Per oltre un secolo, il diritto della concorrenza si è fondato su un principio semplice, se si vietano gli accordi tra concorrenti, i prezzi resteranno equi. Ma questa logica sta saltando nell’era degli algoritmi.
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L’illusione della concorrenza perfetta
L’antitrust, a partire dallo Sherman Act, la più antica legge antitrust degli Stati Uniti, ha sempre presupposto che la collusione richieda un atto intenzionale, un incontro, una comunicazione, una “stanza fumosa”. Oggi, però, in gran parte dei mercati digitali, dall’e-commerce ai voli, dagli affitti turistici alla pubblicità, i prezzi non sono più decisi da persone, ma da algoritmi di apprendimento, che apprendono. Sono software che osservano la domanda, testano risposte e aggiustano i prezzi in tempo reale per massimizzare i profitti. Eppure, anche senza comunicare, questi sistemi possono arrivare a comportamenti collusivi spontanei, come se si fossero messi d’accordo.
Lo studio che ha svelato la collusione algoritmica
Nel 2020, quattro economisti italiani, Emilio Calvano, Giacomo Calzolari, Vincenzo Denicolò e Sergio Pastorello, pubblicarono su American Economic Review il paper Artificial Intelligence, Algorithmic Pricing and Collusion.
Fu il primo esperimento sistematico a dimostrare che due semplici algoritmi di apprendimento per rinforzo (Q-learning), operando in un mercato simulato, possono imparare da soli a stabilire prezzi supra-competitivi, cioè prezzi al di sopra del livello concorrenziale. Nessuna comunicazione, nessun codice collusivo: gli algoritmi osservavano i profitti, punivano i ribassi dell’altro e tornavano a cooperare. Come scrivono gli autori, «gli algoritmi imparano a colludere tacitamente, anche senza essere progettati per farlo». In pratica, dopo centinaia di iterazioni, ogni agente digitale “scopriva” che mantenere prezzi alti era la strategia più vantaggiosa per entrambi. Questa scoperta ha messo in crisi un secolo di certezze economiche e giuridiche: se la collusione non è intenzionale, è comunque collusione?
La teoria dei giochi e l’equilibrio dell’AI
Per capire perché due algoritmi possano “imparare” a colludere, bisogna entrare per un momento nel mondo della teoria dei giochi, la disciplina che studia come soggetti razionali (persone, imprese o, in questo caso, algoritmi) prendono decisioni quando i risultati di ciascuno dipendono anche dalle scelte degli altri. In parole semplici, è la scienza delle strategie, serve a prevedere cosa accade quando ogni giocatore vuole massimizzare il proprio vantaggio, ma deve farlo in un contesto dove nessuno agisce da solo.
La teoria dei giochi spiega fenomeni che vanno dalle guerre dei prezzi alle aste online, dalle trattative politiche al comportamento dei mercati digitali. Uno dei modelli più noti è il dilemma del prigioniero: due persone vengono arrestate e interrogate separatamente. Se entrambe tacciono, ricevono una pena lieve. Se una confessa e l’altra no, il traditore viene liberato e l’altro condannato severamente. Se confessano entrambe, sono entrambe punite.
La scelta razionale di ognuno, accusare l’altro per evitare il peggio, porta però a un risultato peggiore per entrambi rispetto alla cooperazione. Questo paradosso spiega perché la competizione non garantisce sempre l’efficienza e come l’equilibrio raggiunto spontaneamente possa non essere il migliore per la collettività. Nel linguaggio matematico, questa condizione è chiamata equilibrio di Nash: una situazione in cui nessun giocatore può migliorare il proprio risultato cambiando strategia da solo. Nel caso degli algoritmi di pricing, se entrambi trovano un equilibrio stabile, anche a prezzi elevati, nessuno ha incentivo ad abbassare il prezzo. Si tratta di una forma di cooperazione implicita, che nasce naturalmente dalle logiche dell’apprendimento automatico, senza bisogno di accordi o fiducia reciproca.
La collusione tacita e il ruolo delle minacce implicite
Lo studio di Calvano et al. (2020) mostrava che questa cooperazione algoritmica era sostenuta da un meccanismo simile alle minacce implicite: se un algoritmo avesse abbassato il prezzo, l’altro avrebbe risposto tagliandolo drasticamente, finché entrambi tornavano all’equilibrio. Era una versione digitale del vecchio dilemma del prigioniero, ma giocato da macchine. Una forma di “disciplina” emergente, non scritta ma efficace. Per la comunità economica e antitrust, fu una svolta: il comportamento collusivo non richiedeva più accordi o consapevolezza, ma poteva emergere in modo spontaneo dall’apprendimento automatico.
La collusione senza minacce: la nuova frontiera della ricerca
Nel 2025, un nuovo studio di Eshwar Ram Arunachaleswaran, Natalie Collina, Sampath Kannan, Aaron Roth e Juba Ziani, pubblicato per la conferenza Innovations in Theoretical Computer Science (ITCS) con il titolo Algorithmic Collusion Without Threats https://ideas.repec.org/p/arx/papers/2409.03956.html, ha fatto un passo ulteriore.
La domanda semplice e dirompente: “Può la collusione emergere anche quando nessun algoritmo minaccia o reagisce all’altro?” La risposta, sorprendentemente, è sì. Gli autori hanno messo a confronto due algoritmi in un classico gioco di Bertrand. Il gioco di Bertrand è uno dei modelli più noti dell’economia industriale. Descrive una situazione in cui due o più imprese competono fissando i prezzi di un prodotto identico. Ogni azienda sa che i clienti sceglieranno sempre l’offerta più bassa. Quindi, la tentazione è abbassare continuamente i prezzi per conquistare il mercato. In teoria, questo processo dovrebbe portare i prezzi fino al livello del costo di produzione, dove nessuno ottiene più profitti: è il cosiddetto equilibrio di Bertrand, simbolo della concorrenza perfetta. Nell’esperimento il primo algoritmo seguiva una strategia no-regret, cioè imparava a evitare rimpianti: analizzava i risultati passati e aggiustava le scelte future per non perdere profitto. Il secondo, invece, adottava una strategia “non responsive”: sceglieva i prezzi con una distribuzione probabilistica fissa, indipendente dal comportamento dell’altro. Il risultato è stato che anche senza punizioni né coordinamento, il sistema tendeva verso prezzi elevati e stabili, quasi monopolistici. Entrambi i giocatori erano soddisfatti, nessuno aveva incentivo a cambiare ma i consumatori pagavano di più. Gli algoritmi avevano raggiunto un equilibrio collusivo senza collusione.
Le sfide del diritto antitrust nell’era algoritmica
Gli studi di Calvano (2020) e Roth (2025) delineano una stessa conclusione: la collusione algoritmica non è un’anomalia, ma un possibile esito naturale dell’apprendimento automatico in ambienti competitivi.
Per le autorità antitrust, il problema è doppio:
- Non c’è intenzionalità. Gli algoritmi non hanno volontà, e quindi non possono “decidere” di colludere.
- Non c’è comunicazione. Le leggi attuali cercano prove di accordi o scambi di informazioni, ma qui il coordinamento è implicito.
Come ha osservato Roth con ironia:
“Gli algoritmi non bevono insieme, ma si comportano come se lo facessero.”
Eppure, il risultato è lo stesso, prezzi gonfiati, concorrenza ridotta, margini più alti.Alcuni studiosi, come Jason D. Hartline della Northwestern University, hanno affrontato il problema da una prospettiva regolatoria.
Nel paper Regulation of Algorithmic Collusion https://arxiv.org/abs/2401.15794, Hartline propone che i sistemi di pricing utilizzati nei mercati digitali debbano rispettare garanzie matematiche verificabili, in modo da escludere strategie potenzialmente collusive. In particolare, suggerisce di privilegiare modelli dotati della proprietà di no-swap-regret, una condizione che assicura che un algoritmo non avrebbe potuto ottenere risultati migliori scambiando sistematicamente una strategia con un’altra. Questa proprietà implica che, se tutti i partecipanti la rispettano, il mercato tende verso prezzi competitivi anziché collusivi. Hartline propone inoltre l’uso di audit empirici per verificare il comportamento effettivo degli algoritmi senza dover accedere al loro codice, aprendo così una via di controllo più trasparente per i regolatori. Ma nei mercati digitali reali, complessi, dinamici, frammentati, questa idea resta difficile da applicare.
Quando gli algoritmi diventano attori economici
Il nodo è concettuale prima ancora che normativo, gli algoritmi di pricing non sono più semplici strumenti. Stanno diventando attori economici autonomi, capaci di apprendere, adattarsi e involontariamente ridefinire la concorrenza. Nel linguaggio della teoria dei giochi, non sono più “mosse” in mano a un giocatore umano, ma giocatori a tutti gli effetti. Come tali, possono creare nuove forme di equilibrio, nuove dinamiche di mercato e nuovi dilemmi per la regolazione.
Conclusione: la collusione senza colpa
L’insieme degli studi ci consegna un messaggio chiaro: la collusione può emergere anche senza collusori e l’efficienza automatica può generare distorsioni profonde.
La logica del mercato algoritmico non è quella dell’intenzione, ma dell’adattamento.
Ciò che emerge non è necessariamente equo, può essere stabile, razionale, ma penalizzante per il consumatore. Come conclude Aaron Roth, «un modo per avere rimpianto è essere un po’ stupidi. Storicamente, non è stato illegale». Il problema, oggi, è che anche gli algoritmi “stupidi” imparano in fretta. Mentre imparano riscrivono silenziosamente le regole della concorrenza.










