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Prevenire la violenza di genere sul lavoro: strumenti e strategie



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La violenza di genere sul lavoro riflette disuguaglianze sistemiche che persistono nonostante i progressi normativi e culturali

Pubblicato il 1 ago 2025

Franca Terra

Giornalista, Comunicatore pubblico



violenza di genere sul lavoro

La violenza di genere nei luoghi di lavoro è da tempo riconosciuta come un fenomeno sociale complesso, che si manifesta in un contesto in cui le relazioni di potere sono fortemente strutturate lungo linee di genere, classe, etnia e status lavorativo. La sociologia del lavoro e la sociologia femminista hanno contribuito in modo determinante a evidenziarne la dimensione sistemica, distinguendo tra episodi isolati e contesti di normalizzazione culturale della violenza.

Definizione di violenza e molestie di genere

Il sociologo Pierre Bourdieu affermava che le disuguaglianze di genere si riproducono attraverso una “violenza simbolica”, ovvero un dominio esercitato non con la forza fisica ma tramite l’imposizione di significati, ruoli e aspettative che appaiono naturali o inevitabili. Questo concetto si traduce, nel mondo del lavoro, in stereotipi che legittimano la minore presenza femminile in ruoli apicali e la maggiore tolleranza nei confronti di comportamenti molesti.

La violenza di genere sul lavoro, dunque, non è riducibile a un comportamento individuale deviante, ma va letta come un dispositivo di controllo sociale, funzionale al mantenimento di equilibri gerarchici fondati sulla asimmetria di genere. Per la sociologa Judith Butler, il genere è una performance reiterata all’interno di un regime di verità sociale, che legittima l’inferiorizzazione dell’altro.

In tale prospettiva, le molestie non rappresentano un’anomalia, ma un indicatore del grado di istituzionalizzazione della discriminazione. La loro presenza sistematica in determinati settori (sanità, servizi alla persona, ristorazione) riflette una combinazione di fattori culturali e organizzativi: la marginalizzazione delle donne nei ruoli di potere, la precarietà contrattuale, la scarsa formazione e il deficit di meccanismi di tutela. Catharine MacKinnon, attraverso uno studio tra i più citati nella giurisprudenza statunitense, ha definito la molestia sessuale come “un’espressione dell’ineguaglianza strutturale di potere tra uomini e donne nei luoghi di lavoro”, che tende a rendere il corpo femminile uno spazio esposto alla negoziazione forzata e alla coazione simbolica.

La costruzione di ambienti di lavoro equi e sicuri non può prescindere da una riflessione collettiva sui meccanismi invisibili della disuguaglianza.

Asimmetrie di potere e stereotipi nei contesti lavorativi

La violenza e le molestie nei luoghi di lavoro rappresentano un fenomeno strutturale e diffuso, che colpisce in maniera sproporzionata le donne e le persone in condizioni di vulnerabilità. La Convenzione n. 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), adottata il 21 giugno 2019, ratificata in Italia il 29 ottobre 2021 ed entrata in vigore il 29 ottobre 2022, ha fornito per la prima volta una definizione globale e condivisa di “violenza e molestie nel mondo del lavoro”, comprendendo in modo esplicito la violenza di genere.

Secondo l’art. 1 della Convenzione, per violenza e molestie si intendono: “una serie di comportamenti, pratiche o minacce inaccettabili, sia che si manifestino una sola volta o in maniera sistematica, che mirano, provocano o sono suscettibili di provocare danni fisici, psicologici, sessuali o economici”. All’interno di questa categoria rientrano le molestie di genere, intese come: “violenza e molestie dirette contro persone per via del loro sesso o genere, oppure che colpiscono in maniera sproporzionata le persone di un particolare sesso o genere, includendo le molestie sessuali”.

La Convenzione introduce anche un’importante innovazione concettuale, ampliando la nozione di “luogo di lavoro” a ogni spazio fisico o virtuale in cui si realizza una relazione lavorativa: dai luoghi di produzione agli spazi pubblici e privati, dal tragitto casa-lavoro alle comunicazioni via email e social network. Tale estensione riflette la complessità delle dinamiche lavorative contemporanee e riconosce che la violenza può manifestarsi anche al di fuori degli orari e dei contesti formali.

La violenza di genere sul lavoro si caratterizza, quindi, per l’intreccio tra asimmetrie di potere, ruoli gerarchici e stereotipi di genere, che trovano terreno fertile in contesti professionali ancora fortemente maschilizzati e segnati da modelli culturali discriminatori. Sul punto è intervenuta Adriana Cavarero, che attraverso un saggio, in cui rilegge alcune figure femminili dell’antichità per denunciare le disparità di genere e le dinamiche patriarcali, ha evidenziato come il soggetto del discorso pubblico e razionale è storicamente maschile; la donna, esclusa dalla produzione del linguaggio filosofico e simbolico, si trova a parlare di sé attraverso un linguaggio “altro”,che la rappresenta secondo codici patriarcali.

Dati, silenzi e nuove forme di invisibilità

In questa cornice, la definizione di molestia va oltre la dimensione fisica o sessuale, includendo forme più sottili di aggressione verbale, isolamento, controllo, squalifica, anche attraverso strumenti digitali. Si tratta di comportamenti strutturalmente normalizzati, che trovano difficilmente riconoscimento giuridico o sanzione concreta, anche a causa della difficoltà delle vittime a denunciare, spesso per timore di ritorsioni o di non essere credute.

La Convenzione OIL 190, insieme alla Raccomandazione n. 206 che ne accompagna l’attuazione, afferma chiaramente che la violenza e le molestie non sono una questione privata, ma una violazione dei diritti umani e un ostacolo alla dignità, all’uguaglianza e alla giustizia sociale nei luoghi di lavoro. Essa chiama gli Stati membri a sviluppare, in collaborazione con le parti sociali, misure integrate di prevenzione, monitoraggio e sostegno alle vittime.

Tuttavia, l’effettiva implementazione della Convenzione richiede uno sforzo culturale e normativo importante, specialmente nei paesi dove le gerarchie di genere sono ancora radicate nei modelli organizzativi.

Nonostante la crescente attenzione istituzionale e scientifica sul tema della violenza e delle molestie di genere nei luoghi di lavoro, i dati disponibili restituiscono un quadro incompleto e spesso sottostimato della reale portata del fenomeno. A livello europeo, l’ultima indagine condotta dal 2020 al 2024 e promossa dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali (FRA), ha rivelato che una donna su tre ha subito molestie sessuali almeno una volta nella vita, e una donna su sei nell’UE ha subito violenze sessuali, tra cui lo stupro, in età adulta, una donna su cinque è stata vittima di violenza fisica o sessuale da parte del partner, di un parente o di un altro componente della famiglia e una donna su tre è stata vittima di molestie sessuali sul luogo di lavoro. Tuttavia, la violenza nei confronti delle donne rimane spesso invisibile in quanto solo una donna su quattro denuncia i fatti alle autorità (la polizia, oppure i servizi sociali, sanitari o di sostegno).

Anche i dati nazionali confermano la natura pervasiva e strutturale del problema. Secondo l’Istat, nel 98% dei casi di molestie l’autore è un uomo, e nel 75% dei casi la vittima è una donna. Tuttavia, questi numeri, già allarmanti, devono essere letti tenendo conto del cosiddetto “paradosso del silenzio”: una distorsione sistemica nella rilevazione del fenomeno dovuta alla scarsissima propensione alla denuncia da parte delle vittime. Le ragioni di questo silenzio sono molteplici: paura di ritorsioni, timore di non essere credute, colpevolizzazione, minimizzazione sociale, isolamento, nonché mancanza di fiducia nei confronti delle istituzioni o delle strutture aziendali preposte alla tutela.

Questo paradosso, come rilevato anche nella letteratura femminista e nella criminologia critica, rappresenta un ostacolo epistemico e politico: non solo ostacola la formulazione di politiche efficaci, ma finisce per reinserire la violenza in un regime di invisibilità, rafforzando la narrazione della sua eccezionalità anziché della sua quotidianità.

I dati INAIL pubblicati nel febbraio 2025 confermano una crescita degli infortuni sul lavoro riconducibili ad aggressioni, soprattutto nei confronti delle donne. L’incremento si registra in particolare in settori ad alta esposizione al pubblico, come sanità, assistenza sociale, commercio e trasporti. L’analisi evidenzia inoltre che il rischio di subire molestie o aggressioni è significativamente più alto per le donne migranti e per le lavoratrici con contratti atipici.

In particolare, nel 2023 sono stati registrati 6.813 infortuni derivanti da aggressioni e violenze, un aumento dell’8,6% rispetto al 2022. Tuttavia, l’incremento non è stato uniforme tra i generi: le lavoratrici hanno subito un aumento del 14,6% delle aggressioni, mentre il dato per i lavoratori maschi è cresciuto solo del 3,8%. Questi numeri confermano che le donne sono esposte a un rischio significativamente maggiore di subire episodi di violenza sul lavoro.

Una lettura settoriale dei dati evidenzia che il personale sanitario e assistenziale rappresenta la categoria più colpita, costituendo oltre il 44% delle vittime femminili. Seguono le insegnanti della scuola primaria (5,1%) e le impiegate postali (4,7%). È un risultato coerente con la natura del loro lavoro, che comporta una relazione diretta e spesso delicata con utenti, pazienti o alunni, che può degenerare in episodi di aggressione.

Le disaggregazioni territoriali del dossier INAIL mostrano inoltre una maggiore frequenza di denunce nel Nord Italia (circa il 60%), rispetto al Centro e al Mezzogiorno, ambedue attestati intorno al 20%. Questa variabilità geografica potrebbe rispecchiare differenze nell’organizzazione territoriale dei servizi, nelle normative regionali o nella predisposizione delle vittime a segnalare tali episodi.

La rilevanza del problema emerge anche dal peso percentuale che queste aggressioni hanno sugli infortuni totali femminili verificatisi sul lavoro: il 5,3% dei casi riconosciuti dall’INAIL è attribuibile ad aggressioni o violenze, una percentuale significativa soprattutto se confrontata con l’incidenza complessiva degli infortuni sul lavoro. Ciò conferma come le aggressioni costituiscano una componente strutturale della percezione di rischio di genere e non episodi isolati o marginali.

L’analisi evidenzia un’ulteriore dimensione di vulnerabilità: le donne con contratti atipici o in condizioni socio-economiche precarie denunciano un’incidenza di violenze più alta, testimoniando un’intersezione tra genere, condizione contrattuale e origine etnica o territoriale. Questa correlazione rafforza l’importanza di trattare la violenza sul lavoro come fenomeno poliedrico e stratificato.

In conclusione, i dati INAIL 2025 non solo confermano l’esistenza di una tendenza in crescita delle aggressioni sul lavoro, ma sottolineano con evidenza che le lavoratrici sono statisticamente più esposte e gravemente colpite. La distribuzione settoriale, territoriale e demografica delle aggressioni orienta infine la riflessione verso politiche preventive mirate e misure di protezione differenziate.

Tuttavia, i modelli di raccolta e classificazione dei dati non sono ancora in grado di cogliere la multidimensionalità del fenomeno: le molestie verbali, i comportamenti sessualmente allusivi, le pressioni psicologiche e i ricatti economici tendono a sfuggire alle statistiche ufficiali perché raramente denunciati e difficilmente riconosciuti come atti di violenza. A ciò si aggiunge l’insufficiente formazione del personale preposto alla ricezione e alla gestione delle denunce, che contribuisce a mantenere bassi i tassi di segnalazione e ad alimentare un clima di impunità.

Il “paradosso del silenzio”, quindi, non è solo un fatto statistico, ma una questione politica e culturale, che interroga la qualità democratica delle istituzioni, il funzionamento delle organizzazioni e la capacità delle norme di farsi spazio nella quotidianità dei rapporti di lavoro.

Molestie e violenza: quando il luogo di lavoro diventa pericoloso

La violenza nei luoghi di lavoro non si esaurisce nelle sue manifestazioni fisiche o sessuali più eclatanti, ma include forme più sottili e pervasive, spesso normalizzate nei contesti organizzativi. Si tratta di dinamiche che minano quotidianamente il benessere psicofisico delle lavoratrici, producendo effetti su carriera, salute mentale e qualità della vita. Possono assumono forme plurime e interconnesse, che vanno ben oltre l’aggressione fisica. La Convenzione OIL n. 190, stabilisce che tali fenomeni comprendono “un insieme di comportamenti e pratiche inaccettabili o minacce, che mirano, causano o sono suscettibili di causare danno fisico, psicologico, sessuale o economico”, inclusa la violenza di genere.

Le principali forme di violenza si possono distinguere in:

  • verbale, come insulti, apprezzamenti sessisti o minacce;
  • fisica, tramite contatto non consensuale, aggressioni;
  • psicologica, attraverso intimidazione, isolamento, denigrazione;
  • sessuale, sotto forma di avances, ricatti, contatti indesiderati;
  • digitale, con messaggi, e-mail o contenuti inappropriati veicolati attraverso strumenti informatici o social network.

Tali manifestazioni possono presentarsi singolarmente o in forma combinata, assumendo un carattere sistemico e reiterato che incide profondamente sulla salute delle vittime. L’INAIL, nella pubblicazione “La valutazione dei rischi in ottica di genere”, dello scorso anno, ha sottolineato che la violenza sul lavoro è trasversale a tutti i contesti occupazionali e può manifestarsi in spazi comuni, durante trasferte, attività sociali o contatti con il pubblico.

L’uso crescente delle tecnologie ha inoltre dato origine a forme di molestie digitali (cybermolestie), che si esprimono attraverso messaggi offensivi, minacce via email, o pressioni via social media. Questi episodi, sebbene spesso sottovalutati, rappresentano una nuova frontiera di invisibilità della violenza, poiché si inseriscono in ambienti lavorativi sempre più ibridati e decentralizzati.

Accanto alle forme manifeste di violenza, esistono modalità subdole e persistenti che operano sotto la soglia della visibilità e sono spesso tollerate o legittimate nel tessuto organizzativo. Si tratta di fenomeni definiti nella letteratura giuridica e psicologica come:

  • mobbing: condotta sistematica di vessazione e ostilità finalizzata a danneggiare, isolare o espellere una persona dal contesto lavorativo;
  • straining: pressione lavorativa discontinua, non sistematica ma comunque debilitante, posta in essere con effetti lesivi durevoli;
  • bossing: forma di mobbing esercitata da superiori gerarchici come strumento di controllo, punizione o esclusione.

Tali dinamiche producono gravi conseguenze sulla salute mentale e fisica delle vittime: ansia, insonnia, depressione, attacchi di panico, fino a disturbi psicosomatici e sindromi post-traumatiche da stress. L’INAIL e l’Agenzia europea Eu-Osha (2023) documentano la connessione tra molestie psicosociali e patologie come ipertensione, emicranie, gastriti e disturbi muscoloscheletrici.

Tuttavia, non tutte le vittime hanno la stessa possibilità di reagire o denunciare: il contesto relazionale e l’asimmetria di potere possono contribuire a cronicizzare la condizione di subalternità e dolore.

A questa tipologia di violenze si aggiunge il fenomeno dello stalking – tecnicamente denominato come “atti persecutori” – che può manifestarsi anche in ambito lavorativo, in forma relazionale, gerarchica o orizzontale, e che travalica spesso lo spazio fisico dell’ambiente di lavoro per estendersi alla vita privata e digitale delle vittime. Lo stalking è definito all’art. 612-bis del Codice Penale come: “[…] chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita […]”.

Nel contesto lavorativo, può assumere le forme di pedinamenti all’uscita dal luogo di lavoro, telefonate continue, invio ripetuto di email e messaggi, tentativi di contatto invadenti o pressioni sessuali. In molti casi, l’ambiente organizzativo non riconosce tempestivamente il rischio persecutorio, specie se esercitato da colleghi, superiori o clienti e tende a derubricarlo a conflitto interpersonale.

Nel contesto della Convenzione di Istanbul – ratificata dall’Italia con legge n. 77/2013, lo stalking è esplicitamente riconosciuto come una forma di violenza di genere e uno strumento di controllo, coercizione e dominazione. La Convenzione sottolinea inoltre che le istituzioni pubbliche e private, comprese le imprese, devono attivare meccanismi di prevenzione e risposta nei confronti delle molestie e degli atti persecutori.

Come evidenziato anche dalla letteratura sociologica, il carattere cumulativo e persistente dello stalking rende questa forma di violenza altamente invisibile, ma devastante: essa non solo intacca la salute mentale della persona, ma la costringe a riorganizzare la propria vita in funzione della fuga, dell’evitamento o del silenzio, generando isolamento e perdita di opportunità lavorative.

Una questione strutturale: stereotipi, segregazione, impunità

La violenza di genere nei luoghi di lavoro non è un fenomeno accidentale, ma affonda le proprie radici in una strutturale disuguaglianza sistemica tra uomini e donne nel mercato del lavoro. Tale disuguaglianza si esprime soprattutto nelle forme della segregazione orizzontale e verticale, che contribuiscono a determinare la maggiore esposizione delle donne a condizioni di precarietà, dipendenza gerarchica e vulnerabilità organizzativa.

Segregazione orizzontale e verticale: le donne nei ruoli più esposti

La segregazione orizzontale si manifesta nella concentrazione femminile in determinati settori lavorativi, spesso caratterizzati da bassi salari, ridotta protezione contrattuale e maggiore contatto con il pubblico (sanità, istruzione, servizi alla persona). Questi contesti espongono le lavoratrici a un rischio elevato di aggressioni, sia da parte di utenti esterni sia all’interno delle dinamiche professionali. La segregazione orizzontale è alimentata da stereotipi di genere che associano le donne a ruoli di cura, supporto e assistenza, in una logica che riproduce la divisione per sesso del lavoro tradizionale.

La segregazione verticale, invece, riguarda il fenomeno del cosiddetto “soffitto di cristallo”, ovvero la difficoltà per le donne di accedere a posizioni apicali e decisionali, anche in contesti ad alta femminilizzazione. Questo tipo di segregazione implica che le donne si trovino più spesso in posizioni subordinate, prive di autonomia decisionale e quindi maggiormente esposte ad abusi di potere, molestie e ricatti, in particolare quando la dimensione della dipendenza economica si sovrappone a quella della subordinazione professionale.

Secondo il Global Gender Gap Report 2025 del World Economic Forum, l’Italia si colloca al 79° posto su 146 Paesi per parità di genere complessiva, con un punteggio di 0.698, inferiore sia alla media europea (0.741) che a quella dei Paesi OCSE. In particolare, il divario di genere nel sottindice “partecipazione e opportunità economiche” resta marcato, con una quota femminile nei ruoli manageriali ferma al 28,1%, contro una media globale del 32,4%. A conferma di ciò, il Rapporto Invalsi 2022 ha rilevato che già a partire dalla formazione scolastica emergono scelte professionali orientate dal genere, che successivamente si riflettono nella composizione del mercato del lavoro, consolidando percorsi professionali polarizzati e fortemente stereotipati.

Queste forme di segregazione, sebbene apparentemente neutrali, sono spesso l’effetto di discriminazioni indirette, come la scarsa flessibilità dell’orario di lavoro, la mancanza di servizi di conciliazione, la penalizzazione legata alla maternità o l’assenza di politiche organizzative inclusive. Sul punto, è intervenuta la giuslavorista Donata Gottardi, sottolineando come “la struttura stessa del mercato del lavoro e delle organizzazioni produttive è ancora costruita su un modello androcentrico e standardizzato, che ignora le differenze e perpetua disuguaglianze”.

In questa prospettiva, la segregazione lavorativa non è solo un indicatore di iniquità economica e sociale, ma anche un fattore di rischio concreto per la salute e la sicurezza delle lavoratrici, in particolare nei contesti ad alta esposizione al pubblico o ad alta intensità relazionale. La concentrazione femminile in queste mansioni, unite alla scarsa rappresentanza nelle posizioni decisionali, crea condizioni favorevoli alla normalizzazione della violenza e alla mancanza di meccanismi efficaci di denuncia, protezione e sanzione.

La cultura organizzativa: discriminazione diretta, indiretta e intersezionale

Oltre alla segregazione occupazionale, la violenza di genere nei contesti lavorativi trova terreno fertile in una cultura organizzativa ancora permeata da stereotipi sessisti, asimmetrie di potere e modelli manageriali androcentrici. La normativa nazionale riconosce e distingue chiaramente le forme di discriminazione diretta e indiretta: la prima si verifica quando, per ragioni connesse al genere, una persona riceve un trattamento meno favorevole rispetto a un’altra in situazione analoga; la seconda si manifesta quando una norma, un criterio o una prassi apparentemente neutri determinano uno svantaggio specifico per le persone di un determinato sesso o genere.

Esempi ricorrenti di discriminazione indiretta includono le penalizzazioni economiche e di carriera subite dalle lavoratrici madri, o la mancata valorizzazione delle competenze femminili in contesti tecnico-scientifici, dove si tende a premiare modelli di disponibilità oraria e di mobilità incompatibili con i carichi di cura. In tali situazioni, la neutralità apparente dei criteri di valutazione o delle organizzazioni del lavoro cela una sostanziale asimmetria di opportunità, che contribuisce a riprodurre le disuguaglianze anziché ridurle.

La prospettiva intersezionale, introdotta dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw negli anni ’80, arricchisce ulteriormente il quadro analitico, evidenziando come le discriminazioni possano sovrapporsi e interagire in base a molteplici fattori identitari: genere, età, origine etnica, disabilità, orientamento sessuale, status socio-economico, religione o tipo di contratto. Una donna migrante con contratto precario, ad esempio, sarà potenzialmente più esposta a molestie e ricatti rispetto a una collega italiana con contratto stabile. Tale intersezionalità deve diventare un criterio fondativo nell’elaborazione delle politiche di prevenzione e nei processi di valutazione del rischio, superando la lettura binaria e generalista dei fenomeni.

La cultura organizzativa è quindi un elemento strategico nella prevenzione della violenza e delle molestie, non solo perché può contribuire ad attenuarne la diffusione, ma anche perché è determinante nella costruzione di ambienti sicuri, inclusivi e responsabilizzanti. La presenza di codici etici e di condotta, programmi di formazione obbligatoria, procedure di segnalazione trasparente e l’impegno esplicito da parte del management rappresentano indicatori concreti di una governance aziendale orientata alla parità⁵.

Tuttavia, molti contesti continuano a essere dominati da quella che la letteratura definisce “tolleranza organizzativa del sessismo”, una condizione in cui comportamenti denigratori, battute sessiste o pratiche discriminatorie vengono minimizzati, ignorati o addirittura legittimati come parte della “normalità” lavorativa. In questi ambienti, il rischio che le vittime non trovino supporto o, peggio, subiscano forme di ritorsione e isolamento è particolarmente elevato.

Un’effettiva strategia di contrasto alla violenza e alle disuguaglianze richiede quindi una revisione profonda dei modelli culturali e organizzativi dominanti, promuovendo un approccio sistemico e multidimensionale capace di integrare tutele giuridiche, pratiche aziendali e sensibilizzazione culturale.

La valutazione dei rischi in ottica di genere: un obbligo disatteso?

Il Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, noto come Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro, ha segnato una svolta nella tutela della salute e della sicurezza negli ambienti professionali, introducendo un approccio sistemico alla gestione del rischio.

Cosa dice il D.Lgs. 81/2008

L’articolo 28 del decreto stabilisce infatti che la valutazione del rischio — inclusa la sua documentazione nel Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) — debba riguardare “tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli […] connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi”.

Questa estensione normativa innalza a vincolo giuridico l’urgenza di considerare le differenze di genere nella prevenzione dei rischi, non limitandosi più soltanto alla tutela delle lavoratrici in stato di gravidanza, come già previsto da precedenti normative. Tuttavia, numerose analisi condotte da giuristi, esperti di sicurezza e docenti universitari hanno evidenziato che l’applicazione di questa norma è spesso formale o omessa, risultando confinata a pratiche meramente burocratiche o affidata a interpretazioni errate³.

Sul piano procedurale-strumentale, il legislatore richiede un approccio attivo e partecipato alla stesura del DVR:

  • il datore di lavoro è tenuto a condurre una valutazione completa, individuando specifiche esposizioni;
  • la redazione del documento deve coinvolgere il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), il medico competente e il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS);
  • la valutazione deve essere aggiornata in occasione di modifiche organizzative, tecnologiche o procedurali.

Dunque, il D.Lgs. 81/2008 impone un processo di vigilanza che tenga conto delle peculiarità legate al genere. L’efficacia del DVR in ottica di genere dipende pertanto da:

  • una comprensione tecnica elevata, che riduca la neutralità astratta del documento in favore di un’analisi concreta e specifica;
  • la partecipazione attiva delle lavoratrici e degli enti di prevenzione, inclusi i responsabili dei lavoratori per la sicurezza (RLS) e medico competente, per garantire il coinvolgimento delle diverse sensibilità ⁹;
  • una continuità valutativa fondata su verifiche sistematiche e aggiornamenti costanti in risposta a innovazioni o modifiche produttive.

In assenza di questi requisiti, i dispositivi legislativi potrebbero restare lettera morta, con un elevato rischio del permanere della mancata rilevazione delle vulnerabilità femminili, responsabili di una più alta esposizione a molestie, stress, malattie muscolo-scheletriche o psicologiche.

Il progetto INAIL “Valutazione dei rischi in ottica di genere”

La necessità di attuare concretamente quanto previsto dall’art. 28 del D. Lgs. 81/2008 ha spinto l’INAIL a sviluppare, un progetto di ricerca e intervento denominato “Valutazione dei rischi in ottica di genere”, volto a fornire strumenti operativi per la piena integrazione del principio di differenza di genere nella gestione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il progetto ha avuto un’importante evoluzione con la pubblicazione, nel luglio 2024, del primo volume tecnico dedicato al tema, che rappresenta uno dei più avanzati contributi istituzionali in materia. Il volume si articola in due sezioni principali: una parte generale, che illustra il contesto normativo, sociale e scientifico; e una parte applicativa, con 13 schede tematiche riguardanti rischi trasversali, organizzativi, fisici, chimici, biologici, ergonomici, stradali e psicosociali.

L’obiettivo dichiarato dell’INAIL è duplice:

  • supportare i datori di lavoro e gli operatori della prevenzione nell’inserimento dei fattori di genere nella valutazione dei rischi;
  • promuovere la consapevolezza tra lavoratori e lavoratrici sul differente impatto che l’organizzazione del lavoro, gli agenti fisici e i fattori psicosociali possono avere sui generi.

Nel documento si evidenzia come le caratteristiche antropometriche, fisiologiche e ormonali possano determinare una risposta differente all’esposizione ai rischi, ad esempio nella movimentazione manuale dei carichi o nell’assorbimento di sostanze chimiche. In parallelo, per i rischi di natura organizzativa o relazionale, emerge l’importanza di un’analisi che tenga conto non solo del sesso biologico ma anche dell’identità e del ruolo di genere, con particolare attenzione ai fenomeni di stress lavoro-correlato, burnout, mobbing, molestie e violenza.

Uno dei contributi più rilevanti del progetto è la scheda dedicata al rischio da molestie e violenza sul luogo di lavoro, in cui vengono indicati:

  • i luoghi e le occasioni a rischio (spazi comuni, turni serali, contatto col pubblico);
  • gli effetti sulla salute fisica e mentale (tra cui ansia, depressione, somatizzazioni);
  • le misure di prevenzione e protezione, comprese quelle organizzative e formative.

Il documento, inoltre, propone indicatori di genere per la valutazione del rischio come la distribuzione del personale per genere e qualifica, i tassi di infortunio e malattia professionale disaggregati, l’accesso alla formazione, la flessibilità oraria e le politiche di conciliazione.

Il progetto INAIL segna dunque un passaggio dalla mera enunciazione normativa alla prassi attuativa, ponendo le basi per una cultura della sicurezza fondata sull’equità, la prevenzione mirata e l’analisi differenziata delle esposizioni. La prospettiva di genere non viene trattata come un “di più” ma come un parametro imprescindibile di analisi e progettazione, capace di migliorare la qualità della valutazione del rischio e, conseguentemente, l’efficacia degli interventi preventivi

Prevenzione e tutela nei luoghi di lavoro: strumenti organizzativi e reti di supporto contro

La prevenzione della violenza e delle molestie nei luoghi di lavoro non può prescindere dall’assunzione di responsabilità da parte delle organizzazioni. I datori di lavoro, pubblici e privati, sono infatti tenuti non solo all’adozione di misure correttive, ma soprattutto alla strutturazione di strategie preventive organiche e permanenti, che includano codici di condotta, sistemi di segnalazione efficaci, formazione obbligatoria e vigilanza attiva.

L’adozione di codici di condotta chiari, accessibili e vincolanti rappresenta il primo presidio normativo interno. Questi documenti devono indicare in modo esplicito i comportamenti vietati, le procedure per la segnalazione degli episodi, le sanzioni previste e i meccanismi di supporto alle vittime. Le norme interne alle organizzazioni non solo riflettono, ma producono cultura. Il ruolo proattivo delle imprese è sostenuto dal quadro normativo europeo: oltre alla Convenzione OIL n. 190 (2019) c’è la Direttiva 2019/1937/UE sul whistleblowing, che promuove l’attivazione di canali protetti per la denuncia di comportamenti illeciti, comprese le molestie.

Accanto a questi strumenti normativi, è necessario dotare le strutture di sistemi operativi di prevenzione e gestione del rischio. Questi includono: canali di segnalazione riservati e non stigmatizzanti; attività di formazione obbligatoria e ricorrente sul tema delle pari opportunità, della prevenzione delle molestie e della violenza di genere; implementazione di dispositivi di sicurezza (inclusi strumenti anti-aggressione e videosorveglianza compatibili con la normativa sulla privacy); presenza e formazione di figure interne dedicate, come i CUG o le Consigliere di Fiducia.

Non c’è prevenzione efficace senza consapevolezza diffusa e linguaggi condivisi. Lo sforzo culturale e linguistico è parte integrante della prevenzione: linguaggi sessisti, stereotipi di genere, e micro-aggressioni rappresentano forme di “violenza sessuale facilitata dalla tecnologia” che spesso si trasferiscono o si amplificano nei luoghi di lavoro. La letteratura accademica converge nell’affermare che la formazione, per essere davvero efficace, deve affrontare le costruzioni sociali del genere, le disuguaglianze strutturali e le dinamiche di potere che alimentano le molestie e la violenza.

In termini di responsabilità giuridica, il D.Lgs. 81/2008 (art. 28) e l’art. 2087 del codice civile impongono al datore di lavoro un obbligo preciso: quello di tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore e di valutare tutti i rischi, compresi quelli legati a violenza, molestie e stress lavoro-correlato. L’omissione della valutazione o dell’attivazione di misure idonee può comportare responsabilità civile, penale e disciplinare. La giurisprudenza italiana, in particolare, ha riconosciuto il danno psicosociale derivante dalla mancata protezione della persona lavoratrice, configurando l’obbligo di risarcimento a carico del datore.

La violenza di genere non è un evento esterno all’organizzazione, ma un rischio prevedibile e prevenibile; il datore di lavoro che non agisce ne è corresponsabile.

Strutture di tutela istituzionale: il ruolo del CUG, della Consigliera di Parità e della Consigliera di Fiducia

All’interno delle pubbliche amministrazioni, il Comitato Unico di Garanzia (CUG) rappresenta una figura cardine nella prevenzione delle discriminazioni e delle molestie, con competenze che spaziano dalla promozione delle pari opportunità alla vigilanza sul benessere organizzativo. Introdotti dalla Direttiva del Dipartimento della Funzione Pubblica del 4 marzo 2011, i CUG sostituiscono i precedenti Comitati pari opportunità e i Comitati paritetici sul fenomeno del mobbing, riunendo le due funzioni in un unico organismo paritetico. Hanno, tra i compiti, quello di esprimere pareri obbligatori sui piani triennali per le azioni positive e sulla valutazione dei rischi in ottica di genere, nonché di intervenire su segnalazioni relative a molestie, mobbing e discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro.

La Consigliera di Parità, invece, è una figura istituita ai sensi dell’art. 15 del D.Lgs. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità) e svolge una funzione di pubblico ufficiale con compiti di vigilanza sull’attuazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione sui luoghi di lavoro. Le Consigliere di Parità operano a livello nazionale, regionale e provinciale e vengono nominate con decreto del Ministero del Lavoro, di concerto con il Ministero per le Pari Opportunità. La loro azione si articola in attività di conciliazione, monitoraggio, orientamento, ma anche azione giudiziaria: sono infatti legittimate ad agire in giudizio nei casi di discriminazione di genere, anche in via d’urgenza, a tutela della persona e dell’interesse collettivo. Il loro ruolo è riconosciuto dalla giurisprudenza come strumentale alla realizzazione del principio costituzionale di uguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2 Cost.).

La figura della Consigliera di Fiducia trova le sue prime formulazioni nei codici di condotta contro le molestie sessuali elaborati in ambito universitario e nei grandi enti pubblici. Il primo riferimento normativo strutturato si rintraccia nella Raccomandazione della Commissione Europea 92/131/CEE relativa alla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro, che ha ispirato la redazione di numerosi codici di condotta nazionali. In Italia, la figura è stata formalizzata in molte università ed enti pubblici con atti interni (statuti, regolamenti, accordi integrativi) e ha competenze di ascolto, orientamento, accompagnamento e mediazione informale. La Consigliera di Fiducia agisce nel rispetto della riservatezza e senza poteri sanzionatori, ma con la possibilità di segnalare casi e criticità agli organismi competenti (CUG, OIV, direzione risorse umane, ecc.) e, in alcuni casi, contribuire alla stesura dei rapporti annuali sul clima organizzativo e le segnalazioni ricevute.

In una prospettiva di genere, questa figura è ritenuta particolarmente importante perché consente di intervenire nelle fasi precoci del disagio lavorativo, evitando l’aggravamento delle situazioni e promuovendo la ricostruzione di un ambiente lavorativo sano e rispettoso. La Consigliera di Fiducia possiamo pensarla come una sentinella silenziosa della cultura del rispetto: non giudica, non punisce, ma crea le condizioni affinché il danno non diventi irreparabile.

Attori della prevenzione e della vigilanza: RLS, medico competente, ASL, Ispettorato del Lavoro

Il contrasto alle molestie e alla violenza nei luoghi di lavoro richiede un approccio sistemico, in cui anche le figure della sicurezza sul lavoro assumono un ruolo centrale nella prevenzione, individuazione e gestione del rischio psicosociale. In questo contesto si inseriscono le competenze del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), del medico competente, delle ASL e dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Il RLS, istituito dall’art. 47 del D.Lgs. 81/2008, è uno dei soggetti principali nella promozione della sicurezza sul lavoro. Deve essere consultato su tutte le misure di prevenzione adottate, compresa la valutazione del rischio da molestie e violenze, e può agire per sollecitare aggiornamenti del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR) quando emergono fattori nuovi o trascurati. In tema di violenza di genere, il RLS svolge un’importante funzione di ascolto dei lavoratori e lavoratrici, contribuendo a rendere visibili forme di disagio altrimenti sommerse. Tuttavia, il ruolo del RLS viene spesso marginalizzato proprio sui rischi a più alto impatto psicosociale, come quelli legati alla violenza e al mobbing.

Il medico competente, laddove previsto, può avere un ruolo strategico nell’individuare precocemente segnali di malessere collegati a forme di molestia: ansia, insonnia, disturbi psicosomatici, calo della concentrazione e dell’autostima. Tali sintomi, rilevabili nell’ambito della sorveglianza sanitaria, possono essere segnalati – nel rispetto del consenso informato e della privacy – al Servizio di Prevenzione e Protezione, favorendo un’azione preventiva tempestiva. Come evidenziato dal rapporto INAIL, la salute mentale delle lavoratrici può essere gravemente compromessa da ambienti ostili, senza che siano presenti lesioni fisiche evidenti.

Le competenze ispettive e sanzionatorie sono affidate alle ASL – SPreSAL (Servizi di Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro) e all’Ispettorato del Lavoro, che possono intervenire su segnalazione delle lavoratrici, dei sindacati, del medico o del RLS. L’ASL può verificare la corretta valutazione del rischio da molestie, la presenza di misure di prevenzione e formazione, nonché la congruità delle procedure interne adottate dalle aziende. In caso di inadempienze, può proporre prescrizioni o trasmettere il caso all’Ispettorato.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), ha poteri di indagine e sanzione nei confronti dei datori di lavoro che violano gli obblighi in materia di tutela della salute e della dignità delle persone, compresi quelli relativi alla prevenzione delle discriminazioni e molestie. Con l’adozione di linee guida e protocolli è stato previsto il rafforzamento delle competenze in ambito di violenza di genere, anche attraverso la formazione specifica del personale ispettivo e l’interlocuzione con le Consigliere di Parità territoriali.

L’interazione tra queste figure è determinante per garantire una rete efficace di protezione per le lavoratrici esposte a rischio. La loro sinergia rappresenta la concreta attuazione del principio di prevenzione previsto dall’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare le misure

Reti di supporto e prossimità: centri antiviolenza, sindacati e sportelli di ascolto

Accanto agli strumenti istituzionali e aziendali, un ruolo cruciale nella presa in carico e protezione delle vittime di violenza sui luoghi di lavoro è svolto dai centri antiviolenza, dai sindacati e dagli sportelli di ascolto.

I Centri Antiviolenza (CAV), previsti e sostenuti dalla legge n. 119/2013, offrono servizi gratuiti e riservati alle donne vittime di violenza, anche in ambito lavorativo. Secondo i dati forniti dall’ISTAT e dal Dipartimento per le Pari Opportunità, nel 2023 erano attivi oltre 400 centri antiviolenza e più di 260 case rifugio sull’intero territorio nazionale. I centri operano secondo il principio dell’accoglienza non giudicante, attivando percorsi individualizzati di protezione, supporto psicologico, assistenza legale, mediazione lavorativa e, ove necessario, accesso a misure economiche e abitative.

Nello specifico, i centri possono accompagnare la lavoratrice nella raccolta delle prove, nel dialogo con la Consigliera di Parità, nella redazione delle denunce e nei percorsi di fuoriuscita da ambienti di lavoro pericolosi. Alcuni CAV hanno attivato sportelli dedicati alla violenza in ambito lavorativo, anche in collaborazione con enti bilaterali, associazioni datoriali e sindacali.

I sindacati svolgono una funzione importante nel garantire protezione collettiva e rappresentanza individuale alle lavoratrici vittime di molestie. Negli ultimi anni, molte sigle (CGIL, CISL, UIL) hanno elaborato linee guida per la prevenzione delle molestie sui luoghi di lavoro, inserendo clausole nei contratti collettivi e promuovendo la figura della Consigliera di Fiducia sindacale. Infine, i centri di ascolto aziendali rappresentano uno strumento complementare, attivo soprattutto nei grandi enti pubblici e privati. Spesso coordinati dal CUG, dalle risorse umane o da professionisti esterni, questi sportelli consentono la rilevazione precoce del disagio, favorendo un clima organizzativo improntato al rispetto e all’inclusione. Tuttavia, la loro efficacia dipende fortemente dalla trasparenza del processo e dalla garanzia di anonimato e assenza di ritorsioni.

L’accesso a questi strumenti – istituzionali, sindacali e civici – rappresenta una condizione essenziale per la tutela integrata delle vittime e l’effettiva attuazione del principio costituzionale di dignità e sicurezza del lavoro (art. 1, art. 3 e art. 35 Cost.).

La certificazione della parità di genere: leva di cambiamento culturale.

L’introduzione della certificazione della parità di genere con la legge 5 novembre 2021, n. 162, che modifica il Codice delle Pari Opportunità (D.Lgs. 198/2006), rappresenta uno degli interventi normativi più significativi per promuovere l’equità di genere nelle imprese italiane. Il nuovo sistema mira non solo a misurare e monitorare il livello di inclusione nei luoghi di lavoro, ma anche a incentivare le aziende ad adottare politiche attive di prevenzione delle discriminazioni e delle molestie, e più in generale di valorizzazione delle diversità.

L’articolo 46-bis del D.Lgs. 198/2006, come modificato dalla L. 162/2021, istituisce la possibilità per le imprese pubbliche e private con più di 50 dipendenti di ottenere, su base volontaria, una certificazione di parità di genere. Questa attestazione riguarda sei aree principali: selezione e assunzione, condizioni di lavoro, retribuzioni, progressioni di carriera, genitorialità e conciliazione vita-lavoro, prevenzione delle molestie e della violenza.

L’UNI/PdR 125:2022, prassi di riferimento approvata da UNI e sviluppata con il sostegno della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità, definisce le metriche, indicatori e procedure per l’ottenimento della certificazione. Tale strumento punta ad accompagnare le aziende in un percorso di miglioramento continuo, trasformando la parità di genere da principio astratto a obiettivo misurabile e verificabile.

Uno degli incentivi principali per le imprese è la possibilità di accedere a premialità nei bandi pubblici, come previsto dalla legge 162/2021 e dai successivi decreti attuativi: tra questi, sgravi contributivi dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro e punteggi aggiuntivi nelle gare d’appalto e nei fondi PNRR.

Secondo i dati del Dipartimento per le Pari Opportunità, le aziende hanno accolto positivamente la misura e la tendenza è in crescita, anche grazie al coinvolgimento delle Camere di commercio, che forniscono supporto operativo e co-finanziamenti per le PMI.

Oltre agli aspetti normativi ed economici, la certificazione sta producendo effetti positivi sulla cultura organizzativa: si registra un aumento della sensibilità interna al tema della parità, della trasparenza nei dati sul personale, e della consapevolezza dell’importanza di prevenire molestie, discriminazioni e stereotipi. Alcune ricerche evidenziano una correlazione tra la presenza della certificazione e la riduzione dei casi sommersi di molestie e discriminazione interna, in virtù di un rafforzamento dei canali di segnalazione e delle politiche aziendali codificate.

La compliance di genere non è solo un requisito tecnico, ma un criterio di legittimità democratica e reputazionale delle organizzazioni complesse. In tal senso, la certificazione diventa uno strumento trasformativo, capace di generare un impatto anche sulla reputazione aziendale, sulla capacità di attrazione dei talenti e sulla fidelizzazione dei lavoratori.

Conclusioni: cambiare il lavoro per cambiare la società

La violenza e le molestie di genere nei luoghi di lavoro non sono eventi marginali né eccezionali, ma il riflesso di disuguaglianze strutturali e asimmetrie di potere ancora radicate nelle organizzazioni e nella cultura del lavoro. La loro prevenzione non può essere ridotta a un mero adempimento normativo, ma richiede una trasformazione profonda del contesto sociale, produttivo e istituzionale, in cui il lavoro si realizza.

La disuguaglianza tra i generi è un prodotto storico, ma anche una resistenza culturale che si rinnova continuamente. In tal senso, agire contro la violenza significa intervenire sulle condizioni che la rendono possibile o accettabile, ossia sugli stereotipi, la segregazione, l’impunità e l’asimmetria nelle relazioni di lavoro.

La normativa italiana, pur nella sua evoluzione (dal D.Lgs. 81/2008 alla L. 162/2021), evidenzia ritardi applicativi e una debolezza degli strumenti di enforcement, soprattutto nei contesti più piccoli e meno sindacalizzati. È dunque urgente potenziare:

  • la valutazione dei rischi in ottica di genere come obbligo non solo tecnico, ma culturale e organizzativo;
  • la formazione trasversale su pari opportunità, discriminazione e prevenzione delle molestie;
  • i sistemi di segnalazione protetta e il rafforzamento delle reti di supporto territoriali e aziendali.

Le esperienze più virtuose dimostrano che le imprese che investono in pari opportunità, trasparenza retributiva, conciliazione dei tempi di vita e politiche antidiscriminatorie, ottengono vantaggi non solo reputazionali ma anche in termini di benessere organizzativo, riduzione del turnover, produttività e attrazione dei talenti.

Cambiare la cultura del lavoro significa, in ultima istanza, cambiare la cultura sociale: restituire piena dignità ai soggetti più vulnerabili, superare la naturalizzazione delle disuguaglianze, promuovere la corresponsabilità e la solidarietà come valori fondanti della convivenza democratica. In questo percorso, la sinergia tra istituzioni, parti sociali, mondo della formazione e società civile è fondamentale.

La violenza non è un problema individuale. È un fatto politico, giuridico e sociale. E come tale deve essere affrontato, con coraggio, consapevolezza e visione.

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