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AI e lavoro: come riscrivere l’alleanza tra generazioni



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L’intelligenza artificiale entra nella pratica quotidiana quando diventa metodo, non eccezione. Cinque scelte manageriali trasformano l’AI da progetto a cultura: normalizzazione, ascolto bottom-up, visibilità dei prototipi, metriche qualitative, apprendimento reciproco

Pubblicato il 7 nov 2025

Giacomo Marchiori

co-founder di Talentware



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L’intelligenza artificiale nel lavoro non rappresenta una battaglia tra tecnologia e persone, ma il terreno su cui riscrivere l’alleanza tra generazioni.

Mentre la narrazione dominante continua a dipingere l’AI come minaccia, i dati della prima edizione di HReboot raccontano un’altra storia: il 62% dei professionisti HR la considera un potenziatore delle competenze umane.

Non un avversario. Non un rischio. Non un predatore. Un moltiplicatore di capacità.
Questo dato non dovrebbe passare inosservato: è la prova che la narrazione di paura non è più allineata alla percezione reale del lavoro.

L’AI come leva umana e non antagonista

HReboot, il Real Talk intergenerazionale sul futuro del lavoro organizzato con l’HR advisor e business-mental coach Alessandro Castelli e Floriano Bollettini, presidente Albert School Italia, ha fatto emergere un punto decisivo per il contesto italiano: la discussione su AI non è (e non è mai stata) una sfida “tecnologia contro persone”. È il terreno in cui si ridisegna il patto tra generazioni.
Chi entra oggi nelle organizzazioni guarda all’AI come a un’estensione del lavoro, non come a una minaccia.
E chi guida le organizzazioni ha il compito di trasformare questa estensione in metodo, non in eccezione.
La domanda che rimane sul tavolo, allora, non è “quanto sarà potente l’AI?”
Ma: come useremo questa potenza per far crescere il lavoro e non per restringerlo.

La vera partita è la rinegoziazione dell’alleanza tra manager e nuove generazioni.
La domanda non è “cosa farà l’AI a noi”. La domanda è: chi guiderà questo salto e come lo guiderà. La conversazione sull’AI non è più una conversazione tecnologica.
È una conversazione di ruolo, di responsabilità, di governance.
È lì che si gioca il futuro: non sulla capacità di usare un modello, ma sulla capacità di dare senso condiviso a un salto di competenze che sta accadendo adesso.


Il lavoro italiano tra transizione e ricerca di fiducia

Durante HReboot è emersa un’Italia aziendale in mezzo al guado.
Il sondaggio live, “Lavoro, cultura, intelligenza e futuro”, l’ha mostrato con una chiarezza quasi disarmante: la transizione verso modelli più umani e “AI-enabled” è partita, ma non ha ancora trovato forma piena e coerenza.
Il 65% dei partecipanti ha definito la cultura aziendale italiana “in evoluzione ma con molta strada da fare”.
Zero, letteralmente zero, l’ha percepita già orientata davvero alle persone.
È un dato simbolico: tutti vedono il movimento, nessuno lo vede completato.

Qui emerge la vera richiesta delle nuove generazioni: non benefit, non status. Ma personalizzazione del percorso e autenticità dei leader.
Più della metà del pubblico ha indicato lo sviluppo personalizzato come leva chiave per attrarre e trattenere talenti.
E il 42% ha puntato sulle leadership autentiche come condizione abilitante del cambiamento.
È un messaggio che va oltre il mondo HR: l’Italia aziendale sta cercando un nuovo equilibrio tra velocità dell’innovazione e maturità culturale.
Il tema non è “digitalizzare di più”, ma ricostruire fiducia. Prima dell’AI. Dentro l’AI. Con l’AI.


L’AI come ponte generazionale e manageriale

Tra i risultati emersi, ce n’è uno che inverte molte narrazioni tossiche che girano nell’opinione pubblica: per il 62% dei partecipanti l’AI non è una minaccia, ma un potenziatore delle competenze umane. E non è un dettaglio: è la chiave di lettura per capire dove sta andando davvero il rapporto tra giovani, manager e tecnologia.

Le nuove generazioni non hanno paura dell’intelligenza artificiale.
Non c’è ansia da sostituzione, non c’è rifiuto.
C’è semmai una paura diversa, più profonda e più adulta: quella di lavorare in organizzazioni che non sapranno governarla. Che si muoveranno lente, confuse, senza una direzione.
Che chiederanno alle persone di “correre” mentre le strutture non sono pronte a farlo.

E qui nasce il cambio di paradigma manageriale: il ruolo non è proteggere dal nuovo, ma abilitare il nuovo. Il valore non è controllare l’innovazione, ma distribuire possibilità.
Non fare da scudo contro la tecnologia, ma diventare ponte tra tecnologia e senso.


Portare l’AI nella quotidianità organizzativa

La vera normalizzazione dell’AI non avviene nei grandi kick-off o nei programmi pilota con naming e logo dedicato.
Avviene quando l’AI entra, senza cerimoniale, nelle micro routine di lavoro: nelle retro settimanali, nei check di avanzamento, nei debrief dopo una pitch presentation o dopo una riunione cliente.
È lì, nella liturgia ordinaria del lavoro, che l’AI smette di essere “programma di trasformazione digitale” e diventa la cornice entro cui il lavoro realmente accade.
Il passaggio è: da “ogni tanto facciamo AI” a “AI è il modo normale con cui ragioniamo, sintetizziamo, decidiamo”.

Scelte per un’AI culturale e sistemica

Le aziende più giovani lo stanno vedendo chiaramente: le pratiche emergenti dei profili 25-35 anni sono spesso anticipazioni di futuri standard, molto più che “curiosità nerd”.
Spesso i manager di linea non intercettano questi pattern perché il loro tempo è speso altrove. Ma quelle micro pratiche che nascono nei team sono informazione strategica.
L’errore peggiore è trattarle come deviazioni dalla procedura ufficiale: significherebbe sprecare un asset. La scelta manageriale vera è riconoscerle, raccoglierle, e farle salire di livello, da esperimenti individuali a conoscenza aziendale.

Rendere visibili i prototipi per accelerare la maturità collettiva

L’adozione culturale non avviene quando l’AI è integrata perfettamente nei sistemi legacy. Avviene quando le prove, anche se imperfette, sono rese pubbliche alla comunità di pratica.
L’esperimento, in sé, è informazione organizzativa. Raccontare cosa si è provato, come, perché non ha funzionato o cosa ha funzionato parzialmente vale quanto la fase “industrializzata” finale.
Le organizzazioni che rendono visibili i tentativi hanno un ciclo metabolico più veloce: maturano prima perché vedono prima. E imparano prima.

Misurare il valore oltre la sola efficienza transazionale

Il KPI “ore risparmiate” è utile, ma è solo la parte più povera del valore.
Il cambio strutturale dell’AI è nella qualità della relazione, nella capacità di argomentare meglio le scelte, nella riduzione dell’entropia comunicativa, nella diminuzione dei conflitti invisibili.
Se continuiamo a misurare AI solo come “time saving” otteniamo un’innovazione cosmetica.
Se invece ridefiniamo le metriche — qualità delle decisioni, qualità della collaborazione, velocità di convergenza — allora l’AI diventa leva strategica.

Legittimare l’apprendimento reciproco come atto politico di governance

Non c’è trasformazione sostenibile se permanere la fiction dell’infallibilità manageriale.
Le aziende che funzionano meglio sono quelle in cui i ruoli visibili della gerarchia dichiarano apertamente di essere in apprendimento continuo.
Questo non è un atto di umiltà. È un atto di governo: dà la cornice culturale perché l’organizzazione possa muoversi insieme, senza generare “debiti sociali” e senza lasciare indietro pezzi.
Legittimare che tutti imparano, dal board ai neohire, è il meccanismo che rende l’AI un sistema, non una moda.

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