La seconda corsa allo spazio è già iniziata e stavolta l’Europa prova a parteciparvi da protagonista. Con l’Europa, l’Italia.
Non è più la storia di due superpotenze che si sfidano sulla Luna, ma di costellazioni di satelliti, lanciatori riutilizzabili, piattaforme di dati che intrecciano difesa, telecomunicazioni, logistica e finanza. Stati Uniti e Cina avanzano con un ecosistema in cui capitale pubblico e privato lavorano in modo coordinato. L’Europa, pur avendo una tradizione spaziale di prim’ordine, rincorre.
Il vuoto di capacità di lancio che ha seguito il pensionamento di Ariane 5 e i problemi di Vega-C ha costretto per oltre un anno Stati e aziende europee a rivolgersi a SpaceX, simbolo di una dipendenza strategica che pochi, nel Vecchio Continente, hanno avuto il coraggio di guardare in faccia.
Nell’ultimo anno l’Europa ha totalizzato appena una manciata di lanci orbitali, contro oltre cento negli Stati Uniti, fotografando con crudezza il divario industriale e organizzativo.
| Area / Paese | Lanci orbitali 2025 (a novembre) | Quota sul totale mondiale (≈283) |
|---|---|---|
| Stati Uniti | 176 | ≈ 62,2 % |
| Cina | 76 | ≈ 26,9 % |
| Russia | 15 | ≈ 5,3 % |
| Europa | 5 | ≈ 1,8 % |
| India | 4 | ≈ 1,4 % |
| Giappone | 3 | ≈ 1,1 % |
| Germania | 1 | ≈ 0,4 % |
| Australia | 1 | ≈ 0,4 % |
| Israele | 1 | ≈ 0,4 % |
| Corea del Sud | 1 | ≈ 0,4 % |
| Totale mondo | 283 | 100 % |
Indice degli argomenti
La seconda corsa allo spazio e la sfida europea
Ariane 6 e il ritorno in servizio di Vega-C promettono di voltare pagina, ma non di chiudere la partita.
I numeri della nuova generazione di lanciatori – una trentina di missioni già in portafoglio per Ariane 6, con l’obiettivo di arrivare a 10–12 lanci all’anno – segnalano un rilancio, non ancora una rivoluzione. (Le Monde.fr) Anche l’apertura di nuovi spaceport europei, come Esrange nel nord della Svezia, che si candida a diventare hub per il lancio di piccoli satelliti, mostra la volontà del continente di costruire una propria infrastruttura autonoma.
Urso (Mimit): “Dall’Italia 3,5 miliardi all’Esa, record storico”
“L’Italia torna protagonista nello Spazio europeo, contribuendo in modo significativo alle determinazioni della Ministeriale dell’ESA”.
Così il ministro delle Imprese e del Made in Italy e Autorità delegata per lo Spazio, Sen. Adolfo Urso, ha commentato la conclusione a Brema del Council Meeting at Ministerial Level 2025 dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
“Lo dimostrano l’ingresso di un astronauta italiano tra i tre europei destinati alla missione lunare Artemis e la decisione di aumentare il nostro contributo all’Agenzia Spaziale Europea di oltre il 13%, portandolo a 3,5 miliardi”.
“Una cifra mai raggiunta dal nostro Paese, un impegno che ha superato le aspettative della stessa ESA e che assicurerà la copertura integrale di tutti i programmi per noi prioritari e che hanno importanti ricadute industriali nel nostro Paese: dall’accesso allo spazio con Vega e Ariane all’osservazione della Terra, dalla navigazione alle comunicazioni in sicurezza, fino agli esperimenti spaziali”.
Nel frattempo, però, il baricentro della competizione si è spostato: non basta più avere un buon razzo o una buona costellazione. Serve un ecosistema industriale capace di fare scala, attrarre capitali, consolidare competenze. Ed è qui che la filiera italiana dello spazio può diventare protagonista – a condizione di superare il proprio cronico “nanismo”.
Europa senza rotta comune: più budget, poca visione. L’ultimo Consiglio ministeriale dell’Agenzia spaziale europea (ESA), a Brema, ha sancito un aumento di bilancio senza precedenti: 22,1 miliardi di euro in tre anni, circa il 30% in più rispetto al triennio precedente.
Un segnale chiaro che lo spazio è ormai percepito come dominio strategico, non solo tecnologico.
Eppure, come ha sottolineato un editoriale di Le Monde, questo sforzo resta insufficiente se confrontato con i livelli di investimento di Stati Uniti e Cina, e soprattutto non è sostenuto da una visione davvero unitaria. L’Europa continua a muoversi come un mosaico di ambizioni nazionali, con priorità divergenti e un’allocazione delle risorse ancora governata dalla regola del “ritorno geografico”, che frammenta anziché concentrare.
La stessa dinamica emersa a Brema è indicativa: la Germania si è affermata come primo contributore, superando la Francia, mentre l’Italia ha aumentato il proprio impegno, guadagnando peso politico e industriale all’interno dell’ESA.
Questa competizione intraeuropea può essere virtuosa solo se si traduce in una maggiore capacità di coordinare filiere e progetti, e non in una corsa parallela a chi costruisce il proprio mini-ecosistema nazionale.

Filiera spaziale italiana tra eccellenze e nanismo
L’Italia non è una comparsa in questa storia. Dalla stagione pionieristica del progetto San Marco alla partecipazione alla famiglia Ariane, passando per la leadership in segmenti come la manifattura di moduli abitativi, i sistemi di propulsione e l’elettronica di bordo, la filiera spaziale italiana è ampia, articolata, sofisticata.
Il Consiglio ministeriale di Brema lo ha confermato anche sul piano politico: Roma ha alzato la posta, presentandosi al tavolo ESA con un mandato a impegnare risorse superiori a quelle del precedente meeting di Parigi e con la presidenza stessa dei lavori affidata al ministro italiano competente.
Sotto la punta dell’iceberg rappresentata dai grandi player, vive però un arcipelago di piccole e medie imprese altamente specializzate: aziende che producono componentistica per i lanciatori, materiali compositi per strutture critiche, sensori, software per il controllo d’assetto, sistemi di analisi dei dati satellitari, servizi di integrazione a terra. Molte di queste imprese esportano una quota significativa del fatturato, lavorano per programmi ESA e per i principali prime contractor europei, ma restano di dimensione limitata, spesso familiare, con una struttura manageriale ancora fragile rispetto alle sfide globali.
È qui che emerge il paradosso italiano: possediamo eccellenze tecnologiche riconosciute, ma fatichiamo a trasformarle in piattaforme industriali in grado di competere con i campioni stranieri.
Come la filiera spaziale italiana può crescere tramite aggregazione
Il “nanismo” delle PMI italiane è un fenomeno strutturale, non una semplice statistica. Nel settore spaziale assume contorni particolarmente problematici.
Un’azienda con poche decine di milioni di fatturato, per quanto profittevole e ben gestita, ha margini limitati per:
- investire in laboratori di test e qualifica spaziale propri;
- sviluppare più linee di prodotto in parallelo;
- reggere i tempi lunghi dei programmi istituzionali;
- attirare e trattenere talenti ad alta specializzazione, spesso corteggiati da giganti internazionali.
Il risultato è che molte PMI rimangono “fornitori brillanti”, ma difficilmente diventano “soggetti di sistema”. Fanno bene la loro parte, ma non possono guidare la trasformazione della filiera.
L’aggregazione industriale, se governata con intelligenza, è la via maestra per superare questo nanismo. Non per creare, dall’oggi al domani, colossi artificiali, ma per costruire piccole piattaforme integrate: gruppi capaci di mettere insieme una manciata di imprese complementari, ognuna forte nella propria nicchia, che in rete assumono una massa critica del tutto nuova.
In altre parole, l’aggregazione non è la negazione della PMI, ma il suo completamento: consente di conservare radicamento territoriale e flessibilità, aumentando al tempo stesso accesso a capitale, potere contrattuale, capacità di investimento.
I vantaggi dell’aggregazione per la filiera
Aggregazione come risposta al nanismo: perché conviene all’Italia. L’aggregazione, sostenuta da capitale di Private Equity con orizzonte paziente, offre almeno cinque vantaggi che parlano direttamente al caso italiano.
- Scala minima efficiente.
Una piattaforma che riunisce quattro o cinque PMI può giustificare investimenti impossibili per la singola azienda: camere bianche, banchi prova, infrastrutture di test per componenti critici, sistemi avanzati di cybersecurity e gestione dei dati. Questo vale sia per i segmenti “hardware” (lanciatori, satelliti, payload) sia per le applicazioni a valle (osservazione della Terra, telecomunicazioni, servizi di navigazione). - Potere contrattuale nella catena del valore.
Un gruppo aggregato smette di essere un “fornitore sostituibile” e diventa un partner strategico per i grandi contractor europei. Può negoziare meglio condizioni economiche, tempi di pagamento, clausole di co-sviluppo tecnologico, partecipazione a programmi di lungo periodo. - Capacità di assorbire shock e rischi.
Il settore spaziale è per definizione ad alta volatilità: ritardi nei lanci, cambi di scenario geopolitico, slittamenti di programmi militari o civili. Un gruppo che mette insieme più linee di business e più mercati è più resiliente agli shock rispetto alla PMI isolata, che risente molto di un singolo contratto perso o ritardato. - Attrattività per i talenti.
Giovani ingegneri, data scientist, esperti di intelligenza artificiale applicata allo spazio cercano ambienti dinamici, con prospettive internazionali e piani di crescita chiari. Una piattaforma aggregata può offrire percorsi di carriera, mobilità interna, progetti di frontiera che una piccola struttura non può garantire. - Continuità intergenerazionale.
Molte PMI della filiera spaziale italiana sono guidate da imprenditori di prima generazione, prossimi al passaggio di mano. Il Private Equity, in ottica buy & build, può rappresentare la soluzione per dare continuità all’azienda, monetizzare il valore creato dall’imprenditore e al contempo inserirla in un progetto più grande, preservando competenze e occupazione qualificata.
Private Equity e buy & build per la filiera spaziale italiana
In questo contesto, il Private Equity non è un “finanziere” che irrompe in un settore fragile, ma può diventare uno strumento di politica industriale nel senso più concreto del termine.
Le strategie di buy & build sono la declinazione più adatta al tessuto italiano: un fondo individua una società “piattaforma”, già sufficientemente strutturata e con una posizione solida in un segmento della filiera spaziale italiana (ad esempio l’avionica per satelliti, i sistemi di propulsione o le strutture in composito), e la utilizza come base per acquisire e integrare altre imprese più piccole e specializzate.
Buy & build come leva industriale
“Buy” è l’atto di acquisire; “build” è il lavoro, ben più lungo e complesso, di costruire un gruppo coerente:
- armonizzare processi produttivi e sistemi informativi;
- condividere investimenti in laboratori, certificazioni, infrastrutture;
- creare un’unica interfaccia commerciale verso grandi clienti istituzionali e privati;
- definire un piano di ricerca e sviluppo comune invece di una costellazione di micro-progetti scollegati.
Per la filiera spaziale italiana, ciò significa poter immaginare piattaforme da qualche centinaio di milioni di fatturato, radicate in più regioni, ma in grado di presentarsi sul mercato europeo come attori integrati: fornitori di sottosistemi completi, non soltanto di componenti.
Un esempio di piattaforma italiana nello spazio
Piccole piattaforme, grande strategia: come potrebbe funzionare. Immaginiamo una piattaforma italiana focalizzata sui sistemi di bordo per satelliti di nuova generazione. La società “capofila” è un’impresa già presente nei programmi ESA e nei progetti di difesa, con capacità di integrazione e certificazioni avanzate.
Attorno a questa, il fondo di Private Equity costruisce, in cinque-dieci anni, un perimetro di acquisizioni mirate:
- un produttore di componenti elettronici rad-hard;
- un’azienda specializzata in software di guida e controllo;
- un’impresa esperta in soluzioni di cybersicurezza per infrastrutture spaziali;
- una realtà attiva nei servizi di terra e nelle piattaforme di gestione dati.
L’aggregazione consente di presentarsi ai grandi programmi europei – che si tratti di missioni scientifiche, di osservazione terrestre o di comunicazioni sicure per la difesa – come un interlocutore unico, in grado di offrire soluzioni end-to-end. In un contesto in cui l’ESA ha esplicitato la volontà di rafforzare la resilienza e la competitività del settore, anche tramite maggiore coinvolgimento del privato, una filiera più strutturata trova più facilmente spazio e ascolto.
Lo stesso ragionamento può valere per altre piattaforme: propulsione “green”, strutture leggere per lanciatori, servizi commerciali legati alle nuove costellazioni. La logica non è quella del “campione nazionale” monolitico, ma di una costellazione di piccole piattaforme italiane, ciascuna con una specializzazione chiara, collegate a livello europeo in catene del valore più ampie.
Il ruolo delle istituzioni per la filiera spaziale italiana
Se il mercato e il Private Equity possono farsi carico della costruzione delle piattaforme, alle istituzioni spetta un compito altrettanto decisivo: dare stabilità e prevedibilità al quadro strategico.
La prima leva è la definizione di priorità industriali chiare. In quali segmenti l’Italia mira a una leadership europea? Dove invece ha più senso integrarsi come partner di secondo livello in filiere guidate da altri Paesi? La scelta non può essere “di tutto un po’”: in un contesto di budget limitati e concorrenza crescente, la dispersione è il nemico.
La seconda leva è la regolazione degli appalti pubblici e dei programmi di lungo periodo. Gare e bandi troppo frammentati, spezzettati tra mille micro-progetti, favoriscono la sopravvivenza del nanismo e penalizzano chi si organizza per fare scala. Programmi pluriennali, con meccanismi che valorizzino integrazione e capacità di investimento, sono invece il terreno naturale per le piattaforme create tramite buy & build.
Infine, c’è il tema della coerenza europea. L’editoriale di Le Monde ha sottolineato come il continente, pur aumentando il budget ESA, continui a soffrire per la mancanza di una visione comune, con Paesi che inseguono proprie mini-strategie nazionali, talvolta in concorrenza tra loro. (Le Monde.fr)
In questo quadro, proprio le filiere industriali consolidate – italiane incluse – possono diventare un fattore di stabilizzazione: se la catena del valore è integrata su scala europea, anche la politica è costretta a ragionare in termini più cooperativi.
Una scelta di scala per l’Europa nello spazio
Alla fine, la questione non è ideologica. Non si tratta di essere “pro” o “contro” il Private Equity, o di difendere a oltranza la PMI come se fosse un feticcio immutabile del capitalismo italiano. La vera domanda è se l’Italia voglia limitarsi a fornire tasselli – per quanto sofisticati – alle strategie altrui, oppure contribuire a definirle.
Nel mondo della seconda corsa allo spazio, chi resta piccolo resta periferico. L’aggregazione, sostenuta da strumenti di Private Equity e da strategie di buy & build ben disegnate, è il modo più realistico per superare il nanismo senza cancellare l’identità industriale dei territori e delle imprese. Le piccole piattaforme italiane che nasceranno da questo processo potranno sedersi ai tavoli che contano, dialogare alla pari con i grandi contractor europei, attirare capitali globali, farsi ascoltare nei consessi in cui si decide il futuro dello spazio europeo.
La finestra temporale non è infinita. Gli investimenti annunciati dall’ESA, la spinta di Paesi come Germania e Italia, l’apertura di nuovi spaceport, il consolidamento di Ariane 6 e delle costellazioni in orbita bassa indicano che i prossimi cinque-dieci anni saranno decisivi.
Per l’Italia, è il momento di fare una scelta di scala: restare un arcipelago di ottime PMI, destinate a orbitare attorno a grandi pianeti industriali altrui, o trasformarsi in un sistema di piccole piattaforme integrate, capaci di tracciare rotte proprie nella nuova geografia dello spazio.
In questa decisione, la leva del Private Equity e delle operazioni buy & build non è un dettaglio tecnico, ma uno degli snodi attraverso cui passerà il destino della nostra filiera spaziale – e, con essa, una parte significativa della nostra sovranità tecnologica.














