lotta alla pirateria

Piracy Shield: cosa non sta funzionando (e perché)



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A quasi tre anni dall’impianto normativo e dopo il debutto del 2024, l’antipezzotto italiano mostra un saldo controverso: i vantaggi attesi si scontrano con criticità tecniche e istituzionali. Il rischio è una “corsa alle armi” che colpisce anche chi usa servizi legittimi

Pubblicato il 22 dic 2025



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Siamo quasi arrivati alla boa del terzo anno del Piracy Shield, “l’antipezzotto” all’italiana, il cui primo passo affonda nella legge 14 luglio 2023, n. 93 e il debutto ufficiale a febbraio 2024.

Fu premura dello scrivente delinearne le criticità più evidenti già a maggio dell’anno che ormai si appresta alla chiusura, anticipando come sarebbe stato sempre più vicino il tempo del redde rationem, il bilancio finale.

Bilancio del Piracy Shield: quando le criticità superano i vantaggi

Bilancio che è possibile ora redigere: le criticità hanno evidentemente superato i vantaggi forniti, e la natura dello strumento è diventata il suo peccato originale. Storicamente, le misure adeguate di protezione del diritto d’autore ereditano dagli strumenti di tutela della proprietà privata la loro natura di “corsa alle armi”, una furiosa e mai interrotta gara tra guardie e ladri, produttore e consumatore, padrone/signore e utente, onesti e meno onesti.

Sono passati millenni e generazioni dalla prima grotta piena di cibo, pelli e oggetti di valore chiusa agli estranei da un grosso masso, e siamo nell’era della singolarità tecnologica in cui non è la custodia del fisico, ma dell’immateriale la frontiera.

Eventi sportivi, film e trasmissioni in streaming che si desidera fruibili solo da parte dell’utente pagante finiscono nel mercato pirata.

La logica repressiva del Piracy Shield e l’onere sui provider

La soluzione italiana ad oggi, si è visto, è stata rapida e repressiva, onerando i Service Provider e i gestori del servizio del rapido oscuramento del contenuto “rubato”: un conflitto in cui la tutela del prodotto dei maggiorenti della Rete passava dalla inefficace cooptazione del mondo delle Big Tech e dei fornitori di servizi.

Come nella scena tipica del film western vintage in cui lo sceriffo, incapace di ammettere di essere soverchiato dalle forze dei banditi, convoca gli uomini abili del villaggio annunciando che da quel momento in poi “essi saranno vicesceriffi”, mettendo in mano loro pistole e stelle di latta, provider e gestori di servizi si sono ritrovati da soli ad arginare l’orda con un provvedimento ottriato e mai discusso.

“Era così perché doveva essere così”, insomma: non vi erano alternative alla lotta al pezzotto.

Stringere il pugno: Piracy Shield tra deindicizzazione, DNS e VPN

“Cooptare di fatto le Big Tech, con ordini di deindicizzazione sugli operatori stabiliti e proposte di agire sui Resolver DNS e sulle VPN, sostanzialmente avvera la profezia pubblicata su queste pagine a ottobre 2024: ci si trova di fronte alla consapevolezza che stringendo il pugno della pirateria sempre più forte (passando dalle partite di Calcio alle serie televisive e altri contenuti, dai resolver locali ai resolver globali, estendendosi alle VPN), quello che si otterrà non è fermare la sabbia, ma fare in modo che essa scivoli dalle dita”.

Comparve su queste pagine a maggio facendo riferimento ad un “sabato nero” del precedente 2024 in cui fu proprio Google a cadere vittima della lotta alla pirateria. Un servizio essenziale di Google Drive, cloud usato per scopi legittimi, divenne inaccessibile.

Inaccessibile, si badi, per alcuni ma non per tutti.

Quando il blocco colpisce servizi legittimi: l’effetto dei falsi positivi

Il meccanismo alla base del Piracy Shield, ci ricorda oggi l’Associazione Italiana Internet Provider, ha dimostrato le stesse criticità evidenziate ex pluris in queste stesse pagine, e raccolte dalla Commissione Europea, follow up di una dichiarazione del 2023.

Si parta dal tecnico per arrivare al pratico: “sono soggetti a obblighi tecnici stringenti e immediati, altri attori della filiera continuano a restare completamente fuori dal perimetro d’azione: fornitori satellitari, CDN internazionali, gestori di DNS pubblici extra UE, piattaforme OTT, e VPN offshore. Il risultato è una disomogeneità strutturale che vanifica l’efficacia delle misure nazionali, scaricandone gli oneri sugli operatori di accesso italiani, che non hanno alcuna responsabilità né traggono alcun beneficio – anzi – dalla pirateria”, riporta AIIP rifacendosi a quanto affermato dalla Commissione Europea.

È lo specchio di quanto riscontrato in queste pagine: tornando al sabato nero del 19 ottobre 2024, molti utenti “legittimi” si accorsero di essere stati privati di un necessario strumento di lavoro, con grave danno.

DNS alternativi e “immunità” involontaria: perché alcuni non vedono i blocchi

Ma molti altri non si accorsero neppure del disservizio. Parliamo dell’utente mediamente evoluto, derisivamente chiamato “lo smanettone informatico”, abituato all’uso di DNS alternativi rispetto a quelli dei provider di uso per vari scopi: dall’ottimizzare le velocità di accesso all’avere una sorta di filtro antispam, fino a migliorare le prestazioni nei giochi online.

Esattamente quel genere di utente la cui conoscenza informatica funge da stimolo nell’“osare” e sfidare i limiti imposti perché li conosce bene.

Sfida neppure volontaria: l’utilizzo di DNS pubblici esteri è prassi così comune che alcuni utenti potrebbero scoprire di essere immuni al blocco senza neppure aver cercato di porsi in tale posizione “piratesca”.

Pensiamo infatti al DNS (Domain Name Resolver, sorta di indice che traduce gli indirizzi IP numerici nei “nomi sito” che rendono Internet accessibile) come una sorta di mappa del Governo Mondiale dove ogni isola del tesoro (intendendo come tesoro il contenuto online) viene rigidamente riportata: se il Piracy Shield si basa sull’illusione che la decisione ottriata del “Governo Mondiale” possa costringere i singoli corsari, capitani e satrapi locali a cancellare dalle mappe le varie isole dei Pirati (come la leggendaria Isola di Tortuga), scopriremo che:

  • corsari, capitani e satrapi saranno ogni volta interessati da un impegno ultra vires, oneroso e che scaricherà su di loro il peso dell’azione, dell’inazione e del disservizio (pensate alle lamentele di chi si ritrovò ad ottobre 2024 tagliato dal frutto del suo lavoro);
  • chi sarà effettivamente ostacolato dal raggiungere la Nuova Tortuga sarà quel genere di marinaio “dilettante” che non aveva interesse, capacità o abilità per salpare per i mari in tempesta alla ricerca del tesoro;
  • il “Capitano di Ventura” di lungo bordo ha già facile accesso a mappe alternative a quelle dei provider italiani (e censurate per volontà del Leader), anzi, le usava e continuerà ad usarle.

Siamo in un mondo in cui la capacità di essere un pirata diventa un riflesso dell’abilità del semplice utente. Siamo in quel mondo descritto a ottobre 2024 e maggio 2025 in cui il Piracy Shield assume l’aspetto di una mano che si stringe intorno a un pugno di sabbia per cercare di trattenerlo.

Più la stretta è forte, più granelli sfuggiranno. E ogni tentativo di aumentare la stretta non farà altro che indebolire lo strumento.

Il Digital Divide, incubo della Generazione Internet, torna legato all’illusione del controllo in un sistema che scontenta tutti senza rendere nessuno felice (ma l’obiettivo delle norme non è la felicità, bensì il rispetto delle regole), creando un vero e proprio doppio binario in cui la medesima regola diventa quella che i gamer accaniti chiamerebbero skill issue, “questioni di abilità”.

Un mondo alla rovescia in cui al “meritevole e capace” non viene già mostrato un premio, ma la riprova che le sue conoscenze e competenze lo rendono in grado di piegare delle regole che per chi, non meno meritevole si badi ma forse meno capace dal punto di vista tecnico, sono ostacoli non solo alla fruizione indebita del contenuto online, ma alla fruizione lecita.

Nonché un sistema in cui la struttura fondante di Internet rischia di diventare una catena di comando in cui l’immanente volontà di chi vorrebbe combattere la pirateria trasforma i provider, punti di accesso al “mare della Rete”, in guardiani onerati di responsabilità maggiori di quanto umanamente prevedibile.

Piracy Shield, DSA e responsabilità degli intermediari: i nodi giuridici

Quest’ultimo punto divenne ragione del contendere già a Luglio appena trascorso: il Digital Services Act, per sua stessa natura, è conservativo rispetto alle responsabilità dell’intermediario, mentre il Piracy Shield pone in capo allo stesso responsabilità ultronee e sovrabbondanti.

Già una nota di giugno inoltrata al ministero degli esteri aveva enucleato una serie di violazioni: a. violazione dell’articolo 9 DSA, che prevede che gli ordini di rimozione dei contenuti siano redatti in una lingua comprensibile per il destinatario e che rispettino requisiti formali e sostanziali ben precisi; b. rischi per la libertà di espressione stante i tempi ristrettissimi sia per il blocco del contenuto che per i reclami, nonché il fatto che il contenuto resterà comunque inaccessibile fino al vaglio del reclamo stesso; c. la sproporzione insita nella richiesta “a tappeto” ai provider.

Lo strumento che verrà non può agire solo a valle ma a monte, consentendo di individuare e colpire il produttore del pezzotto.

Sic stantibus rebus, nell’odioso ma necessario ricorso alla similitudine tra fisico e virtuale (odiosa in quanto i due mondi sono più connessi di quanto sembra), ci si trova nella situazione in cui ci si illude di poter fermare l’indotto dell’illegale e del contrabbando, del marchio falsificato e della tutela del diritto d’autore, piazzando guardiani ad ogni angolo di piazza per ispezionare le bancarelle e le coperte posate in terra dei manteros ricolme di prodotti di dubbia provenienza, sapendo che gli stessi prodotti continueranno non solo a uscire dalle fabbriche di paesi lontani sia fisicamente che rispetto alla portata della giustiziabilità delle norme a tutela del diritto.

Trasparenza e partecipazione: oltre l’ottriato, verso un Piracy Shield migliore

strumento che verrà dovrà essere trasparente, perché solo la trasparenza potrà impedire eventi come quelli evidenziati dall’Unione Nazionale dei Consumatori, con indirizzi legittimi scomparsi per una affrettata segnalazione seguita da un intervento che si vuole rapido come la mannaia del boia e, come essa, difficile da richiamare.

Nessuno sta dicendo che il Piracy Shield non nasca con obiettivi nobili, e che la tutela degli interessi che si vorrebbero tutelati deve cessare. Ma i continui richiami della Commissione Europea dovranno servire come un monito necessario: ci abbiamo provato ed i risultati sono stati decisamente migliorabili.

Abbiamo raccolto un grande tesoro di esperienza, ma ora questa esperienza deve potersi adattare al mondo reale.

La trasparenza è una funzione della partecipazione: ogni rivoluzione ottriata, calata dall’alto verso il basso, è sempre fallita, e la storia stessa delle misure adeguate di protezione del diritto d’autore ad un certo punto si è scontrata col correttivo dei fatti.

Andando a ritroso nel tempo, l’articolo 171 ter della vigente normativa sul diritto d’autore ha visto proprio nelle Corti, sia europee che nazionali, affermarsi il caveat di A.S. Gaudenzi in Guida al Diritto, 8 ottobre 2016 (va sempre analizzato l’uso effettivo della tecnologia), per cui “si deve sempre analizzare l’uso effettivo fatto della tecnologia, senza procedere ad una demonizzazione automatica dello strumento”, e senza considerarla “un cattivo maestro a prescindere”.

Negli USA fu Sony Corp. of America v. Universal City Studios, Inc., 464 U.S. 417 (1984) a stabilire che il diritto delle major a difendere la diffusione dei loro prodotti non poteva arrivare ad impedire l’uso del videoregistratore.

Il concetto di adeguato ha continuità e rima con partecipato: i giochi sono infatti creati dai giocatori stessi, ed essi devono essere coinvolti nella creazione delle regole a più di un livello. Gli ISP andranno quindi interpellati allo scopo di appurare le loro attribuzioni, capacità e competenze.

L’utente finale andrà interpellato, e il suo parere ascoltato senza partire dal preconcetto per cui lo scopo dell’utente finale è la pirateria: la Commissione Europea ha infatti messo nero su bianco come, laddove vi è una pervicace e capillare distribuzione del contenuto legale, fruibile ed accessibile, l’utente preferirà pagare per il mezzo legale che affidarsi al “pezzotto”, spesso esso stesso a pagamento.

L’occhio del legislatore e del regolatore dovrà quindi puntare non sull’utente finale, ma sugli operatori hyperscaler globali, secondo AIIP curiosamente esclusi fino a questo momento. Si spiegherà meglio quanto inteso da AIIP: evitando che alla fonte il contenuto abusivo sia caricato su un cloud Amazon, Microsoft o Big Tech si eviterà che sia richiesto agli ISP di tagliare i contatti tra utenti e infrastrutture.

E facendo in modo che sia chi produce e distribuisce contenuti ad assumere parte dell’onere della vigilanza, si eviterà che vi sia un’Internet a più velocità.

Ovvero una Internet scarsamente consapevole e scarsamente partecipata dove la singola Nazione crea, un blocco dopo l’altro, una situazione di difformità rispetto al resto della Rete, e nella singola Nazione le citate skill issue creino un nuovo digital divide tra chi sa destreggiarsi tra VPN e DNS alternativi e chi resta in balia dell’ottriato.

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