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Non siamo nati per i “Like”: il falso mito dell’evoluzione



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L’idea che siamo “nati per i like” è una scusa comoda che nasconde come i social media siano progettati per creare dipendenza sfruttando deliberatamente i nostri meccanismi cerebrali

Pubblicato il 17 lug 2025

Marco Giacomazzi

Università di Bologna



tasto mi piace (1)

Da un paio di mesi è disponibile nelle librerie americane un testo che racconta la storia del tasto utilizzato per esprimere apprezzamento nel linguaggio del design delle interfacce dei social media.

Il mito evoluzionistico del “mi piace” nel design digitale

Si tratta del “mi piace”, tasto la cui corrispondente operazione è stata poi trasformata, nel nostro linguaggio, in un sostantivo che quantifica l’apprezzamento che singole pubblicazioni, profili o pagine riescono ad accumulare tramite la loro attività di presentazione del sé online. Le pagine dei social media infatti si distinguono in base al numero degli apprezzamenti che ricevono: su Facebook si tratta dei “Mi piace”, applicabili a post individuali e profili delle pagine, mentre su Instagram abbiamo, oltre ai “Mi Piace” che rimangono riservati ai post (con la forma di un cuore), i Follower – non felicemente tradotti con Seguaci.

Le monde est-il astreint à un determinisme rigoreux ou y-a t il un «hasard» irreductible a toute description? René Thom

Il libro che si occupa della storia di questo tasto è Like: The Button that Changed the World, di Martin Reeves e Bob Goodson: si tratta di un testo divulgativo, non accademico, che maschera, sotto un linguaggio accattivante e accessibile, una serie di posture poco convincenti dal punto di vista neuroscientifico e, si vuole sottolineare, anche da quello filosofico. Si tratta infatti di un testo che sostiene, con relativa certezza, che il successo del tasto “Mi Piace” sia da ascrivere a ragioni di stampo evoluzionistico, e che il design del pulsante su inserisca sull’onda lunga dell’evoluzione umana.

Sul ruolo dell’evoluzione – in quanto processo che si distende su migliaia di anni – nel gettare le basi per diverse funzioni inerenti alla nostra fisiologia, vi è poco da dire: non potrebbe che essere così. Siamo quello che siamo anche per merito del nostro percorso evolutivo, e fisiologicamente, siamo il prodotto di processi che trascendono le generazioni e affondano in tempistiche lunghissime. Anche sul fatto che alcune scelte di design siano costruite appositamente per sfruttare le caratteristiche del nostro sistema percettivo non si può discutere: se ne parlerà in seguito. Anzi: è proprio questo il punto in cui il nostro discorso si fa critico.

Ciò che si vuole mettere in discussione è l’utilizzo strumentale dell’evoluzione – ma anche di scienza, neuroscienze, e tutti i saperi che riguardano la mente e i suoi meccanismi nascosti all’esperienza – per proporre delle soluzioni ai limiti del tecnoentusiasmo o per sottintendere che specifiche scelte di design siano il risultato di una progettazione infallibile: quella della Natura. Se sosteniamo che “non ci siamo evoluti per mettere like” è perché le funzioni fisiologiche che il design delle piattaforme sfrutta per diventare un mezzo di comunicazione egemonico non sono orientate a un fine, ma hanno diversamente svolto delle funzioni che hanno garantito, per ragioni diverse, un successo evolutivo. Se ci fossimo evoluti per mettere like, allora vorrebbe dire che siamo anche “cablati” per l’esposizione, apprensione, assimilazione ed elaborazione di una quantità straordinaria di informazioni in tempistiche molto strette: caratteristica che piattaforme come quelle dei social media progettano e prevedono, producendo conseguenti stili di fruizione dei contenuti mediali che di naturale non hanno nulla.

I due elementi – la nostra predisposizione biologica e il funzionamento di un artefatto – seppur presentino una relazione, non possono essere messi in continuità diretta, a meno che non si esplicitino alcuni fattori fondamentali che lavorano, in concerto, per collegarli: non si tratta solo del design – a cui forse viene affidata ancora troppa responsabilità (cfr. Lorusso 2023), ma anche del contesto in cui queste tecnologie emergono.

Natura e cultura: oltre la falsa dicotomia nel determinismo biologico

Si prenda ad esempio l’estratto del libro pubblicato sul Wall Street Journal, intitolato “Humans Evolved to Like ‘Likes’. The thumbs-up icon became the most used feature on social media by tapping into our deepest psychological instincts”. In questo passaggio è evidente come sia in azione quella che Gallese, Moriggi e Rivoltella ricordano essere una “seduzione neuroimmaginativa” (2025 : 9) ossia la percezione che il ricorso a fMRI (tecnologie di neuroimmagine che permettono di mappare le aree del cervello coinvolte in determinate attività) aumenti il grado di credibilità o di attendibilità di un testo.

Riduzionismo evoluzionistico e naturalizzazione delle piattaforme digitali

Tra la “spiegazione naturalistica” relativa alle dinamiche che sottostanno all’efficacia di uno specifico artefatto tecnologico e la “naturalizzazione delle dinamiche di piattaforma” intercorre una storia che attraversa la filosofia novecentesca, lo scandalo Sokal e le accuse volte in più di una occasione ai postmodernismi; le cosiddette Science Wars, la Querelle du determinisme (cfr. Amsterdamski 1990) e una sorta di eterno ritorno dello stesso, incessante dibattito che cerca di opporre la contingenza culturale alla necessità naturale.

Da una parte e dall’altra, per decenni, scienziati – sociali e di ‘scienze dure’ – hanno perseguito in malafede uno scontro tra “natura” e “cultura”, riproponendo lo stereotipo dell’incomunicabilità tra le “due culture” – quella umanistica e quella tecnico-ingegneristica – dimenticando la polisemia intrinseca al termine scienza. Questa mossa però si basa su un errore, ossia quello di considerare i saperi umanistici e quelli relativi alle ‘scienze dure’ come appartenenti a mondi incomunicabili, e non come due progetti complementari – dal punto di vista epistemologico – che pur perseguendo domande e obiettivi di ricerca diversi possono cooperare in maniera efficace per aumentare il nostro livello di comprensione del mondo e delle sue dinamiche (cfr. Latour 2004).

L’uso filosofico e ideologico dell’evoluzionismo

È chiaro che, se ci si aspetta dalle scienze sociali l’adozione di metodi affini a scienze ‘dure’ come la biologia e la fisica, allora le si considererà immediatamente dei progetti antiscientifici[1]; allo stesso tempo, nel momento in cui la filosofia cerca al di fuori dei suoi campi gli strumenti per giustificare i suoi metodi – come succede quando si utilizza la fisica quantistica per giustificare diverse forme di relativismo – allora la stessa scienza cosiddetta “umana” fa uno scarso favore a se stessa, rinunciando all’argomentazione e alla costruzione di una buona teoria – quella che in semiotica si considererebbe una teoria ‘marcata’ – in favore di una legittimazione agli occhi di chi si situa al di fuori della sua comunità di discorso.

            Al centro di questa querelle vi sono molti concetti, oltre a quello di casualità e di indeterminazione; ad esempio quello stesso di evoluzione – nel senso di processo di modifica dei tratti genetici inerenti a una specie – o di storia – alla quale, se si vuole, si può provare ad attribuire una direzione, una finalità, un senso. Su questo, Martinelli (2025) ha recentemente provato ad approfondire il tema in ambito semiotico, occupandosi di una competenza che si colloca specificamente a cavallo tra due mondi, l’alfabetizzazione o literacy.

            Queste premesse servono a introdurre un tema complesso e articolato, ossia l’utilizzo dell’evoluzionismo come explanandum – quindi criterio definitorio, elemento che ci fornisce una spiegazione – di fenomeni sociali, individuando nelle strategie evolutive un ‘argomento’ che serva a costruire una posizione all’interno di un dibattito. Non si tratterà di evoluzionismo in sé, quanto degli usi che ne vengono fatti da un punto di vista filosofico per promuovere posizioni anche molto diverse tra loro. Ciò che si vuole criticare in questa sede è infatti l’uso ingenuo dell’evoluzionismo da un punto di vista argomentativo, mossa che lascia il fianco scoperto a una serie di problemi più ampi e di natura più intrinsecamente politica.

A poco infatti serve ribadire che gran parte della comunità scientifica abbia da tempo superato le insidie della lettura ingenua del darwinismo per accogliere le posizioni di Gould (1979; 1982): quest’ultimo piace molto a chi è interessato alle genealogie nicciane poiché ha mostrato come l’evoluzione, in diverse specie, lungi dal rispettare un processo di selezione orientata a un fine, altro non è che un processo di aggiustamenti e incontri felici, un insieme di riutilizzi inaspettati di mezzi meccanici – l’exaptation –, spogliandola così di ogni teleologia. La lettura di Gould ha fornito ai filosofi un argomento che, in maniera contrapposta all’uso ingenuo dell’evoluzionismo, emancipa la storia da un fine che è probabilmente un retaggio culturale e teorico di stampo idealistico, che ha permeato non solo la scienza, ma anche la ricezione di teorie come quella di Darwin.

Riduzionismo biologico e deresponsabilizzazione dell’individuo

Purtroppo però nel dibattito pubblico si continua a parlare di “selezione” naturale come se si postulasse l’esistenza di una Natura dotata di una ragione o, ancora più ingenuamente, di una direzione. Il modo più corretto di parlare di Natura sarebbe invece quello per cui questa si configura come un piano di immanenza dotato di molteplici livelli di lettura e analisi, molteplici livelli di realtà, collegati tra loro da rapporti che sono a volte strettamente causali, a volte semplici correlazioni, altre volte giustificati da un punto di vista storico ed epigenetico. Tutto è Natura, e attribuirle una causalità, una ragione o un ruolo nelle nostre faccende è un limite umano, troppo umano.

La lettura evoluzionistica del ‘Like’

Un esempio dell’uso ingenuo dell’evoluzionismo ci è offerto proprio dalla lettura di Martin Reeves e Bob Goodson. I due – rispettivamente il presidente del BCG Henderson Institute (un think tank del Boston Consulting Group), e il presidente e fondatore di Quid, una società di analisi visiva – tendono infatti a semplificare e a rendere accessibili a un pubblico generalista delle ricerche neuroscientifiche e sociologiche complesse, con il rischio di omettere tanto alcune sfumature cruciali quanto le cautele metodologiche che sono invece ben conosciute dal pubblico cui sono orientati gli studi originali

Per esempio, gli autori riportano tra le loro fonti uno studio della neuroscienziata Lauren Sherman (et al. 2016) che individua un’associazione tra i “Mi piace” e l’attivazione di aree cerebrali legate alla ricompensa. Questo studio parla con estrema attenzione di possibili meccanismi di correlazione e si concentra sullo studio di dinamiche inerenti all’influenza tra i pari, piuttosto che postulare una direzione dell’evoluzione verso i “Mi piace”. È ben diverso sostenere che, in maniera strategica, il design di uno strumento vada a sfruttare la nostra eredità genetica per massimizzarne l’utilizzo, rispetto a sostenere che la nostra natura è quella che ci porta a mettere in pratica determinati fenomeni sociali. È uno spostamento della responsabilità, dell’agency, verso un fattore universale e immutabile – il nostro corredo genetico – sollevando invece organi collettivi da ogni responsabilità e possibilità di un cambiamento.

Su questo ci si permette di soffermare un attimo: si è ben consapevoli che gli autori del testo non intendano in alcuna maniera articolare una proposta filosofica che proponga delle tesi a proposito della storia soggiacente ai ‘Mi Piace’: questo esula dagli obiettivi, puramente commerciali, del libro. Ciò che si sta mettendo a scrutinio in questa sede non sono le intenzioni degli autori empirici, quanto la forma della teoria che soggiace a frasi o argomenti spesso eccessivamente semplificati, o che usano in maniera strumentale argomenti scientifici.

Un esempio ci è proprio fornito dall’argomento che spiega il successo del tasto tramite la tendenza umana all’apprendimento sociale – e quindi all’omofilia – e alla gerarchia mite: “All this explains why we have evolved to get such a buzz from liking and being liked”. Il punto, probabilmente ignoto agli autori del testo, è che è proprio l’apprendimento sociale a permetterci di emanciparci dal disegno semplicistico che delineerebbe una direzione dell’evoluzione, facendo intervenire elementi contingenti – come la tecnica – nel percorso evolutivo umano (come insegna la preziosa lezione storico-antropologica di Leroi-Gourhan).

Questa semplificazione, apparentemente innocua, apre la strada a una potenziale fallacia, quella della spiegazione evoluzionistica diretta per artefatti culturali complessi e recenti. Se infatti non è solo plausibile, ma altamente probabile che il pulsante “Mi piace” sfrutti predisposizioni evolutive generali – come la sensibilità alla ricompensa sociale, la necessità di appartenenza o i meccanismi di apprendimento osservativo –  affermare altrimenti che gli esseri umani si siano “evoluti per apprezzare i ‘Mi piace'” rappresenta un salto logico che nasconde una filosofia implicita, quella della naturalizzazione della storia, che Roland Barthes – in altri contesti e con altri esempi – avrebbe chiamato Mitologia (1957).

I “Mi piace” sono un’invenzione tecnologica specifica, emersa in un contesto culturale e temporale ben definito: sostenere che affondino in meccanismi evoluzionistici è quasi un’ovvietà al pari di dire che le pubblicità erotizzanti sfruttino il meccanismo evolutivo della riproduzione per vendere lingerie. Per economia argomentativa – oltre che onestà intellettuale – non bisognerebbe appellarsi a un livello universale, che riguarda tutti e tutte, per dare delle spiegazioni relative a specifici fenomeni sociali, a meno che non ci si inserisca in un discorso più complesso.

Inoltre, sarebbe necessario sottolineare come l’evoluzione biologica operi su scale temporali immensamente più vaste e che la “selezione” di tratti o di predisposizioni generali non avvenga in maniera attiva, secondo una volontà calata dall’alto, ma in maniera residuale, permettendo la sopravvivenza a chi manifesta comportamenti adattativi o a chi – secondo il modello dell’exaptation, presenta un riuso – spesso imprevisto – della propria dotazione biologica.

Design digitale e deresponsabilizzazione: i rischi del riduzionismo biologico

Approfondiamo ora il rischio correlato al confondere l’adattamento di una tecnologia – il cui sviluppo segue dinamiche sociali (Pinch; Bijker 1987) e non è limitato alla semplice efficacia – con predisposizioni umane preesistenti. Come già anticipato, la direzione di questo argomento rischia di condurci a sottovalutare la responsabilità sociale che sottende a una specifica progettazione, uno specifico design, realizzato con lo scopo di capitalizzare su funzioni radicate nel nostro sistema percettivo.

 Questo tipo di argomentazione, se non debitamente contestualizzato, può condurre a una forma di determinismo biologico ingenuo riguardo alle nostre interazioni con la tecnologia, quasi che le nostre reazioni alle interfacce digitali fossero inevitabili e interamente cablate dalla nostra storia evolutiva. Su questo ad esempio non possiamo essere d’accordo: in che maniera l’utilizzo di tecnologie che costruiscono degli spazi alternativi a quelli che abbiamo abitato per secoli – spazi, appunto, digitali – dovrebbe essere il risultato di una progettazione biologica? È proprio la tecnica, nel suo procedere eterogeneo e contingente, a dimostrare che la forma non evolve secondo un criterio o un principio, ma è il prodotto di continui processi di individuazione (cfr. Simondon 1964) che coinvolgono un insieme di finalità che a sua volta costituisce un campo aperto e indeterminato. La tecnologia (un insieme di discorsi sulla tecnica) raccoglie un potenziale tecnico ma anche un potenziale di senso – e quindi narrativo, dove la storia coincide con molte storie – e la sua innovazione non può essere spiegata in termini di efficacia, ma analizzata (come il libro di Reeves e Goodson in parte fa) nei suoi aspetti materiali, sociali, organici e tecnici, senza prevedere la priorità di uno di questi ambiti sugli altri, ma analizzando il processo continuo di scambio tra elementi interni all’individuo tecnico ed elementi ad esso esterni, secondo processi di stabilizzazione e mutamento.

La presentazione di una spiegazione prevalentemente biologica per il successo di una caratteristica chiave dei social media, se accettata acriticamente, può servire a legittimare e “naturalizzare” il design e l’impatto di tali piattaforme, oscurando così una serie di condizioni storicamente determinate che non possono non essere prese in considerazione nello studio di fenomeni sociali.

È necessario sottolineare che non si stanno qui criticando le tesi scientifiche in sé o la validità di alcuni strumenti diagnostici e di analisi che riguardano specifici modi di esistenza (cfr. Latour 2012). Sicuramente esistono ricostruzioni riduzionste in grado di illuminare accadimenti storici sotto nuovi rispetti, e sicuramente lo studio scientifico del rapporto tra meccanismi di ricompensa e design delle piattaforme ci può dare degli strumenti per affrontare clinicamente alcuni casi di patologie legate alla dipendenza verso determinati servizi digitali. Tuttavia, l’adozione di una postura di questo tipo potrebbe anche portarci a sottovalutare gli strumenti che abbiamo a disposizione per richiedere una modifica nel modo in cui ci relazioniamo alle tecnologie, o in cui organizziamo la società.

Ciò che si sta criticando in questa sede è l’ideologia, nel senso di discorso che maschera le proprie contraddizioni (Eco 1975), che soggiace a questi riduzionismi: questa forma di ideologia è molto più pericolosa della deliberata e trasparente adozione di una posizione partigiana in un dibattito, perché maschera una lettura della realtà sotto l’egida della necessità scientifica, riducendo le posizioni contrarie ad essa ad antiscientismi o postmodernismi.

Se, quindi, si vuole criticare una certa lettura naturalizzante del design non è per rifiuto degli strumenti neuroscientifici o per adottare una postura che nega l’importanza dell’evoluzione, quanto per una volontà di sottoporre la tecnologia all’analisi di quelle scelte progettuali deliberate, finalizzate al raggiungimento di specifici obiettivi economici, come l’incremento del coinvolgimento (engagement) e la massimizzazione dei profitti pubblicitari, che sottostanno a specifici contesti discorsivi.

L’enfasi sulla “biologia fondamentale” – “It’s just not possible for something to become so popular without connecting with something fundamental in our biology” – può distogliere l’attenzione dalle responsabilità etiche e politiche dei progettisti e dei gestori delle piattaforme, e fornire un’arma in più a quella pericolosa ideologia, quell’alone di neutralità che permea le piattaforme e scarica tutta la responsabilità di complessi fenomeni sociali sull’individuo, singolo utilizzatore, scollegato da un corpo sociale abitato da valori, idee, narrazioni, temi e figure ricorrenti.

Se l’approccio riduzionista implicito nella posizione di Reeves e Goodson tende a presentare l’utente come un soggetto passivamente reattivo a stimoli (i “Mi piace”) che attivano meccanismi biologici interni predeterminati, esistono alcune prospettive inerenti al dibattito delle scienze cognitive contemporanee che permettono di suggerire un quadro differente, che riassegna all’utente una agency radicata nella biologia e nell’esperienza.

Si tratta, ad esempio, della prospettiva della Mente Estesa (cfr. Clark 2008) che ci permette di pensare all’utente come qualcosa di diverso da un mero recettore, ma come un soggetto che co-costruisce attivamente la sua esperienza digitale attraverso l’interazione continua e dinamica con lo strumento – in questo caso la piattaforma.

Queste posizioni fanno proprie alcune consapevolezze evoluzionistiche, come il riconoscimento del vantaggio adattativo derivante dalla capacità di “esternalizzare” parte del carico cognitivo sull’ambiente, o di utilizzare risorse ambientali per potenziare le proprie capacità cognitive. Tale estensione renderebbe l’organismo più flessibile, efficiente e capace di affrontare sfide complesse. Da queste considerazioni, si può inferire che il vero vantaggio evolutivo umano potrebbe non risiedere tanto in adattamenti specifici a stimoli particolari (come l’ipotetica evoluzione “per” i “Mi piace”), quanto nella meta-plasticità del nostro cervello: si tratta della capacità intrinseca di creare, utilizzare e integrare strumenti – siano essi materiali, simbolici o, come nel caso delle piattaforme digitali, socio-tecnici – per risolvere problemi, navigare complessi paesaggi sociali e modificare l’ambiente stesso.

Il “Mi piace”, in questa luce, non è più il fine di un processo evolutivo mirato, ma uno strumento che la nostra plasticità evolutivamente acquisita ci permette di integrare (con tutti i suoi rischi e benefici) nelle nostre pratiche cognitive e sociali estese. Questo sposta l’attenzione dalla ricerca di ipotetici “moduli del Mi piace” nel cervello alla comprensione di come le nostre capacità cognitive generali, flessibili e plastiche interagiscano con diverse affordances (gli inviti all’uso) offerte dalle tecnologie digitali.

Queste affordance, si è sostenuto recentemente (Giacomazzi 2025), non sono affatto dei veicoli naturali di una manipolazione necessaria: si tratta di un tipo specifico di segni che, per compulsione, attirano la nostra attenzione su porzioni specifiche del nostro campo percettivo, chiedendoci di essere interpretate e trasformando delle salienze potenziali in pregnanze (su questo, cfr. Caravà 2018). Se questo permette di farle emergere – sfruttando appunto la loro forza indicale – rispetto a uno sfondo, caratterizzandole come inviti all’uso, le dimensioni di questo uso sono poi attraversate da una molteplicità di linee di forza e di tendenza che non possono essere ridotte al riconoscimento di funzioni o all’elaborazione di informazioni subpersonale.

La presenza di affordance all’interno di interfacce che mediano la nostra comunicazione in ambienti digitali, infatti, non ci dice nulla – se non permetterci di individuare una ulteriore dimensione di negoziazione del significato – sul senso dei testi (nel senso ampio del termine per come viene utilizzato in semiotica: porzioni di mondo investite di un significato e manifestate attraverso diversi linguaggi) cui noi possiamo accedere in questi contesti.

Con questo non si vogliono separare le dimensioni dell’interpretazione testuale da quelle dell’interazione del supporto come se fossero autonome tra loro, ma riconoscere che esattamente come le scienze cognitive distinguono una knowledge-how da una knowledge-that, la nostra esperienza di fruizione dei media digitali è attraversata da molteplici modi di esistenza, che coinvolgono tanto l’esperienza incarnata dell’utilizzo di uno strumento quanto il repertorio culturale di competenze pragmatiche che ci permettono di comunicare e muoverci all’interno di mondi narrativi e possibili (cfr. Eco 1979).

Se le azioni umane, incluse quelle mediate dalle piattaforme digitali – come l’uso compulsivo dei “Mi piace” o la partecipazione a dinamiche di odio online – sono viste come il prodotto inevitabile di meccanismi biologici interni (come potrebbe suggerire un’interpretazione riduzionista degli studi fMRI sull’attivazione delle aree di ricompensa), allora la responsabilità individuale per tali azioni può apparire diminuita: anzi, ci si può avvicinare a una pericolosissima accettazione di ciò che esiste – in quanto fondato in regole scritte biologicamente – senza lasciare spazio ad alternative motivate, ad esempio, da preoccupazioni etiche e politiche.

Si potrebbe quasi configurare una sorta di “alibi scientifico”, dove l’individuo è percepito come agito da forze biologiche interne che sfuggono al suo controllo.. Questo scenario si connette alla critica all’individualismo riduzionista (Sayer 2005; Murphy, Brown 2007), che da un lato attribuisce agli individui la sola responsabilità del loro carattere e destino (ignorando i condizionamenti sociali), e dall’altro, nella sua forma deterministica, può negare ogni forma di agenzia significativa, riducendo l’individuo a un mero prodotto di forze esterne (sociali) o interne (biologiche).

Allo stesso tempo, è necessario riconoscere come un soggetto esteso si fa carico di una serie di linee di tendenza dell’essere (cfr. Eco 1997) la cui manipolazione è limitata. Se da un lato infatti non possiamo considerare le affordance come elementi di un mondo che possiede una significazione inerente (cfr. Mattozzi 2006) o che ci manipolano seguendo una dimensione che in semiotica si chiama fattitiva (Deni 2002), allo stesso tempo dobbiamo evitare di sostenere che i Soggetti che utilizzano una tecnologia siano in tutto e per tutto in grado di sovvertirne le caratteristiche o di piegarne il senso ai propri scopi.

Un approccio che affronta questi temi su un caso di studio complesso come quello della violenza – nello specifico la violenza sessuale – mediata da strumenti digitali è quello di Striano (2024), che ad esempio distingue i livelli di responsabilità individuale dei singoli utenti, distinta ma collegata con la responsabilitàsociale che individua le cause dei fenomeni nei quadri sociali, culturali e politici in cui siamo inseriti, a sua volta distinta da unaresponsabilitàtecnologica che individua proprio nel design un potenziale di de-responsabilizzazione degli utenti, favorendo una specifica percezione del proprio operato, delle relazioni che intratteniamo con altri, o del loro agire.

Verso una neuro-etica del design digitale oltre il determinismo biologico

Si vuole quindi concludere sostenendo come, nella prospettiva di una semiotica o di una filosofia della tecnologia, sia necessario aspirare, più che a un neuro-riduzionismo, a una neuro-etica complessa delle piattaforme digitali. Questo approccio dovrebbe integrare la ricerca neuroscientifica con una profonda comprensione delle implicazioni per l’autonomia individuale e collettiva, la qualità del dibattito democratico e il benessere umano complessivo.

Questo richiede di considerare l’utente non come un insieme di risposte neurali da “hackerare” o da stimolare passivamente, ma come un agente incarnato, esteso e situato, che interagisce attivamente con un ambiente socio-tecnico complesso e già significato politicamente. Per fare ciò, è indispensabile superare le semplificazioni riduzioniste e adottare prospettive teoriche più olistiche e interattive, come quelle offerte dalla teoria dei modi di esistenza, dalla Mente Estesa, e dall’approccio semiotico alla co-costruzione del significato per negoziazione. Si tratta di chiamare in causa teorie supportate da argomentazioni evolutive che tuttavia valorizzano la plasticità e la capacità di accoppiamento con l’ambiente, piuttosto che tratteggiare una serie di adattamenti specifici a stimoli recenti.

Queste teorie permettono di concepire l’utente non come un passivo recettore di stimoli biologici, ma come un agente che co-costruisce la propria esperienza digitale, e ci permettono anche di comprendere l’interazione uomo-piattaforma nella sua totalità. Solo così possiamo immaginare un utilizzo diverso, più equo, delle tecnologie della comunicazione, individuando le linee che potrebbero guidare la progettazione di queste ultime verso fini che abbiano come orizzonte l’uguaglianza e la giustizia sociale.

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[1] In tal senso sono in malafede progetti come il podcast Citation Needed, in cui campi del sapere di tipo umanistico orientati alla riflessione politica e alla messa in discussione di alcuni dogmi del pensiero sono presentati come ridicoli o antiscientifici.

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