Il venture capital in Italia sta vivendo una trasformazione senza precedenti: da mercato periferico a destinazione strategica per i fondi globali, il nostro Paese ha completato un percorso di maturazione che oggi si riflette nei numeri e nella qualità degli investimenti.
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Quando l’Italia diventa strategica per i fondi globali
Il 2025, dunque, sta segnando un passaggio di fase per il venture capital italiano. Dopo anni in cui l’Italia veniva osservata con curiosità ma raramente scelta come destinazione prioritaria per capitali internazionali, oggi sempre più round – anche in fasi avanzate – includono fondi internazionali talvolta di primario standing.
Non si tratta più di episodi isolati o “round fotogenici” buoni per la narrativa, ma di una tendenza che sta maturando trimestre dopo trimestre: i nomi dei fondi globali entrano nelle cap table italiane, mentre founder italiani – sia in patria sia all’estero – guidano operazioni competitive, comparabili per ambizione e qualità a quelle dei mercati europei e globali più avanzati.
L’indicatore chiave di questo cambio di passo non è soltanto l’aumento del capitale investito, ma la natura degli investitori coinvolti. Non semplici “presenze simboliche”, ma lead investor internazionali che scelgono l’Italia e lo fanno in modo strategico, non tattico. È qui che emerge il vero punto di svolta, l’Italia non è più soltanto il Paese delle opportunità non realizzate, ma un mercato che sta diventando parte della mappa globale del venture.
Jet HR, Proxima Fusion e Caracol: i deal che cambiano le regole
Nel 2025 l’elenco dei round che hanno visto la presenza di fondi internazionali è più lungo e più interessante di quanto non si fosse mai visto negli anni precedenti. Jet HR ha segnato un punto di discontinuità con i suoi 25 milioni di euro in Serie A con un lead USA, Base10, al suo primo investimento in assoluto in Italia. Un fondo di San Francisco che decide di entrare in un’operazione italiana non per moda, su una delle startup early stage più promettenti, al fianco di VC locali ed Angels, perché identifica un vantaggio competitivo concreto: la capacità di costruire tecnologia infrastrutturale per le PMI, non semplice software di contorno.
Proxima Fusion è un’altra pietra miliare. Fondata da ricercatori italiani, non ha sede nel nostro Paese ma rappresenta perfettamente il talento italiano che attrae capitali globali. Quest’anno ben 130 milioni di euro in un unico round, il più grande in Europa nella fusione nucleare.
La presenza combinata di Cherry Ventures, Balderton, Plural, UVC Partners e Lightspeed Venture Partners dimostra che quando l’ambizione è di scala continentale, i VC internazionali seguono la competenza, non la geografia.
Lo stesso discorso vale per Caracol, scaleup italiana nel campo della robotica e della manifattura additiva, che ha raccolto 40 milioni di dollari in Serie B grazie alla spinta congiunta di fondi internazionali e italiani. Non solo crescita tecnologica, ma anche governance credibile, pipeline commerciale internazionale e presenza in mercati ad alta densità industriale, ossia quelli che sono i nuovi requisiti che permettono a una scaleup italiana di sedersi al tavolo dei round seri con la R maiuscola.
Sibill e l’ingresso anticipato dei fondi esteri nell’ecosistema
E c’è poi il caso Sibill, fintech AI-driven che ha portato in Italia Creandum, fondo svedese tra i più influenti in Europa e già investitore in Spotify, Klarna e Bolt. Quando un fondo come Creandum decide di fare il primo investimento italiano, non è mai un caso, è quasi sempre una dichiarazione di fiducia nell’ecosistema, ma soprattutto nella capacità dei team italiani di costruire prodotti scalabili per mercati europei e globali, non solo domestici.
A questo si aggiunge un pattern parallelo: fondi stranieri iniziano a entrare anche più a monte, nel seed e nel pre-seed. Verve Ventures prima e Base10 su Lexroom.ai, Dutch Founders Fund su Compri, FilRouge Capital su HEU, Corbites Fund su RarEarth, Seaya Ventures su Trustfull, FoodLabs su Bevy. Questo significa che l’interesse non è più reattivo, ma proattivo e gli scout dei fondi arrivano prima, non dopo, e non “solo” per validare una crescita già provata ma per abilitarla e innescarla.
Tre fattori che spiegano l’interesse dei VC internazionali
Per comprendere questo spostamento di sguardo dobbiamo considerare tre fattori convergenti.
Il primo è che l’Italia oggi genera founder, non solo in termini competenziali ma anche attitudinali, con standard europei ed internazionali, fautori non più di “local startup” ma di imprese nate con alfabetizzazione globale. Molti team italiani hanno studiato, lavorato o lanciato imprese in contesti esteri e oggi applicano quel know-how a mercati nativi o ibridi. L’effetto è un salto di qualità immediatamente percepibile nella due diligence.
Il secondo fattore è la maturazione del mercato domestico. L’ecosistema italiano non è ancora quello francese o inglese in termini di volumi, ma è diventato più leggibile e per questo i fondi internazionali possono mappare rapidamente i cluster di eccellenza, riconoscere sponsor e alleati, comprendendo chi è più credibile come co-investor domestico e di fatto riducendo il rischio di execution.
Deep-tech italiano: la tecnologia nascosta che emerge sul mercato
Il terzo fattore è macro: l’Europa sta accelerando sul deep-tech e l’Italia è uno dei Paesi con la maggiore densità di competenze tecnico-scientifiche, che forse sono state sottovalutate negli anni precedenti. Proxima Fusion è l’esempio più eclatante, ma non l’unico. Infatti quest’anno ci sono stati round di grandissimo impatto anche nella cybersecurity (Exein – 70 milioni di euro), robotica, climatetech industriale, biotech, advanced materials. L’Italia era forte sulla tecnologia nascosta, oggi ha iniziato a portarla sul mercato.
Italian tech week: quando i top fund volano in Italia
Il fatto che fondi come a16z, Sequoia, Lightspeed, Accel e Notion siano volati fisicamente in Italia per Italian Tech Week ad inizio Ottobre, non è folclore, è una cartina tornasole. Per anni, l’Italia è stata raccontata come mercato secondario; oggi, almeno nei radar dei fondi internazionali, è passata nella colonna delle geografie “da monitorare seriamente”. In alcuni casi sta già diventando geografia “da presidiare strutturalmente”.
Questi eventi non sempre portano soldi nell’immediato, ma generano pipeline e familiarità con l’ecosistema. E nel venture, la pipeline decide chi vede le opportunità per primo. Più i top fund vedono founder italiani di qualità, più è probabile che quella relazione diventi term sheet.
Execution prima dello storytelling: il nuovo standard italiano
La fotografia del 2025 non è quella di un ecosistema che corre più degli altri, ma di un Paese che è riuscito – finalmente grazie a un lavoro sistemico trainato sulla parte di divulgazione da soggetti come Italian Tech Alliance – a mettersi nella traiettoria di chi corre. I capitali internazionali non arrivano perché “l’Italia merita più attenzione”, ma perché trova progetti che superano gli standard minimi, e oltre, di mercato globale. Prodotti complessi, narrazione industriale, roadmap internazionale, governance credibile, sponsor domestici riconoscibili. Ed è proprio qui che sta il cambio strutturale: in passato, se un fondo globale guardava l’Italia lo faceva quando non trovava deal migliori altrove, oggi invece arriva perché li trova qui.
La finestra aperta e la sfida della continuità
Il Venture Capital internazionale non è improvvisamente diventato generoso verso l’Italia, è semplicemente diventato selettivo in modo più intelligente. I fondi globali stanno puntando sui founder italiani perché in una fase di mercato in cui contano execution, efficienza, qualità del prodotto e resilienza industriale, l’Italia sta producendo team molto forti proprio su questi assi. Non abbiamo ancora il volume dei round late-stage francesi o inglesi, né la densità sistemica dei grandi hub globali, ma oggi partecipiamo al gioco e lo facciamo da una posizione più credibile rispetto a qualsiasi momento dell’ultimo decennio.
Il prossimo salto dipenderà da quanto saremo in grado di consolidare questa traiettoria. Se riusciremo a far sì che ogni primo investimento estero non resti un caso isolato ma diventi un’apertura stabile di pipeline, allora la presenza internazionale nell’ecosistema italiano non sarà più un’anomalia ma diventerà la normalità. E questa volta non è wishful thinking. È già nei numeri.











