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Sorveglianza globale: la Cina la guida, l’Occidente collabora



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Documenti interni e indagini giornalistiche rivelano come la sorveglianza digitale cinese sia alimentata da filiere transnazionali. Inevitabili gli interrogativi su responsabilità aziendali, regolazione internazionale e rischi per i diritti umani

Pubblicato il 26 set 2025

Barbara Calderini

Legal Tech – Compliance Manager



modelli AI llm cinesi

Negli ultimi mesi due consistenti fughe documentali[1] hanno rinnovato l’attenzione internazionale sulle dinamiche di censura e sorveglianza riconducibili alla Repubblica Popolare Cinese, nonché sul ruolo che la circolazione transnazionale di tecnologie digitali riveste nella loro concreta attuazione.

Le informazioni emerse non si esauriscono in una mera descrizione tecnica degli strumenti impiegati, ma pongono in rilievo questioni di ordine più ampio: l’estensione delle responsabilità che possono gravare sulle imprese fornitrici, l’incidenza di tali apparati sui diritti e le libertà fondamentali e, soprattutto, l’intreccio tra pratiche di controllo statale e dinamiche del mercato globale delle soluzioni digitali.

Allo stesso modo, l’interesse che ne discende non attiene unicamente al contenuto dei materiali trapelati, bensì alle implicazioni sistemiche che essi rivelano: il passaggio verso forme di sorveglianza qualitativamente nuove, le persistenti aree di opacità che sollevano dubbi interpretativi e le sfide prospettiche che investono sia gli ordinamenti statali sia gli attori tecnologici privati.

Per cogliere appieno la portata di tali rivelazioni è pertanto necessario un esame che ne ricostruisca non solo i profili tecnici, ma anche i contesti di impiego e le conseguenze, tanto sul terreno politico e tecnologico quanto su quello della tutela dei diritti fondamentali.

I leak che svelano le infrastrutture della sorveglianza

Le due significative esposizioni di documenti, hanno messo in evidenza dimensioni finora opache del mercato internazionale delle tecnologie di censura e sorveglianza collegate alla Cina.

Il primo reportage, a firma di Dake Kang e Yael Grauer per l’Associated Press, analizza migliaia di documenti trapelati dall’azienda cinese Landasoft, dimostrando come la collaborazione tra aziende americane e forze di polizia cinesi abbia creato le fondamenta dell’attuale apparato di sorveglianza digitale cinese, tra i più estesi e sofisticati al mondo. Il secondo, realizzato da un consorzio comprendente Amnesty International e The Globe and Mail, si concentra su Geedge Networks e sulle vendite dei suoi sistemi di censura e sorveglianza a paesi come Kazakistan, Etiopia, Pakistan e Myanmar.

Landasoft e la filiera tecnologica della repressione

Documenti che mostrano come aziende statunitensi abbiano collaborato o venduto tecnologie a attori cinesi, contribuendo alla costruzione dell’apparato di sorveglianza digitale dello Stato. L’inchiesta mette in luce come componenti tecnologiche apparentemente neutre — toolbox di analytics, moduli di riconoscimento biometrico, infrastrutture di storage ottimizzate per video ad alta intensità e servizi di mappatura con capacità di geofencing — possano diventare parti integranti di un apparato di controllo massivo quando vengono combinate e messe a disposizione di attori statali con obiettivi repressivi.

Non si tratta soltanto di singole vendite: la catena di valore tecnica e commerciale, fatta di integrazioni, personalizzazioni e aggiornamenti continui, trasforma funzioni modulari in un ecosistema operativo dove il dato catturato dal bordo (telecamere, sensori) è rapidamente normalizzato, indicizzato e reso utilizzabile da motori di correlazione, profiling e allerta. Ed è proprio questo salto di scala il punto critico essenziale: progettare e vendere un singolo algoritmo è una cosa, immaginare le sue implicazioni quando diventa parte di una pipeline che collega biometria, database anagrafici e geolocalizzazione è un’altra.

Particolarmente allarmante è l’uso di queste tecnologie in regioni come lo Xinjiang per monitorare, classificarle individui e gruppi (religiosi, etnici, criminalizzati dallo Stato) con criteri ampi e predittivi.

Dal punto di vista tecnico emergono almeno tre linee di vulnerabilità: l’assenza di limiti progettuali all’abuso, bias nei dataset di addestramento che amplificano discriminazioni, e la scarsa tracciabilità dei processi post-vendita, che rende difficile attribuire responsabilità.

Sul piano regolatorio, i controlli export attuali sono apparsi completamente inadeguati a fronte della natura modulare e “dual-use” delle tecnologie, che possono essere ri-assemblate in configurazioni critiche tramite partner locali o integratori.

Geedge networks e il grande firewall esportabile

Giovedì 11 settembre 2025, il Great Firewall of China (GFW)[2] ha subito la più grande fuga di documenti interni della sua storia. Sono trapelati oltre 500 GB di codice sorgente, registri operativi e comunicazioni interne, rivelando dettagli sulla progettazione, lo sviluppo e le operazioni del sistema di censura cinese. La fuga ha avuto origine da Geedge Networks, azienda privata responsabile della realizzazione e della manutenzione del GFW, e dal MESA Lab, presso l’Istituto di Ingegneria dell’Informazione dell’Accademia Cinese delle Scienze, che si occupa della ricerca e dello sviluppo dei componenti tecnologici sottostanti. Fang Binxing, storico progettista del GFW, è indicato come responsabile scientifico di Geedge Networks. I documenti mostrano che le tecnologie sviluppate non solo supportano la sorveglianza e la censura in diverse province cinesi, come Xinjiang, Jiangsu e Fujian, ma vengono anche esportate in paesi esteri — tra cui Myanmar, Pakistan, Etiopia, Kazakistan e altri stati coinvolti nel progetto “Belt and Road” — consentendo ai governi destinatari di implementare sistemi analoghi di filtraggio dei contenuti, monitoraggio delle comunicazioni e tracciamento degli utenti.

Dal punto di vista tecnico, la mole di informazioni trapelate permette di analizzare vari livelli di funzionamento. Il codice sorgente rivela algoritmi di filtraggio e classificazione dei contenuti basati su deep packet inspection, pattern matching e intelligenza artificiale; i registri operativi mostrano come queste tecnologie siano integrate in infrastrutture distribuite su scala provinciale, con capacità di monitoraggio granulare sia dei singoli utenti sia delle reti locali. Le comunicazioni interne evidenziano inoltre processi di sviluppo, testing e aggiornamento continuo dei sistemi, confermando che il GFW non è un apparato statico, ma un ecosistema adattivo capace di rispondere a nuove forme di evasione e cifratura dei dati.

Le implicazioni geopolitiche e tecniche sono dunque significative: la combinazione tra capacità tecnica avanzata e esportazione commerciale verso regimi autoritari solleva problemi concreti di compliance normativa, di controlli sulle esportazioni e misure preventive per la tutela dei diritti umani nelle giurisdizioni estere.

Geedge, fondata nel 2018 e guidata da Fang Binxing[3], noto anche come il “padre del Grande Firewall”, ha chiaramente trasformato la censura in un servizio chiavi in mano: governi con competenze tecniche limitate possono ora installare sistemi sofisticati di controllo digitale senza sviluppare internamente le tecnologie necessarie. I documenti mostrano che le funzionalità sviluppate per un’area operativa vengono spesso replicate per tutti i clienti, creando un modello globale di sorveglianza e censura. Il coinvolgimento di Geedge nelle regioni cinesi dello Xinjiang, Jiangsu e Fujian, insieme alla sua ambizione internazionale legata alla Belt and Road Initiative, segnala un’espansione strategica preoccupante della tecnologia cinese di controllo digitale.

Le capacità sviluppate da Geedge non solo replicano il modello cinese, ma lo rendono esportabile, creando un paradigma tecnologico che potrebbe consolidare pratiche autoritarie anche al di fuori della Cina. Tra questi strumenti, il Tiangou Secure Gateway (TSG) permette ai governi di monitorare le comunicazioni in tempo reale, bloccare VPN e tracciare gli utenti, riproducendo le funzionalità del GFW: non un semplice apparato di rete, ma piuttosto una piattaforma industriale concepita per esercitare ispezione e manipolazione sistematica del traffico. La documentazione emersa dal leak descrive il Tiangou Secure Gateway (TSG) come un prodotto a tutti gli effetti, corredato da materiali tecnici e marketing che ne confermano la vocazione “full-featured”: capace di classificare protocolli e applicazioni in tempo reale attraverso meccanismi di Deep Packet Inspection, progettato per operare al perimetro delle reti o direttamente nei punti di snodo degli ISP, e in grado di gestire volumi enormi di dati.

La sua funzione, tuttavia, non si limita al blocco dei contenuti. I dossier interni in lingua cinese parlano esplicitamente di iniezione di codice nelle sessioni HTTP, HTTPS, TLS e persino QUIC, segnalando una capacità di manipolazione attiva che si spinge fino al lancio di attacchi DDoS mirati. Censura e azioni offensive risultano così integrate in un’unica cabina di regia, che traduce la retorica della sicurezza in un meccanismo di controllo capillare.

Accanto al motore tecnico emerge una dimensione ben sedimentata di sorveglianza operativa: monitoraggio in tempo reale, tracciamento geografico tramite celle e identificatori di rete, ricostruzione storica degli accessi e possibilità di blackout selettivi per aree o eventi specifici. Non si tratta di promesse astratte, ma di funzioni documentate con coerenza nei materiali interni provenienti da piattaforme come Jira, Confluence e GitLab, utilizzate per l’assistenza, lo sviluppo e la documentazione del TSG.

A completare l’architettura vi è un livello di gestione destinato agli operatori non tecnici, dotato di dashboard e strumenti di network intelligence che consentono ricerche per utente, area o servizio, generano alert e report, e permettono l’attivazione immediata di regole di filtraggio o di intervento. Si tratta, in sostanza, di un’interfaccia unificata che rende la complessità tecnologica governabile in modo diretto e centralizzato.

Infine, la presenza nel dump di circa mezzo terabyte di pacchetti RPM rivela l’esistenza di una filiera industriale di build e rilascio, una supply chain strutturata secondo pratiche di versionamento, CI/CD e packaging che consente installazioni massive su scala provinciale all’interno della Cina e una facile replicabilità all’estero.

Insomma, un modello produttivo pronto al deployment su larga scala.

Dalla Cina all’Asia: l’espansione delle tecnologie di censura

La replicabilità di queste tecnologie — dall’identificazione di utenti anonimi al filtraggio dei traffici VPN — trasforma la censura in un apparato operativo completo, rendendo accessibile a Stati in assenza di know-how tecnico avanzato, come Etiopia, Myanmar, Pakistan e Kazakistan, un apparato di controllo digitale fino a oggi riservato a regimi consolidati.

A tal proposito, il 9 settembre 2025, l’organizzazione Justice For Myanmar ha pubblicato un rapporto intitolato Silk Road of Surveillance, che documenta la collaborazione tra la giunta militare illegittima del Myanmar e la società cinese Geedge Networks nell’implementazione di una versione commerciale del “Great Firewall” cinese. Secondo il rapporto, Geedge ha fornito hardware, software, formazione e supporto alla giunta, permettendole di tracciare in tempo reale le attività online di 33,4 milioni di utenti in Myanmar. Le sue tecnologie permettono di identificare la posizione geografica degli utenti mobili e di monitorare il traffico di rete a livello individuale.

Il rapporto identifica anche 13 compagnie di telecomunicazioni in Myanmar che collaborano con Geedge, tra cui ATOM (ex Telenor Myanmar), Mytel, MPT, Ooredoo Myanmar, Frontiir e altre. Tutte aziende che hanno installato i sistemi di Geedge nei loro data center, facilitando la sorveglianza e la censura delle comunicazioni online.

Tra i materiali trapelati dal leak emerge anche un riferimento a quello che viene indicato come “Progetto Fujian” (福建项目), un’iniziativa pilota avviata da Geedge Networks nel 2022 e finalizzata alla realizzazione di un firewall provinciale. Si tratta di un’indicazione particolarmente rilevante, perché la provincia del Fujian non è un territorio qualsiasi: affacciata sullo Stretto di Taiwan, rappresenta uno dei punti nevralgici della competizione geopolitica tra Pechino e Taipei, ma anche del confronto più ampio con le democrazie occidentali.

Il progetto, per quanto meno documentato rispetto ad altre implementazioni, appare comunque indicativo della strategia di Pechino di sperimentare infrastrutture di controllo a livello regionale in aree di elevata rilevanza geopolitica. La scelta del Fujian non è infatti casuale: in quella direttrice si concentra il conflitto tecnologico e strategico con l’isola e, più in generale, con le democrazie occidentali che ne sostengono la sicurezza. Il coinvolgimento di aziende taiwanesi come ADLINK Technology Inc. nello sviluppo dell’hardware Ether Fabric, accanto a player cinesi, mette ulteriormente in luce la natura transnazionale di una supply chain che sfuma i confini tra cooperazione industriale, competizione tecnologica e strumenti di sorveglianza statale.

Questo quadro si inserisce in un contesto più ampio, caratterizzato da una crescente instabilità politica e sociale in diversi Paesi asiatici. Dall’Indonesia al Bangladesh, dallo Sri Lanka al Pakistan, passando per il Nepal, le proteste legate a restrizioni sui social network e a politiche percepite come autoritarie hanno alimentato tensioni diffuse. Nel caso nepalese, le recenti manifestazioni rappresentano un esempio emblematico di come la limitazione delle libertà digitali possa trasformarsi rapidamente in crisi politica e sociale. Parallelamente, in Giappone il recente cambio di leadership suggerisce un riposizionamento strategico verso un orientamento più marcatamente filo-USA, un elemento che contribuisce a ridefinire gli equilibri regionali e a inasprire la competizione tecnologica e politica con la Cina.

La censura come prodotto globale

Le fughe di documenti, collocandosi all’incrocio tra responsabilità d’impresa, tutela dei diritti fondamentali e regolazione delle tecnologie a duplice uso (dual use technologies), assumono un carattere rivoluzionario per almeno quattro ordini di ragioni, ciascuno dei quali contribuisce a ridefinire il quadro della sorveglianza digitale globale.

Queste le quattro direttrici di analisi che ne emergono

Collaborazioni occidentali meno note

Il coinvolgimento di aziende tecnologiche occidentali nei meccanismi di sorveglianza e censura non è un tema nuovo: da anni si discute del loro ruolo, diretto o indiretto, nel facilitare abusi dei diritti umani. Ciò che emerge dai leak, però, non è più l’eccezione isolata, ma l’indizio di un disegno sistemico fatto di vendite, consulenze, trasferimenti di know-how e progettazioni che si intrecciano con le politiche repressive di governi autoritari. In questo senso, le nuove rivelazioni mettono in crisi la comoda narrativa del “tutto appartiene al passato” e sollecitano un’assunzione di responsabilità nel presente. Ciò interpella direttamente il quadro normativo europeo e internazionale: basti pensare alle Linee Guida OCSE per le imprese multinazionali e ai Principi Guida ONU su imprese e diritti umani, che impongono obblighi di human rights due diligence. In questo contesto, la narrazione dell’“inconsapevolezza” o della mera “distanza temporale” non appare più sufficiente a escludere una responsabilità attuale.

Globalizzazione della censura come prodotto esportabile

I documenti mostrano come la censura non sia più solo un apparato interno a uno Stato, ma un bene che può essere standardizzato, pacchettizzato e venduto. Geedge, in particolare, emerge non come attore confinato alla scena cinese, ma come un hub che distribuisce capacità tecniche avanzate a governi che altrimenti non avrebbero accesso a tali strumenti. La sorveglianza autoritaria cessa così di essere un fenomeno nazionale e si trasforma in un prodotto transnazionale, replicabile e scalabile. In termini giuridici, ciò si innesta a pieno titolo anche nel dibattito europeo sulla regolamentazione delle esportazioni di beni e tecnologie a duplice uso (Regolamento (UE) 2021/821), che mira a impedire la circolazione di strumenti suscettibili di impieghi lesivi dei diritti umani. La mancanza di controlli stringenti in questo settore continua infatti a favorire la creazione di un mercato parallelo della censura come “commodity” tecnologica. Quando i controlli sulle esportazioni di tecnologie a duplice uso sono deboli o frammentari, diventa dunque facile per aziende e intermediari vendere strumenti di sorveglianza a Paesi che li impiegano per reprimere diritti fondamentali. In tale contesto si sviluppa quel mercato parallelo, sottratto a regole effettive di trasparenza e responsabilità, nel quale soluzioni tecnologiche di sorveglianza e filtraggio circolano come “prodotti standardizzati” anziché come beni critici, con il rischio di consolidare infrastrutture repressive transnazionali al di fuori di qualsiasi cornice giuridica vincolante. Dinamiche che entrano in frizione non solo con lo spirito del Regolamento (UE) 2021/821, bensi anche con le garanzie convenzionali più volte ribadite dalle pronunce delle Alte Corti CEDU e CGUE.

Verso una sorveglianza predittiva e pervasiva

Non siamo più di fronte a semplici intercettazioni o controlli puntuali, ma a infrastrutture digitali progettate per anticipare, classificare e neutralizzare la dissidenza prima ancora che si manifesti. La sorveglianza si articola oggi su base geografica, comportamentale e relazionale, combinando informazioni sugli spostamenti, le reti di contatto, le transazioni economiche e le interazioni sociali. In questo intreccio di dati, l’apparato repressivo non si limita a fotografare il presente: esso produce scenari predittivi, orienta decisioni politiche e di sicurezza e tende a modellare i comportamenti futuri attraverso la minaccia implicita di un controllo costante. Una trasformazione questa che segna il passaggio da un paradigma di sorveglianza reattiva a un regime di sorveglianza preventiva e pervasiva, in grado di radicarsi nella vita quotidiana fino a essere interiorizzata come condizione ordinaria. Non si tratta soltanto di una riduzione degli spazi di privacy o di dissenso, ma della progressiva erosione della sfera autonoma dell’individuo, ridotto a soggetto permanentemente trasparente di fronte al potere statale e alle piattaforme tecnologiche. Diritti fondamentali come la libertà di espressione e il diritto alla vita privata diventano diritti “a rischio strutturale”, compressi in nome della sicurezza nazionale o dell’ordine pubblico. Il conflitto che ne deriva non è contingente, ma sistemico, perché mette in tensione l’intera architettura dei diritti con la logica di uno Stato che, attraverso la tecnologia, non si limita a governare il presente, ma ambisce a colonizzare il futuro.

Questioni legali, etiche e politiche per le aziende coinvolte

Le imprese occidentali che forniscono — direttamente o attraverso reti di intermediazione — tecnologie poi utilizzate per scopi repressivi si trovano inevitabilmente al centro di interrogativi scomodi. Fino a che punto è possibile dichiararsi inconsapevoli dell’uso che verrà fatto dei propri prodotti? Quale livello di diligenza preventiva è richiesto per evitare che strumenti nati per la “sicurezza” diventino mezzi di repressione? E soprattutto: quali meccanismi di trasparenza e accountability dovrebbero essere resi obbligatori per impedire che la giustificazione commerciale oscuri la tutela dei diritti fondamentali? Interrogativi non più confinati al piano astratto ma che ci riguardano direttamente entrando direttamente nel dibattito normativo europeo, a cominciare dalla proposta di Direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence (CSDDD), che mira a imporre alle multinazionali un dovere positivo di identificare, prevenire e mitigare gli impatti negativi lungo l’intera catena del valore. Non solo; accanto al piano regolatorio, resta aperta anche la questione etico-politica: quale prezzo in termini di libertà individuale e diritti umani siamo disposti a sacrificare per sostenere un mercato globale competitivo e deregolato? Le rivelazioni emerse dai leak segnalano che la sorveglianza non è più un fenomeno eccezionale o circoscritto a regimi autoritari, ma una infrastruttura globale, alimentata da reti commerciali opache, competenze transnazionali e tecnologie a duplice uso. In questo contesto, la tradizionale contrapposizione tra democrazie liberali e Stati autoritari perde di rigidità, poiché flussi di know-how e strumenti di controllo attraversano senza ostacoli i confini geopolitici, alimentando un ecosistema ibrido in cui la repressione diventa un bene scambiabile sul mercato.

Si configura così una sorta di paradigm shift al quale ho già fatto riferimento: la sorveglianza preventiva tende a essere interiorizzata come condizione ordinaria della vita sociale, normalizzando l’erosione di spazi di libertà e di autodeterminazione individuale. Limitarsi a invocare principi di responsabilità aziendale, regole sull’export o generici richiami multilivello alla tutela dei diritti fondamentali rischia di tradursi in un esercizio di autoassoluzione normativa. Senza strumenti concreti, vincolanti e sanzionatori, tali enunciati rimarranno gusci vuoti, incapaci di contrastare la trasformazione della tecnologia in una infrastruttura strutturale di repressione globale.

Il carcere digitale come infrastruttura globale

Pur essendo vasti e dettagliati i dati emersi dai leak, permangono tuttavia numerose aree di incertezza nelle quali si annida il problema politico più delicato: l’indeterminatezza dei fatti, dei flussi di responsabilità o dei dettagli tecnici viene utilizzata come scusa o alibi da parte di governi, aziende o regolatori per giustificare l’inerzia o per evitare interventi concreti.

In altre parole, più le informazioni sono complesse o parziali, maggiore è il rischio che attori chiave trasformano la mancanza di certezza in una ragione per non assumersi responsabilità o prendere provvedimenti.

Il rischio che l’indeterminatezza diventi alibi è concreto.

  • Tempistiche: il richiamo a collaborazioni “datate” (old, stale interactions) diventa alibi per evitare responsabilità attuali.
  • Uso vs capacità: distinguere tra vendita e impiego effettivo serve a minimizzare l’impatto potenziale delle tecnologie.
  • Contesto legale: l’opacità normativa locale non attenua gli abusi, bemsì li rende sistemici.
  • Reazioni: le promesse di regolamentazione restano spesso rituali privi di effetti concreti.

Risultato: ambiguità e autoassoluzioni alimentano un ecosistema globale di sorveglianza che si consolida come infrastruttura di controllo.

Il richiamo al carattere “datato” di certe collaborazioni o alla distinzione tra capacità tecnica e uso effettivo non costituisce invero un reale argomento difensivo, ma piuttosto una strategia retorica che consente alle imprese di sottrarsi a responsabilità ancora attuali.

Allo stesso modo, l’opacità normativa dei paesi destinatari non attenua ma, al contrario, contribuisce ad alimentare l’abuso: trasformare l’assenza di regole chiare in una sorta di attenuante significa piegarsi allo stato di eccezione come regola di governo.

La reiterata attesa di nuove regolamentazioni o di reazioni istituzionali si traduce infine in un rituale privo di sostanza, incapace di incidere su pratiche ormai strutturali.

Non si tratta quindi di semplici zone d’incertezza o di aree grigie limitate, ma dei punti in cui emerge chiaramente la corresponsabilità — spesso tacita — delle democrazie occidentali nella costruzione e diffusione di un’infrastruttura globale di sorveglianza. Negli ultimi vent’anni, aziende statunitensi e non solo hanno progettato, venduto e reso disponibili tecnologie che oggi alimentano l’apparato di controllo digitale cinese, impiegato per reprimere dissenso, sorvegliare minoranze etniche e religiose e imporre restrizioni ai movimenti della popolazione.

Le rivelazioni AP confermano che la sorveglianza di massa nello Xinjiang non è un fenomeno puramente endogeno al contesto cinese, quanto invece il prodotto di una filiera tecnologica globale che ha le sue radici anche nella Silicon Valley.

Il reportage visivo “mette il volto umano” dietro la sorveglianza digitale più pervasiva al mondo, mostrando come la tecnologia statunitense abbia contribuito a costruire non solo strutture fisiche di controllo (telecamere, sistemi di monitoraggio), ma un “invisibile carcere digitale”. Persone considerate comuni finiscono nel mirino per motivi banali — una disputa sui terreni, un reclamo contro autorità locali — ma queste azioni attivano un meccanismo che flagga, segue, anticipa ogni movimento verso decisioni punitive, arresti, isolamento.

Il caso del signor Yang Guoliang, che vive recluso nella sua casa con tende oscuranti per proteggersi da telecamere esterne, incarna il passaggio da una sorveglianza occasional­e a un controllo totale: ogni uscita, ogni tentativo di protesta o ricorso diventa fonte di sospetto. La sorveglianza diventa routine, la libertà, subordinata.

Quel che emerge con forza è che il “monitoraggio” non è soltanto strumento di repressione, ma vera e propria leva predittiva: la tecnologia non aspetta reati consumati, bensì segnala potenziali pericolosi, anticipa il comportamento “da controllare”.

L’immagine che resta è quella di una densità di sorveglianza che non consente più spazi di privacy, di dissenso reale, di protezioni e tutele. Esposizione e vulnerabilità diventano condizioni strutturali; l’uso della tecnologia — anche importata, anche mediata — si rivela parte integrante dell’ apparato repressivo che opera sotto le false sembianze della sicurezza pubblica e della regolazione.

Il nodo centrale non peraltro è solo la trasferibilità tecnica di algoritmi e hardware, ma quella della responsabilità: il rispetto formale delle normative su esportazioni e sanzioni si è rivelato insufficiente a impedire la deriva repressiva, trasformando la legalità in un guscio vuoto.

Affiora netta la tensione strutturale tra la tutela dei diritti fondamentali e la sovranità tecnologica degli Stati, in cui la protezione dei diritti umani rischia costantemente di soccombere alla logica della competizione geopolitica e commerciale.

Proprio lo Xinjiang diventa, in questo senso, la rappresentazione di un laboratorio distopico che illustra le conseguenze di una governance globale della tecnologia incapace di svolgere il proprio compito, lasciando che siano le dinamiche di mercato e gli imperativi di potere statale a dettare le regole del gioco.

Le implicazioni future della sorveglianza digitale cinese

I leak spingono a considerare con urgenza le implicazioni future di questi sistemi:: non si tratta soltanto di comprendere ciò che è stato fatto finora, ma di anticipare come la diffusione e l’evoluzione di tali tecnologie possano rimodellare le dinamiche di potere, mercato e regolazione a livello globale. La portata innovativa degli strumenti di sorveglianza cinese suggerisce scenari in cui i confini tra sicurezza pubblica, nazionale, controllo sociale e commercio tecnologico diventano sempre più sfumati, richiedendo nuovi modelli di governance, strumenti di responsabilità proattiva e strategie internazionali di tutela dei diritti. In questo contesto, la sfida principale non è solo tecnica o normativa, ma strategica: capire come prevenire che la tecnologia, nell’assenza di regole efficaci, consolidi strutturalmente pratiche autoritarie su scala globale.

Sul piano normativo, emerge l’urgenza di regolamentazioni internazionali vincolanti sulle esportazioni di tecnologie dual use. Strumenti predittivi e sistemi di monitoraggio, fino a ieri confinati a contesti nazionali, sono ora replicabili all’estero, con implicazioni dirette sulla protezione dei diritti umani: libertà di espressione, privacy e mobilità digitale vengono compresse tramite algoritmi che anticipano comportamenti, classificano gli utenti e abilmente aggirano protezioni legali nazionali.

Dal punto di vista aziendale, i leak evidenziano un problema di trasparenza e responsabilità. Le imprese che sviluppano, implementano o rivendono strumenti di sorveglianza operano spesso sotto la copertura della legalità formale, ma senza meccanismi di auditing indipendente o clausole di non uso efficaci. La replicabilità del software e la standardizzazione dei pacchetti tecnologici — come nel caso di Geedge Networks e del Tiangou Secure Gateway — significa che strumenti progettati per una regione vengono immediatamente applicati ad altre, amplificando l’impatto repressivo globale.

Sul piano tecnico, la sofisticazione crescente dei sistemi è cruciale. Non si tratta più di filtrare semplici contenuti, ma di implementare infrastrutture integrate di monitoraggio in tempo reale, analisi predittiva, identificazione di utenti anonimi, blocco delle VPN e gestione centralizzata dei flussi informativi. Questi sistemi riducono il costo operativo della repressione digitale, abbassando la barriera all’ingresso per regimi autoritari e accelerando la diffusione di modelli cibernetici di controllo.

Infine, la dinamica globale lascia intendere una corsa agli armamenti digitali: regimi autoritari competono per dotarsi delle tecnologie più avanzate, mentre democrazie sotto pressione rischiano di legittimare misure analoghe “per sicurezza”, con effetti di erosione interna dei diritti civili.

Innovazione, potere e competizione geopolitica

Le rivelazioni emerse vanno oltre la semplice indignazione: costituiscono un monito strutturale. Mostrano come la responsabilità non possa ritenersi un concetto astratto né un tema confinato alle scelte dei governi, ma rappresenti un nodo che attraversa livelli diversi – dal singolo utente alle imprese, dagli Stati alle organizzazioni internazionali – in un ecosistema digitale sempre più interdipendente. La sorveglianza non è più un fatto “interno” a una giurisdizione sovrana, ma il prodotto di infrastrutture tecnologiche che superano confini e ideologie, diventando parte di un mercato globale della repressione.

Qualora tale processo dovesse radicarsi, vi è il pericolo che la logica autoritaria si trasformi in prassi ordinaria, inscritta nei protocolli tecnologici, normalizzata nelle strategie commerciali e persino legittimata attraverso le narrazioni dominanti sulla sicurezza. Per evitarlo, servono azioni convergenti: una consapevolezza collettiva capace di rendere visibili i legami tra consumo quotidiano e architetture di controllo; regole vincolanti e trasparenza radicale nei processi di progettazione, vendita e implementazione delle tecnologie; e soprattutto, ogni diritto umano fondamentale, nello spazio digitale, deve poter essere tutelato non soltanto attraverso richiami etici o principi programmatici, ma mediante strumenti giuridici concreti, effettivi e prontamente azionabili. La realtà dimostra che i presidi normativi oggi disponibili, pur formalmente riconosciuti non riescono a tradursi in meccanismi di protezione realmente efficaci, lasciando troppo spesso i diritti digitali in una condizione di vulnerabilità strutturale.

Non si tratta di un’agenda futuribile quanto una necessità urgente. Ogni ritardo alimenta la normalizzazione della sorveglianza indiscriminata e rende più fragile l’idea stessa di spazio democratico. Le fughe di notizie non ci offrono semplici dettagli tecnici: ci costringono a guardare in faccia la responsabilità globale di decidere se il progresso tecnologico sarà strumento di emancipazione o piuttosto architettura permanente di controllo.

Nella relazione tra imprese americane e apparati cinesi di polizia, nei sistemi offerti da Geedge ad altri regimi, nel modo in cui le tecnologie dual use vengono coniate, trasferite, adattate, si vede come la distinzione tra “fornitore” e “utilizzatore” sia invero sempre più sottile. Strumenti originariamente sviluppati per sicurezza, gestione dati, protezione infrastrutturale, diventano leve di controllo preventivo, repressione etnica, criminalizzazione sociale. Ciò che nasce come soluzione per la sicurezza o la gestione dei dati finisce per trasformarsi in un meccanismo di repressione predittiva, capace di colpire individui e comunità sulla base di etnie, convinzioni o semplici sospetti.

Quando aziende, ovunque dislocate nel mondo, progettano o diffondono strumenti di “polizia predittiva”, non stanno solo vendendo tecnologia: stanno esportando la capacità di arrestare persone, privarle di libertà e sottometterle a un giudizio spesso prevenuto, sulla base non di ciò che hanno fatto, ma di ciò che potrebbero fare.

Il punto non è solo stigmatizzare modelli lontani, ma riconoscere la nostra corresponsabilità in un processo globale in cui tecnologie spesso nate in contesti democratici si normalizzano come strumenti di sorveglianza “accettabile”. Ciò che inizialmente serve a efficienza, sicurezza o competitività economica si trasforma gradualmente in pratiche di controllo capillare, ridisegnando silenziosamente i confini della libertà individuale e collettiva. L’erosione dei diritti, così, non appare come un evento traumatico, ma come una deriva lenta, resa ancora più insidiosa dalla sua capacità di mascherarsi dietro il linguaggio del progresso e della tutela dei cittadini.

I leak sul Great Firewall cinese mostrano in modo concreto come queste dinamiche si intreccino con la sovranità tecnologica e il controllo statale. Essi rivelano vulnerabilità strutturali in un apparato considerato inespugnabile e mettono in luce la strategia della Cina di competere globalmente in settori chiave – dall’intelligenza artificiale ai semiconduttori, dai veicoli elettrici alle biotecnologie – dove leadership tecnologica e capacità di sorveglianza sono strettamente collegate. La reazione di Pechino, tra censura sui social media, controllo tramite IA generative e interventi OSINT, conferma la delicatezza del bilanciamento tra gestione interna e immagine internazionale.

Allo stesso tempo, l’indagine antitrust cinese su Nvidia, avviata in relazione all’acquisizione della società israeliana Mellanox Technologies, evidenzia come la competizione tecnologica globale non si limiti più alla corsa all’innovazione o al controllo dei mercati, ma si giochi simultaneamente su più fronti interconnessi: industriale, regolatorio e geopolitico. Sul piano industriale, la Cina mira a garantire che le tecnologie critiche – in questo caso legate a chip ad alte prestazioni e infrastrutture per data center e intelligenza artificiale – siano accessibili e sviluppate secondo interessi strategici nazionali. Sul piano regolatorio, l’uso delle norme antitrust diventa uno strumento non solo di tutela del mercato interno, ma anche di pressione indiretta sulle aziende straniere, incidendo sulla loro libertà operativa e sulle catene di approvvigionamento globali.

Infine, sul piano geopolitico, azioni come questa rafforzano il posizionamento della Cina nella competizione con gli Stati Uniti e le democrazie occidentali, segnalando chiaramente che il dominio tecnologico non è solo un obiettivo economico, ma un fattore centrale di influenza e sicurezza nazionale. In questo contesto, ogni mossa regolatoria si intreccia con strategie di potere globale, rendendo evidente che il futuro della tecnologia avanzata si gioca tanto nei laboratori quanto nei tribunali e nelle aule diplomatiche internazionali.

Nel complesso, tutti questi eventi illustrano quanto il dominio tecnologico non sia solo una questione economica: è uno strumento di potere e sicurezza, la cui gestione condiziona la libertà digitale, le relazioni internazionali e la stabilità strategica globale.

Note


[1]Si veda https://apnews.com/article/chinese-surveillance-silicon-valley-uyghurs-tech-xinjiang-00bed6421ad8d2ccc6e69f104babe892

https://gfw.report/blog/geedge_and_mesa_leak/en/ Il leak sul Great Firewall cinese è stato diffuso da Enlace Hacktivista, collettivo a prevalenza latino-americana che collabora con DDoS Secrets ed è già noto per aver reso pubbliche fughe di dati di grande rilievo. Tra queste figurano i materiali sottratti a Cellebrite e MSAB, documentazione militare e religiosa, archivi su corruzione politica e ambientale, oltre a decine di terabyte appartenenti a imprese del settore minerario e petrolifero in America Latina. Si tratta di operazioni che hanno portato alla luce pratiche corruttive, violazioni ambientali e dati sensibili su larga scala. Nel caso specifico del Great Firewall Leak, i documenti sono stati pubblicati sulla piattaforma del gruppo – enlacehacktivista.org – ospitata presso un provider islandese, scelto per la sua consolidata reputazione nella difesa della privacy e della libertà di espressione.

[2]Il Great Firewall of China (GFW) non è un singolo sistema, bensì un ecosistema complesso di strumenti e infrastrutture per la censura e la sorveglianza di Internet. Al suo interno operano team con funzioni distinte ma coordinate: gruppi di ricerca e sviluppo progettano algoritmi e architetture di filtraggio; team operativi implementano e mantengono le infrastrutture; strutture hardware forniscono capacità di elaborazione e storage su larga scala; e unità di gestione supervisionano contratti, gare d’appalto e l’integrazione con le agenzie governative. Oltre agli organi centrali permanenti, come il CNCERT, diverse entità private o semi‑pubbliche forniscono supporto tecnico in base alle esigenze dei singoli progetti.

[3]Fang, ex presidente dell’Università di Posta e Telecomunicazioni di Pechino, è stato anche coinvolto in iniziative di sorveglianza in Russia e ha legami con la China Electronics Corporation, un conglomerato statale sanzionato dagli Stati Uniti. Nonostante le sue tecnologie siano utilizzate per reprimere la libertà online, Fang ha dovuto ricorrere a VPN per aggirare il proprio sistema di censura durante una conferenza nel 2016, un episodio che ha suscitato ironia e critiche.

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