voto e disinformazione

L’IA manipola le elezioni: urge un’autorità globale anti-deepfake



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L’intelligenza artificiale generativa sta ridefinendo il panorama della politica, minacciando la trasparenza informativa e la democrazia. Le sue implicazioni vanno ben oltre la disinformazione, rivelandosi come una minaccia alla legittimità elettorale

Pubblicato il 22 lug 2025

Federica Giaquinta

Consigliere direttivo di Internet Society Italia



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Nel volgere di un ciclo storico che ha visto la modernità farsi garante di un’architettura politica fondata sul consenso informato e sulla trasparenza deliberativa, l’irruzione dell’intelligenza artificiale generativa nello spazio pubblico segna una cesura epocale che incrina non soltanto i presupposti ontologici della rappresentanza democratica, ma ne riformula in profondità le coordinate epistemiche, rendendo il principio di autodeterminazione informata un simulacro teorico in balia di una tempesta cognitiva incontrollabile.

La disinformazione generativa nelle campagne elettorali

Il dato empirico, corroborato dall’evidenza documentaria e investigativa, palesa come la tecnologia generativa, disancorata da vincoli etici e normativi coerenti, abbia assunto una funzione di disarticolazione strutturale dei meccanismi tradizionali della formazione dell’opinione pubblica, sovvertendo con algida precisione gli equilibri tra informazione, disinformazione e manipolazione in un’epoca in cui la verità è divenuta bene negoziabile, fabbricato e diffuso con la stessa nonchalance con cui si addestra un modello linguistico autoregressivo.

Una dinamica che è stata brutalmente messa a nudo dal New York Times in una recente inchiesta che ha documentato con rigore come nelle settimane precedenti al voto europeo e alle tornate elettorali in India e Sudamerica, si siano moltiplicate — in maniera coordinata e mirata — campagne di disinformazione politica alimentate da contenuti generati da intelligenze artificiali.

Tali contenuti, nella forma di video manipolati, finti post social attribuiti a candidati reali, dichiarazioni sintetiche mai pronunciate, immagini fotorealistiche di eventi mai accaduti e perfino interviste “false” confezionate con sintesi vocale avanzata, sono stati creati per insinuarsi nei circuiti virali delle piattaforme digitali, sfruttando i bias cognitivi delle masse e accelerando polarizzazioni già latenti.

Casi concreti di manipolazione elettorale con intelligenza artificiale

Particolarmente significativo il caso romeno, in cui un video generato artificialmente, attribuito a un leader dell’opposizione e diffuso nelle ore immediatamente precedenti al voto, ha diffuso falsità sul presunto coinvolgimento del partito in trame di corruzione internazionale, alterando in modo irreversibile la percezione collettiva e condizionando l’esito elettorale.

Analogo lo scenario indiano, dove migliaia di clip falsificate sono state diffuse nei dialetti locali attraverso applicazioni di messaggistica end-to-end, rendendo impossibile qualsiasi smentita centralizzata, in Germania e Polonia, invece, il Times ha evidenziato come sofisticati modelli di IA generativa siano stati impiegati per creare chatbot politici realistici, in grado di interagire con gli elettori, carpire opinioni, e reindirizzare il consenso, camuffando l’origine automatizzata della comunicazione.

L’intelligenza artificiale come attore politico autonomo

Ciò che emerge, in tale delicato scenario, è che l’assunzione dell’intelligenza artificiale quale attore politico autonomo, diventa pertanto capace non solo di incidere nella competizione elettorale, ma di mutarne i presupposti, falsificare le dinamiche di legittimazione del potere e, in ultima istanza, disarticolare le fondamenta stesse della sovranità democratica in nome di un potere algoritmico opaco, decentralizzato e transnazionale.

A rigor di logica, diventa chiaro che l’elemento giuridicamente perturbante non risiede, dunque, nella mera difficoltà di sanzionare il deepfake o di censurare la disinformazione generativa, bensì nella dislocazione della responsabilità in una rete inestricabile di produttori, propagatori e piattaforme, in cui la riconducibilità soggettiva del danno si dissolve nel paradigma del “nessuno è colpevole e tutti sono responsabili”, generando una frattura irreparabile nel principio della imputabilità soggettiva del diritto penale e civile.

L’inadeguatezza del diritto positivo nell’era digitale

In tale contesto, il diritto positivo – sia esso ancorato ai presidi del GDPR, del Digital Services Act o del regolamento AI dellUnione – mostra la propria strutturale inadeguatezza, fungendo da placebo normativo privo della capacità effettiva di governare un fenomeno che evolve con logiche e velocità incompatibili con la cadenza deliberativa delle istituzioni democratiche.

Lillusione della compliance algoritmica, alimentata da policy aziendali formalmente restrittive ma sostanzialmente inefficaci, si sgretola dinanzi all’evidenza di piattaforme che, per interessi economici e logiche di engagement, hanno ben poco incentivo a limitare la viralità del falso e ancor meno a istituire meccanismi trasparenti di accountability, ed è proprio in questa opacità sistemica che si innesta la crisi politica contemporanea, nella quale l’intelligenza artificiale non è più semplice strumento dell’umano, ma co-autrice del discorso politico, generatrice autonoma di narrazioni, artefice di realtà fittizie che condizionano comportamenti collettivi con efficacia superiore a ogni propaganda novecentesca.

La tecnogenesi del consenso e l’erosione della democrazia

Si assiste, così, per la prima volta, alla tecnogenesi del consenso: non più costruito attraverso mediazione razionale, ma prodotto, predetto e diretto da modelli probabilistici che apprendono le fragilità cognitive dell’elettorato, le accentuano e le sfruttano in una spirale performativa autoalimentata e la democrazia, da progetto di razionalità condivisa, si tramuta in teatro interattivo manipolato da entità senza volto, la cui accountability sfugge ai criteri della giurisdizione territoriale e della soggettività giuridica tradizionale.

Ripensare la democrazia nell’era post-verità

È quindi in tale contesto che si impone una riflessione radicale sulla legittimità stessa del processo elettorale nell’era post-verità.

Quando l’intenzionalità del voto è viziata da contenuti sintetici e inautentici, l’esito dell’elezione può ancora dirsi espressione della volontà popolare? O piuttosto si configura come effetto collaterale di un processo persuasivo algoritmico che converte la libertà in predittività? L’idea che la democrazia rappresentativa possa sopravvivere inalterata all’onda d’urto dell’IA generativa appare, nel migliore dei casi, ingenua.

È invece tempo di ipotizzare scenari di mutazione del paradigma democratico, in cui la deliberazione collettiva non si fondi più soltanto sul diritto all’informazione, ma sulla garanzia epistemica della sua autenticità: occorre, in tal senso, immaginare una nuova architettura costituzionale digitale, in cui la tutela dell’ecosistema informativo divenga principio sovraordinato e l’integrità cognitiva degli elettori sia tutelata come bene giuridico fondamentale, alla stregua della libertà personale.

Verso una nuova architettura costituzionale digitale

In tale contesto, infatti, il giurista non può più limitarsi a invocare nuovi divieti o regole più stringenti: deve farsi interprete di una riformulazione della cittadinanza in chiave cognitiva, dove il diritto non sia mero reattivo a una tecnica che precede e sorprende, ma proattivo generatore di spazi di autonomia e discernimento, si profila allorizzonte una giurisdizione dellinfosfera, un diritto planetario della verità condivisa, in cui gli Stati, le piattaforme e le entità sovranazionali siano chiamati a un patto di corresponsabilità etica per la preservazione dell’atto democratico come evento deliberativo autentico, ed è così che la posta in gioco diventa alta e trascende l’effimero ciclo elettorale dove il rischio non è solo quello di elezioni truccate, ma di popoli illusi, identità digitali sovradeterminate e sovranità sostituite da calcolo predittivo.

E forse non è più così utopico immaginare, accanto alle Corti costituzionali e ai Parlamenti, una nuova figura istituzionale: il Garante globale della verità, ente di vigilanza indipendente dotato di poteri transnazionali, capace di presidiare i confini tra realtà e artificio, di certificare la genuinità del discorso pubblico, di sottrarre l’opinione dalla tirannide dell’algoritmo: che la democrazia del XXI secolo debba fondarsi anche su un diritto alla realtà autentica, codificato come diritto fondamentale, appare oggi non solo auspicabile, ma necessario.

Il futuro non si gioca solo nei voti, ma nelle informazioni che li precedono, li orientano e li costruiscono: la sovranità digitale passa per la sovranità cognitiva e quest’ultima, se abbandonata all’intelligenza artificiale senza regole, sarà la prima ad andare perduta.

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