella letteratura e nei videogiochi
Un altro aspetto fondamentale della costruzione del personaggio è la capacità di vedere al di là. Tutti gli strati psicologici e sociali che pertengono al non-detto. Come si muove e cosa deve comunicare la sua postura, quali gesti, quali espressioni, che storia e che plastismi porta con sé? Sono tutte domande che si pone un designer del personaggio e che trascendono il disegno, entrando nel contesto della letterarura.
Già in altri articoli ho parlato di archetipi femminili nei videogiochi e di come le IA generative rischino di privarci del piacere di caratterizzare un personaggio, lasciando a quest’ultimo l’onere – e l’onore – di autodefinirsi. Ma oggi voglio tornare a un tema che mi sta particolarmente a cuore: il potere dei nomi e delle scelte visive nella costruzione di un personaggio.
Italo Calvino sostiene che sui nomi si potrebbe scrivere un’intera storia della letteratura, benché per lungo tempo il personaggio sia stato tralasciato dalla critica; la nozione stessa di personaggio rappresenta «una di quelle tipiche cose che riconosciamo automaticamente ma di cui non sapremmo mai fornire una definizione univoca e condivisa» (Bertoni, 2007, p. vii). E figuriamoci nel mondo del videogame, in cui una letteratura e una semiotica comincia a profilarsi solo da poco tempo.
Calvino forse è stato il primo a trattare la questione del personaggio, approcciando ad essa in modo storico-critico. Egli ha distinto due filoni: gli scrittori che scelgono nomi anagrafici, quasi casuali, interscambiabili, e quelli che invece attribuiscono ai personaggi nomi carichi di significato, come se attraverso di essi volessero comunicare qualcosa di non detto. È un atto quasi psicomagico, direi, che ricorda le letture junghiane: l’attribuzione di un nome genera un consenso unanime, telepatico, tra autore e lettore. Quel nome diventa un’icona, un simbolo, e tutto ciò che il personaggio dirà o farà d’ora in avanti sarà inevitabilmente connotato da quell’identità.
E nei videogiochi? Beh, anche qui si potrebbe fare un’analisi letteraria della caratterizzazione. In questo primo articolo su tale tema voglio cominciare con due esempi emblematici: Link di The Legend of Zelda e Mario di Super Mario. Due icone del gaming, la cui stella compare nella Walk of Fame di Hollywood assieme a quella di Sonic, ma con approcci diametralmente opposti, per quanto creati dalla stessa mente: Shigeru Miyamoto.
Link come personaggio archetipico e universale
Link, l’eroe muto di Hyrule, è un personaggio volutamente tratteggiato appena. Non parla, non ha una storia personale dettagliata, e il suo aspetto – pur indimenticabile– non ha né un genere netto, veste semplicemente una tunica verde, è biondo e suona vari strumenti a seconda del capitolo. Perché? Perché Link è un “contenitore”, progettato per permettere a chiunque di immedesimarsi. È un eroe universale, un archetipo, che, come nei topoi, trascende la sua stessa identità. La sua presenza silenziosa è un invito a proiettare su di lui le nostre emozioni, le nostre scelte, il nostro senso di avventura.
Le origini di Mario e le esigenze tecniche del suo design
Mario, invece, è l’esatto opposto. È un personaggio iper-caratterizzato, dotato di una storia, un ruolo lavorativo (idraulico, principalmente, ma da buon italiano “uomo rinascimentale” è anche atleta, medico, kart driver…), relazioni familiari (il fratello Luigi, la principessa Peach) e una fisicità inconfondibile.
Il suo look – baffi, cappellino rosso, salopette blu – è immediatamente riconoscibile, anche nel regno vago della pixel art e sempre identico. Mario è un’icona, un personaggio che esiste al di fuori del gioco stesso. Eppure, nonostante questa ipercaratterizzazione, Mario riesce comunque a essere universale. Perché? Perché la sua semplicità visiva e narrativa lo rende accessibile a tutti, dai bambini agli adulti, dai giocatori occasionali agli esperti.
Link e Mario sono entrambi creati da Shigeru Miyamoto, uno dei più celebri game designer della storia dei videogiochi, ma le scelte di design così diverse tra i due personaggi rispondono a esigenze narrative e di gameplay completamente differenti.
Mario nasce nel 1981 con Donkey Kong come un personaggio semplice ma immediatamente riconoscibile. All’epoca, i limiti tecnici degli arcade e delle console imponevano una grafica pixelata e poco dettagliata. Miyamoto ha quindi optato per un design che fosse facilmente identificabile anche in pochi pixel: i baffi per distinguere il volto, il cappellino per evitare di dover animare i capelli, e i colori vivaci (rosso e blu) per farlo risaltare sullo schermo. Mario è un personaggio ipercaratterizzato perché doveva essere un’icona: non solo un avatar per il giocatore, ma un simbolo stesso del gaming. La sua personalità è esuberante, allegra e un po’ goffa, perfetta per un gioco platform che punta sull’azione e sul divertimento puro.
Insomma, la ragione di una scelta identitaria così forte sta soprattutto nel gameplay e, come spiegato, in esigenze grafiche. In Super Mario la trama è presente in modo appena tratteggiato, come tradizione arcade vuole. Al contrario, Link appartiene al genere avventura. In questo contesto la trama, l’esplorazione, la tempistica cambiano, e si fa necessario un percorso empatico di altro tipo: l’eroe archetipale, che, come tale, vince con l’universalità: più essenza e meno identità.
Link e le esigenze di gameplay dell’avventura immersiva
Link debutta infatti nel 1986 con The Legend of Zelda. Qui Miyamoto aveva un obiettivo diverso, come anticipato: creare un’esperienza immersiva in cui il giocatore potesse sentirsi parte di un mondo fantastico, può vivere un’avventura, al di là della frenesia e della tecnica tipica degli arcade. Per questo, Link è stato concepito come un personaggio liscio atto a garantire le proiezioni del giocatore: le ombre cinesi necessitano di un muro poco dettagliato, altrimenti dovrebbero fare lo slalom con le ombre del muro stesso. Link non parla, non ha una storia personale dettagliata (almeno nei primi giochi), e il suo design è volutamente semplice e androgino. Questo permette a chiunque, indipendentemente da età, genere o background, di identificarsi con lui, progredendo insieme a lui. La sua muta presenza non è un limite, ma una scelta precisa per aumentare l’immersione nel mondo di Hyrule.
I pilastri del gameplay e la costruzione del personaggio
Ogni videogame ha almeno tre pilastri entro cui si costruisce storia, gameplay, personaggio. Per Zelda possiamo riassumerli in Esplorazione – Enigmi – Combattimento e progressione. In Super Mario abbiamo Platforming e controllo preciso (nel senso che gameplay ruota attorno a salti e movimenti precisi per superare ostacoli) – Power-up e abilità (Oggetti come Super Fungo, Fiore di Fuoco o Cappello Alato cambiano il modo in cui Mario interagisce con il mondo) – Level design progressivo (I livelli introducono nuove meccaniche gradualmente, insegnando al giocatore senza bisogno di tutorial espliciti).
Questo ci fa capire che la costruzione del personaggio, perché sia funzionale, deve seguire la scia identitaria o quella più archetipica, in Mario non bisogna identificarci, bisogna reagire, in Zelda dobbiamo proiettarci nel contesto, dobbiamo essere l’eroe\eroina, che in maniera immediata ci dica “voi siete buoni, agite così”. In tutti e due i casi dobbiamo rispondere a «che cos’è il personaggio in quanto immagine di una persona possibile?» (Margolin, 1990b, p. 457), ma in Link la persona possibile deve essere il gamer, in Mario è Mario. Insomma, da un lato abbiamo un individuo che ci somiglia (hòmoios), dall’altro un soggetto è in sé credibile (homalòs), nati da esigenze di gioco diverse e soprattutto da esigenze tecniche differenti. In effetti sia Lukács e sia Bachtin avevano ragione: il personaggio è il risultato del dialogo con l’autore, ma anche con le forse storiche e contestuali in cui si trova ad essere.
L’origine del nome Mario e l’aneddoto di Mario Segale
Come un post-scriptum, vorrei concludere questo primo articolo sul design dei personaggi e sulla letteratura del gaming con una postilla circa l’ispirazione da cui è nato Mario. Sembrerebbe che il personaggio sia stato ispirato da un essere umano in carne ed ossa, molto riconoscibile anch’egli, perfetto per fare da riferimento all’icona per eccellenza del videogioco: Mario Segale. In buona sostanza Nintendo era indietro con il pagamento dell’affitto (!), siccome il proprietario, tale Mario Segale, ha accettato, con grande comprensione, la promessa che l’azienda avrebbe presto ripagato i debiti, senza sfrattare la softtware house, in futuro Miyamoto avrebbe omaggiato il signor Mario con il più iconico personaggio di ogni decade.
Bibliografia
Gloria Scarfone, Anatomia del personaggio romanzesco (Carocci, 2024).









