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“Febbre da like”, è ora di limitare i danni: ecco cosa fanno i social

Con i social l’umanità si è addentrata in strade poco conosciute e di dubbia utilità: che sia arrivato davvero il momento di invertire la rotta, o almeno di raddrizzarla? Ecco quello che stanno facendo Facebook, Twitter & Co. per limitare i danni

Pubblicato il 18 Dic 2019

Andrea Millozzi

Blogger & Maker, HiTech Lover

selfie - dismorfia digitale

Instagram, Facebook e Twitter stanno testando nuove modalità per calmierare la febbre da like e da visualizzazioni: una mossa che costerà qualche punto percentuale nel bilancio degli utili.

E allora perché lo fanno? Forse perché qualcosa li spaventa più delle potenziali perdite: cose come il cyberbullismo, il dilagare delle fake news e il conseguente burnout degli utenti.

I social e la febbre da like

Pensate al modo compulsivo con cui, che sia giorno o notte, prendete in mano lo smartphone per controllare i like al post che avete pubblicato sui social: pensate ora alla sensazione di delusione che ricevete quando vi accorgete che “non sono abbastanza”. Oppure pensate alla gioia che provate quando sono molte le persone che guardano le vostre stories. Al contrario, pensate al vostro sconcerto quando non ricevete nessuna interazione nonostante i vostri sforzi per “farvi notare”.

Ecco, già questi esempi dovrebbero chiarire, in parte, come ci stanno “riprogrammando il cervello” senza che ce ne rendiamo conto: attraverso una serie di processi basati su studi approfonditi effettuati sul funzionamento del cervello umano, fatto di punizioni e ricompense, i social agiscono sul nostro stato d’animo, per influenzare la nostra interazione e condizionare quindi le nostre volontà, a nostra insaputa.

A ribadire, e a confermare, questa ipotesi, che sembra tanto l’inizio di un film di fantascienza, sono le stesse persone che hanno contribuito a far nascere i social network.

Ad esempio, lo stesso Sean Parker, presidente di Facebook agli esordi della compagnia e pezzo grosso dei business della Silicon Valley, inventore di Napster, una volta disse: “Solo Dio sa cosa sta succedendo al cervello dei nostri piccoli” aggiungendo di essere contrario al modo in cui, a suo avviso, la piattaforma che ha contribuito a creare, sfrutta le “vulnerabilità della psicologia umana” e modifica così “la relazione di un individuo con la società e con gli altri”.

E non è l’unico a pensarla così: anche un altro ex manager del social network fondato da Mark Zuckerberg, Chamath Palihapitiya, ex responsabile per la crescita degli utenti di Facebook, si è scagliato in passato proprio contro la creatura che aveva contribuito a costruire. Nel corso di una lezione alla Business School di Stanford, Palihapitiya ha detto di sentirsi “tremendamente colpevole” per come agisce Facebook. “Penso che abbiamo creato strumenti che fanno a pezzi il tessuto della società e il modo in cui funziona” ha spiegato, puntando appunto sui temi della coerenza sociale, della solidarietà e anche della riflessione e del modo di ragionare. In quel frangente ha invitato i laureati presenti a “prendersi una pausa” da quella, come da altre piattaforme, mettendo in evidenza come a guidare le nostre azioni online siano oggi la dopamina e la logica ciclica secondo cui siamo spinti ad agire, inseguendo “cuori, like e pollicioni”.

Parola d’ordine, limitare i danni

Insomma, a quanto pare i social network non sono solo divertimento, spensieratezza e un modo per stare in contatto con i nostri amici e familiari: per come sono stati strutturati, rappresenterebbero anche una possibile “minaccia”. Ma è proprio così? La questione è dubbia: di certo però, c’è che proprio le maggiori piattaforme Social si sono attivate per “limitare i danni”.

Dopo la grande sbornia dei like e delle impression, pare che le principali piattaforme di social media inizino a preoccuparsi di questo “incendio”, tanto da tentare di gettare acqua sul fuoco, iniziando a testare cambiamenti che riducano la febbre da consenso. La novità introdotta da Instagram di non rendere più visibile il numero di consensi conquistato da ogni foto pubblicata, è forse il più eclatante di questi correttivi.

Ma i provvedimenti che le piattaforme stanno testando hanno inevitabili ricadute. Innanzitutto per chi, influencer o aziende, fonda il proprio successo proprio su questo tipo di conteggi. Ma a temere un impatto importante sulle proprie attività multimiliardarie sono anche le stesse società di social media.

Eppure i test di rimozione dei conteggi avviati in Canada, Australia, Giappone, Italia e Brasile devono aver sortito risultati positivi visto che Instagram ha deciso di estendere la stessa operazione sulla sua piattaforma forse più difficile, gli Stati Uniti, come  ha dichiarato il capo di Instagram, Adam Mosseri, nel corso di un evento di Wired.

Nel frattempo Facebook non rimane a guardare: ha iniziato a lanciare un test simile per nascondere i conteggi del pubblico sulla sua piattaforma in Australia già lo scorso settembre.

Come mai i big delle piattaforme social si sono decisi a così miti consigli, dopo aver cercato per anni di stimolare l’engagement degli utenti con sempre nuove funzionalità, tipo l’aumento delle emoticon di reaction, l’esposizione dei like o l’uso di colori più luminosi per attirare gli utenti su più immagini?

L’allerta dei ricercatori e la risposta dei social

E’ presto detto: deve essere stata decisamente convincente l’allerta lanciata da alcuni ricercatori, secondo i quali queste tattiche hanno portato a un uso eccessivo nei social media e potrebbero avere avuto un impatto complessivo negativo sulla salute e sul benessere degli utenti. Con tanto di cause plurimiliardarie che si profilano minacciose all’orizzonte.

Avreste mai immaginato un massiccio impegno di Twitter nell’implementazione di una serie di test per motivare gli utenti a impegnarsi in modo più positivo e ridurre le molestie e il bullismo on line? Secondo Buzzfeed News: “Twitter farà il suo debutto in una serie di esperimenti volti a darci una calmata, motivandoci sottilmente a usare il tweet-quote, la risposta e il retweet in modi non distruttivi”. L’obiettivo è dissuadere gli utenti da comportamenti aggressivi o irresponsabili, come diffondere fake news e  disinformazione ritwittando troppo rapidamente.

Nemmeno YouTube pare dormire sonni tranquilli: recentemente ha aggiornato i suoi termini per avere più discrezionalità sugli account e decidere quali chiudere, che ciò possa o meno causare danni alla piattaforma. All’inizio di quest’anno ha apportato modifiche al modo in cui visualizza i conteggi degli abbonati in tempo reale, bloccando i siti di terze parti che avevano trasformato la metrica in uno spettacolo di gloria e vergogna per i creatori di contenuti di celebrità.

Perché è scattato l’allarme rosso

Non si tratta esattamente di filantropia o generosità. L’allarme rosso è scattato nel momento in cui è diventato evidente che l’ambiente ad alto coinvolgimento creato dalle piattaforme social sta portando al burnout di molti utenti.

In uno studio dell’Associated Press-NORC Center for Public Affairs Research, il 60% degli adolescenti intervistati afferma di fare di tanto in tanto delle pause volontarie dai social media, e quasi un quarto di questi dice di farlo perché stanco di situazioni drammatiche e conflittuali.

Certo, l’operazione “acqua sul fuoco” non è a costo zero. L’avviso agli investitori delle grandi società di social media è giunto forte e chiaro: gli investimenti in test per la salute e il benessere degli utenti potrebbero avere un impatto importante sui profitti. Tempo fa Twitter ha confermato che gli esperimenti in corso faranno lievitare i costi operativi del 20% nel corso dell’anno fiscale. E quando Facebook ha ridotto i post delle compagnie e dei marchi nei feed di notizie degli utenti nel 2018, il CEO Mark Zuckerberg ha dichiarato che l’uso complessivo di Facebook è diminuito di “circa 50 milioni di ore al giorno”.

Il fatto è che il bullismo online è diventato un tema veramente “pesante” nel dibattito pubblico internazionale. Indubbiamente i big dei social devono aver avvertito un aumento della pressione pubblica in tal senso. Lo stesso Evan Spiegel di Snapchat ha a lungo criticato il sistema dei “Mi piace” sui social media, che avrebbe indotto alla diffusione di fake news e altri contenuti fortemente divisivi. Tanto è vero che Snapchat non ha mai incluso alcun tipo di conteggi di like pubblici nella sua app.

Le conseguenze dell’austerity

Se la tendenza all’austerity dovesse continuare, come ne sarà influenzato il panorama? Cosa faranno i milioni di influencer e aziende online che fondano tutta o gran parte della loro fortuna sui like e sui follower? Howard Mittman, CEO di Bleacher Report, che gestisce molti degli account più popolari su Instagram, non sembra troppo preoccupato: “I Mi piace sono solo una piccola parte del modo in cui valutiamo e monitoriamo il coinvolgimento attraverso i nostri social, – afferma – anche se mi rendo conto che alcuni membri della comunità di influencer e micro-influencer possano essere danneggiati da questa evoluzione, in particolare quelli che hanno ottimizzato e/o acquistato follower esclusivamente basandosi sull’uso dei like come metrica significativa.” Ma indubbiamente le big company dei social stanno entrando in un futuro più imprevedibile per i propri profitti e quelli delle aziende che dipendono da loro.

Solo un altro modo per monetizzare?

Recentemente l’intervista de Le Iene a Laura Bononcini, responsabile dei rapporti istituzionali e degli affari regolamentari di Facebook per il Sud Europa, ha messo l’accento su un aspetto alternativo (e controverso) di tutta la vicenda: le è stato chiesto se la mossa di togliere le informazioni relative alle statistiche non sia solo a causa dello scopo dichiarato di venire incontro alle esigenze degli utenti, ma se invece non servisse più all’azienda per diventare l’unico possessore di queste preziose informazioni, che un domani potrebbero essere cedute dietro lauto compenso. Un altro modo per fare soldi con i Like insomma. La risposta, come ci si poteva aspettare, è stata: “assolutamente no!”.

Personalmente, mi ha fatto molto riflettere l’aver sentito alcune adolescenti dire che, dopo aver postato una foto su Instagram, se questa non riceve un numero “adeguato” di interazioni in breve tempo, la eliminano per evitare una “pubblica umiliazione”.

Sono rimasto sconcertato, perché questo comportamento conferma le preoccupazioni: se non si sta attenti, i Social possono realmente causare danni, soprattutto se ad usarli sono i più giovani, quelli senza il necessario bagaglio culturale e psicologico, quelli che si affacciano al mondo, mettendosi in vetrina, e che rischiano di venire affossati a causa di uno striminzito numero di “like”.

A quanto pare con i social l’umanità si è addentrata in strade poco conosciute e di dubbia utilità: che sia arrivato davvero il momento di invertire la rotta, o almeno di raddrizzarla?

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